A che punto è il femminismo di quarta ondata?

1 Dicembre 2020

[Claudia Palmas]

Negli ultimi tempi, complice la nascita di nuovi collettivi – uno su tutti, Non Una di Meno – e in parallelo l’esplosione dell’attivismo digitale, le tematiche della parità e della liberazione femminile hanno conquistato nuovi lidi e contribuito alla diffusione di una nuova ondata di lotte. Nuovi concetti e nuove battaglie hanno fatto la loro comparsa.

Il femminismo odierno si professa intersezionale, vede come intersecate le dimensioni di oppressione che colpiscono le donne. Per capirci meglio, è utile l’interrogativo che si pone la ricercatrice e filosofa Giorgia Serughetti, nel suo saggio Libere Tutte: “cosa succede quando una donna è nera o migrante o lesbica, oppure lesbica e nera, o musulmana o migrante o disabile o povera, o tutte queste cose insieme? In che modo sarà colpita da politiche e discorsi sessisti, razzisti, omofobi e in generale escludenti?”.

Tuttavia, parte del femminismo va verso una direzione contraria a questi interrogativi. Il femminismo liberale, a livello globale e mainstream, si caratterizza per il suo carattere elitario, muovendosi entro la cornice del neoliberismo, di cui non è interessato a minare strutture e premesse: fra i suoi unici obiettivi vi è la rottura del soffitto di cristallo, che si accompagna alla conquista del potere e di una rappresentazione quantitativa di genere più piena. In questo modo viene trascurato tutto ciò che sta al di sotto: non c’è spazio per le donne subordinate, per coloro che appartengono alla classe lavoratrice, per le migranti, per le casalinghe e per le disoccupate. Ed è in questo aspetto che emergono elitarismi e chiusure. L’intersezionalità professata da questo orientamento è perlopiù una questione di facciata: non è un caso se gran parte delle donne che occupano posizioni elevate nelle aziende e nei luoghi decisionali siano bianche, eterosessuali, cisgender, e abbiano un background socioeconomico più che benestante. Il femminismo liberale, di conseguenza, non mette mai in discussione i cardini su cui si regge il patriarcato: il potere, il capitalismo, l’eteronormatività, e il razzismo strutturale.

Ciò di cui si sente la mancanza è quindi un’attenzione sincera nei confronti dei diritti delle minoranze e della questione di classe. Un femminismo che omette queste dimensioni, spesso e volentieri intersecate, è di fatto individualista: sarebbe il caso di adottare il termine “femminismo della scelta”, piuttosto che intersezionale. Questo orientamento, inoltre, è separatista, poiché rivendica non tanto il superamento delle oppressioni, sovrapposte in senso unitario, ma avanza una politica delle identità, che in questa visione mai si incontrano.

Un altro elemento da guardare con sospetto è l’intrusione delle strategie di marketing nelle campagne femministe, specie nell’ambito dei social media. Si tenga presente quanto oggi, in tempi di pandemia, gli spazi virtuali siano uno dei pochi luoghi entro i quali portare avanti istanze politiche. E, se da una parte ciò rappresenta un’opportunità, consentendo una comunicazione orizzontale, dall’altra facilita l’atomizzazione e la mercificazione delle lotte. Basti pensare ai progetti digitali nati sull’onda della quarta ondata, eccellenti esempi di brand journalism ma non di giornalismo militante o di divulgazione femminista. Oppure, si guardi al fenomeno delle cosiddette “influencer del femminismo”, termine diffuso tra le e gli utenti dei social network per indicare tutte quelle persone che ogni giorno diffondono il verbo dell’individualismo femminista, accompagnato da collaborazioni con marchi e vendita di gadget arcobaleno e che strillano slogan come “girl power”. Queste dinamiche dell’online si dispiegano non prive di toni carrieristici e competitivi, ancora una volta tipici degli schemi del capitale e delle chiusure patriarcali.

Il senso di competizione emerge nel confronto con le altre realtà, specie con le voci più radicali: lo spazio per la critica, per il dissenso, è limitato; non si tratta più di sorelle e compagne, ma di avversarie da abbattere, isolare, allontanare dal dibattito. Un confronto che spesso si fa poco fecondo, anche perché istantaneo, che si accende e diffonde in caso di scandali più o meno eclatanti per poi tornare nelle sue bolle, lontane dalla quotidianità. Si tratta di una tendenza che ricorda le campagne di instant marketing il quale, per definizione, è un approccio mordi e fuggi alla rappresentazione del reale.

Di qui, ecco affiorare una contrapposizione sempre più netta tra l’attivismo digitale e quello di piazza, il quale invece cerca di riportare il femminismo in una dimensione più vicina alla realtà. Ne abbiamo esempio nelle assemblee di Non Una di Meno, le cui attiviste tuttavia non latitano dai media: NUDM è un caso virtuoso dell’utilizzo combinato dei social media e della militanza legata ai territori. Presente online e offline, porta avanti un attivismo arrabbiato, scomodo, lungimirante, che mette in comune i suoi obiettivi e lo fa in modo inclusivo e, per tornare alle necessità dette sopra, autenticamente intersezionale.

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