Notti padane a Sesto S. Giovanni

16 Ottobre 2009

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Valeria Piasentà

Sesto San Giovanni, hinterland milanese. Questa cittadina di oltre 81.000 abitanti (più o meno come Treviso o Varese) era conosciuta come la Stalingrado d’Italia: per la Medaglia d’Oro al Valor Militare conquistata dalla Resistenza nelle fabbriche, per le percentuali sovietiche di voti al PCI e le lotte metalmeccaniche degli anni ’70. Qui era sindaco Penati prima di rivestire la carica di presidente della Provincia; dal dopoguerra il Comune è amministrato dalla sinistra ma alle elezioni europee di giugno, con una affluenza del 68%, PdL e Lega hanno ottenuto oltre il 44% dei voti. Da un paio d’anni si cerca di aprire un Centro di cultura islamica così la collettività mussulmana ha acquistato allo scopo, e a proprie spese, una ex-officina in centro. Le prime proteste riguardano la viabilità ma l’Amministrazione, verificata la difficoltà economica di reperire un altro spazio in posizione più idonea, valuta l’opportunità di modificare la destinazione d’uso del fabbricato una volta ottenute le certificazioni di legge. La destra insorge e Borghezio porta la protesta fino al parlamento europeo. A settembre si allestisce un presidio sotto i locali del Comune; la Lega organizza la fiaccolata «Difendiamo la nostra terra e la nostra cultura» con la partecipazione di Borghezio e Salvini, dei circa 200 manifestanti meno di una trentina sono cittadini di Sesto. Poi il PdL chiede il sequestro dell’edificio utilizzato «senza permessi e autorizzazioni prima come oratorio estivo, e poi come moschea», e inoltra un esposto alla Procura di Monza e al prefetto di Milano, a Carabinieri, Polizia di Stato, Polizia Locale, all’Asl di Milano, dove chiede anche «di valutare se la condotta omissiva dell’Amministrazione Comunale e dei suoi rappresentanti abbia o meno rilevanza penale e di provvedere, di conseguenza, d’ufficio». Si fonda un Comitato anti-moschea che il 1 ottobre invita a mezzo stampa tutti i cittadini nei locali dell’oratorio adiacente la basilica di Santo Stefano. Ma la Chiesa locale si oppone e il parroco dal pulpito della basilica, nel corso della messa grande domenicale, proibisce l’uso dei locali al Comitato. Sulla scorta delle richieste milanesi della Lega Nord e del vicesindaco De Corato, ora anche la destra sestese chiede un referendum e la sera del 5 ottobre se ne parla in Consiglio comunale. Ed ecco che succede qualcosa di anomalo: si accende una polemica interna al pubblico, a dimostrazione che il ‘popolo padano’ non è solo quello di Pontida. Volano pesanti insulti fra militanti locali della Lega e un gruppo di giovani sestesi, si interrompe questo Consiglio molto partecipato finché la Polizia municipale ristabilisce l’ordine. Poi le mozioni presentate da PdL, AN e Lega vengono bocciate, grazie a interventi – come quello del consigliere Scacchi – che tendono a mettere paletti all’intolleranza nascosta dietro pretese legalitarie. Malgrado l’articolo 19 della Costituzione italiana garantisca la libertà di culto a tutti e a prescindere dalla fede professata, la diversità di religione e la possibilità di riunirsi e comunicare infastidiscono i benpensanti di Sesto San Giovanni: in tanto nord padano ‘diverso’ equivale a ‘nemico’ e sul diverso si caricano le paure e i disagi sociali, l’incertezza economica, l’insicurezza sul futuro. In virtù di una non ben precisata sicurezza nazionale, il governo della paura gestisce i sentimenti convogliandoli sul capro espiatorio di turno. I cittadini che si oppongono all’apertura di moschee sono poi ben rappresentati da politici con alte cariche istituzionali, come il ministro Calderoli e la sua volgare proposta del ‘Maiale Day’ o le critiche all’arcivescovo milanese Tettamanzi, definito «ultimo baluardo del cattocomunismo». Dal cous-cous al kebab alla moschea, infastidiscono anche i segni della diversità culturale: Roberto Cota ha appena presentato una proposta di legge che proibisce il velo islamico e il ministro Carfagna aderisce. Ma cosa è successo alla coscienza critica e alla liberalità degli italiani? Perché sei italiani su dieci sono convinti che i migranti commettano più reati degli italiani? Come si può ristabilire la realtà dei fatti e soprattutto comunicarla? Caritas-Migrantes e Agenzia Redattore Sociale il 6 ottobre hanno presentato alla stampa il dossier comparativo ‘La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi’ (in www.redattoresociale.it). L’analisi chiarisce: «le fattispecie penali riguardanti i cittadini stranieri sono in larga misura riconducibili alla loro posizione di precariato nell’ordinamento giuridico italiano. Se si escludessero i reati riguardanti la normativa specifica sugli stranieri e i reati che sono strumentali per garantire la loro permanenza, il carico penale nei loro confronti si ridurrebbe di almeno un quarto. Altri reati, invece, sono finalizzati a raggiungere un utile economico in difficili condizioni di sopravvivenza». Gli immigrati vengono denunciati e incarcerati più spesso dei nazionali: al 31 dicembre 2008 i detenuti in Italia erano 58.127, dei quali 21.562 stranieri, «mentre circa la metà degli italiani si trova in carcere per scontare una sentenza definitiva (45,4%), tra gli stranieri la quota è di circa 10 punti più bassa (37,7%), il che evidenzia la funzione maggiormente custodialistica del carcere nei loro confronti», che il Decreto sicurezza amplierà notevolmente. Confrontando il numero di denunce a carico di italiani e stranieri, i dati del 2005 evidenziano queste percentuali: per la fascia di età 18-44 anni, 1,50% per gli italiani e 2,14%/1,89% per gli immigrati; 45-64 anni, 0,65% per gli italiani e 0,50%/0,44% per gli immigrati; 65 e più anni, 0,12% per gli italiani e 0,14/0,12% per gli immigrati. Questi dati dovrebbero costituire la base di partenza per qualsiasi analisi e ragionamento. Ma oggi, nel clima di ‘razzismo democratico’ in cui viviamo, il reato che non si perdona all’immigrato è quello, appunto, di essere un immigrato.

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