A proposito di In questo mondo, docufilm di Anna Kauber

1 Ottobre 2020

[Cristina Lavinio]

A Cagliari il 24 settembre, per proseguire nei giorni successivi ad Asuni e a Solarussa, il filmfestival “Terre di confine” si è aperto con la proiezione di In questo mondo, docufilm di Anna Kauber, dichiarato “miglior documentario italiano” al 36° Torino Film Festival 2018 e poi vincitore di alcuni altri premi.

Nel film raccontano e commentano il loro lavoro di pastore di pecore e capre (ma c’è chi alleva anche maiali) 18 donne, selezionate tra le 100 che in due anni Anna Kauber ha scovato e filmato girando per l’Italia in lungo e in largo. Si trovano, anche in rete, varie recensioni giustamente elogiative di questo bel docufilm, che ne mettono in luce molteplici aspetti. Si ha a che fare, certo, con la condizione femminile e la scelta di ‘libertà’ rispetto alle convenzioni di queste donne che fanno con passione il loro lavoro, pur faticoso, e senza preoccuparsi di ricavarne molto economicamente, felici di prendersi cura degli animali e di stare a contatto con la natura, ‘abitandola’. Ma qui vorrei parlare di un aspetto che non mi sembra sia stato ancora sottolineato: quello relativo al parlato delle varie protagoniste, seguite e riprese nella quotidianità straordinaria – per dirla con un ossimoro intenzionale – del loro lavoro. Certo, c’è chi, come Pietro Clemente (in “Dialoghi mediterranei”, 1.03.2020), ha già scritto della polifonia di un film in cui i versi degli animali, i suoni dei loro campanacci e quelli della natura – il vento, la pioggia, lo stormire della vegetazione – si mescolano ai suoni prodotti dai passi e dalle azioni delle protagoniste. Ma non sono state citate prima di tutto le voci diverse e variate di queste pastore, il cui insieme costituisce una corale polifonia plurilingue che riproduce i mille accenti e le mille intonazioni che colorano in modo diverso, da una zona e regione d’Italia all’altra, lo stesso italiano che vi si parla.

Un orecchio appena attento può così percepire, all’ingrosso e complessivamente, almeno un italiano settentrionale e uno meridionale (più quello sardo) sulla bocca di queste pastore; ma un orecchio più fine e allenato può identificare di volta in volta la regione da cui provengono e in cui si svolge il loro lavoro. Solo in pochi casi alcune tra le più anziane parlano quasi interamente nel loro dialetto (tradotto in didascalie talvolta superflue), attraversato però da frequenti mixing con l’italiano (che risulta così mescolato entro la stessa frase alla parlata locale). Oppure si hanno switching passando dall’italiano al dialetto, come quando una pastora sarda, che pure parla soprattutto in italiano, dice bellixedda ‘graziosa’ alla sua pecorella o ne mostra is oghixeddus, ‘gli occhietti’. L’italiano di queste donne – tralasciando accenti e intonazione, che sono invece spesso molto marcati localmente – è per il resto abbastanza vicino all’italiano che diciamo comune, a conferma ancora una volta che, contrariamente a quanto avveniva in passato, almeno da una trentina d’anni a questa parte l’italiano è ormai o la lingua madre, acquisita per prima, o comunque la lingua ormai dominante per la maggior parte dei parlanti italiani, pur nel persistere delle più varie lingue locali nel composito e ricchissimo repertorio linguistico del nostro Paese. Certo, qua e là affiora in questo italiano anche qualche regionalismo morfosintattico o lessicale, come il sardismo (sono quattro in tutto le donne sarde presenti nel film) di chi dice “non voglio a maltrattare [gli animali]” o quello della donna ultracentenaria di Orgosolo che parla con ironia di “lupi cristiani” che rubano le pecore, comprensibile solo ricordando che cristiani sono detti in Sardegna gli esseri umani in genere. Ma ciò che più colpisce è l’emergere talvolta, nell’italiano di queste donne, di parole che, appartenenti a un lessico colto (es.: vicissitudini, frustrazioni, sfaccettatura, stanziale), non fanno certo parte dell’italiano di tutti i giorni ed esulano dal vocabolario di base. E c’è chi dice che sarebbe un sacrilegio non mangiare le carni dell’animale che hai amato e che “ti ha dato tutto” e definisce liquidi primordiali quelli con cui si entra in contatto (una cosa “affascinante, sconvolgente”, precisa) quando, per aiutare a partorire un animale in difficoltà, infili un braccio dentro di lui.

Del resto, non sono tutte poco istruite queste pastore. Tra loro c’è persino qualche laureata. E c’è una musicista che ha frequentato il Conservatorio e che suona il violino alle sue pecore. “Le pecore mi hanno salvato dall’essere rovinata dalla musica”, dice, anche se si diverte a suonare per loro “da dilettante”. E sembra che le pecore ascoltino. Del resto, posso qui ricordare che qualcuno ha consigliato di far sentire musica alle vacche perché producano più latte. Né, dopo questo film di Anna Kauber, mi appare più così balzano, straniante e ‘strano’ come quando l’ho visto, il concerto del film Youth di Sorrentino, in cui un vecchio direttore d’orchestra dirige l’orchestra dei campanacci delle vacche al pascolo…

C’è infine un altro aspetto cui vorrei accennare. Le voci femminili del film di Anna Kauber si rivolgono in modo variato – individualizzato, direi – agli animali (e ai diversi tipi di animali: una cosa è parlare a un cane o a un mulo, altra a una pecora), coccolati e ‘accarezzati’ anche con le parole. Ciascuno di loro ha un proprio nome, che sembrano capire e riconoscere, come dice una delle intervistate parlando delle pecore. Ma in realtà un nome proprio è sempre stato dato a ciascuna anche dai pastori di sesso maschile, come è ben documentato anche in letteratura : si pensi ai nomi delle singole pecore citate in Una stagione a Orolai, romanzo del nostro Salvatore Cambosu: Semprinventana, Spassiosa, Fagabbona, Nasipintada, Safantasima, Corruttosa. E si pensi alle annotazioni di Giulio Angioni a proposito di questi nomi e del loro mettere “in rilievo qualche caratteristica o del mantello o del temperamento, quali Abbettiosa, testarda, Furistera, forestiera, Bagamunda, vagabonda, Skamminàda, vagabonda [o meglio girellona], Lebiedda, leggerina” (I pascoli erranti, Liguori 1989, p. 94). Quelli appena citati sono però nomi propri tutti in dialetto, mentre in italiano (e per lo più nomi di persona) sono invece i vari nomi dati agli animali (Rossella, Sofia, Francesca, Nina, Fortuna) affioranti qua e là nel docufilm di Anna Kauber. E ciò può essere visto come una conferma, persino a questo livello di scelte onomastiche, di quanto dicevo a proposito della ormai pervasiva presenza dell’italiano anche in un mondo pastorale che un tempo era dominato dalla dialettofonia, una dialettofonia ricca e creativa anche nel dare un nome ai singoli animali: si pensi all’uso tradizionale sardo dei nomi di ciascun bue di un giogo che, uniti, formano una frase, magari gridata e ripetuta, facendo finta di chiamare i buoi, ma in realtà con altri destinatari (come nel caso – da me raccolto decenni fa in Marmilla – di Mancai ti pullas / no ti fastiggiu ‘anche se ti fai bella, non ti corteggio’, detta dal contadino passando, al ritorno dal lavoro, sotto le finestre di una determinata fanciulla…).

Comunque, in questo film sono variati, e in una variazione anch’essa regionale che sarebbe tutta da inventariare e studiare, anche i versi e le grida con cui si richiamano i diversi animali, cioè i vari trr, prrr, iiih, ià ecc. che compongono anch’essi la sua straordinaria polifonia. Più in generale, posso ricordare che i versi di richiamo degli animali (quando non sono fischi variamente modulati) sono in genere costituiti da suoni brevi, secchi e imperativi: poche vocali o consonanti ripetute più volte. Ma lo stesso tipo di richiamo per lo stesso tipo di animali cambia spesso non solo da una lingua e cultura all’altra, ma anche da una regione o subregione all’altra. In Sardegna, per esempio, al mussi mussi per richiamare i gatti nel nuorese corrisponde il ps ps ps in campidanese, forse per assonanza con pisittu. Mentre ho trovato attestati (sempre per i gatti) musce musce nel foggiano o pru pru in Lombardia.

Insomma, ripeto, anche variazioni di questo tipo, si intravedono (se si potesse, direi si ‘intrasentono’) nel film di Anna Kauber, che offre materiale molto ricco anche per uno sguardo etnografico che voglia addentrarsi persino su questi terreni poco studiati benché siano così pragmaticamente rilevanti.

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