Ciudad Juárez (Messico): ¡Ni una más!

1 Marzo 2013
Emilia Giorgetti
La frontiera. La frontiera è un mondo a parte. Blindata dai droni, dalle pattuglie della “migra” e da centinaia di chilometri di fortificazioni e filo spinato, assassina per i migranti, si fa porosa quando si tratta di scambiare droga e denaro sporco con arsenali sofisticati, che alimenteranno la potenza di fuoco del narcotraffico.
Nel 1994 gli USA iniziarono la costruzione del “muro della vergogna”, lo stesso anno in cui l’entrata in vigore del trattato di libero commercio NAFTA tra Stati Uniti, Canada e Messico stimolò l’irresistibile industrializzazione delle città messicane di confine, fondata sull’assemblaggio di prodotti da esportazione e favorita dai bassi salari e dall’assenza di protezione sindacale e controlli ambientali. Le “maquiladoras” richiamavano mano d’opera da tutto il Messico. Per i contadini costretti ad abbandonare un’agricoltura schiacciata dai bassi prezzi dei prodotti del vicino del nord, rappresentavano un’alternativa alla fuga verso gli Stati Uniti. Lungo questa linea immaginaria nel deserto si sono andati progressivamente accumulando e oggi si intersecano gli interessi dei cartelli della droga, dei trafficanti di esseri umani, delle multinazionali e della classe politico-imprenditoriale corrotta e si addensano le speranze dei poveri del continente latinoamericano.
Centri come Ciudad Juárez hanno vissuto in pochi anni uno sviluppo urbano abnorme, alimentato dal flusso ininterrotto di mano d’opera, soprattutto donne, sole, dalle campagne e dalle comunità più povere del paese. Vivono nei “barrios” ai margini della città, escono all’alba, tornano dopo il tramonto, usano gli autobus, sono facili prede. Non solo donne, ma per giunta povere e spesso indigene. Nessuno le cercherebbe se scomparissero, nessuno si presenterebbe per riconoscerne il cadavere, nessuno sporgerebbe denuncia.
Le vittime. I ritrovamenti iniziarono nel 1993, lungo le strade che si diramano verso il deserto, nelle discariche delle “maquiladoras”, nei terreni abbandonati ai margini della città. Corpi con segni di violenza sessuale di gruppo e di tortura, spesso mutilati, bruciati, sfigurati, le labbra e i seni strappati a morsi. Donne e ragazze di ogni età, anche bambine: una aveva 3 anni. Una dopo l’altra, il deserto restituiva i corpi devastati dalle sevizie. Si disse che erano prostitute, “sirvientas” (serve) o affiliate ai cartelli della droga. Poi che se l’erano cercata, perché uscivano da sole, al tramonto o all’alba, o perché vivevano senza la protezione di un uomo: spesso infatti erano ragazze madri. E, infine, che il “machismo” messicano era un fatto culturale e le sue vittime la conseguenza ineluttabile. Rapidamente iniziarono a sparire anche ragazzine all’uscita della scuola, una turista olandese, persino giovani di buona famiglia. Si mormorò che dietro c’erano orge, riti satanici o di iniziazione per nuovi affiliati alle bande criminali. Qualcuno parlò di “snuff movies” e di caccia grossa nel deserto, come sport estremo per ricchi clienti. Ma sempre sottovoce: la parola d’ordine lanciata dalle autorità, a partire dal presidente della Repubblica fino all’ultimo funzionario di Polizia, era minimizzare, insabbiare e minacciare chiunque volesse fare luce.
I numeri. Il saldo a Ciudad Juárez è di centinaia di vittime, 258 delle quali solo nel decennio 1993-2003. Negli anni successivi, questo modello feroce di violenza comunitaria di genere si è diffuso rapidamente in altre aree del paese, con tassi medi ufficiali di 42 femminicidi/anno per milione di abitanti di sesso femminile. Nel solo stato di Nuevo León (4.5 milioni di abitanti), uno dei più prosperi della Repubblica, nel 2012 sono state assassinate 132 donne ed è stata denunciata la scomparsa di 500 giovani tra i 10 e 20 anni, allontanatesi volontariamente da casa, secondo la versione della Polizia. Ma quante sono realmente le vittime negli stati più marginali, a forte componente indigena, come Chiapas e Oaxaca, dove le donne spesso non sono nemmeno registrate all’anagrafe: invisibili per definizione? E quante, tra le schiere delle “indocumentadas” che ogni giorno attraversano il Messico con mezzi di fortuna per raggiungere gli Stati Uniti?
Inarrestabile, grazie al contesto di totale impunità e acquiescenza sociale, la modalità seriale di violenza di genere sperimentata a Ciudad Juárez ha varcato i confini del Messico fino a trovare terreno fertile tra le “maras” centroamericane di El Salvador, Guatemala e Honduras, che operano con le stesse modalità, in uno scenario in cui la violenza di genere è ancora più radicata. In questi stati si raggiungono le cifre record a livello mondiale di circa 100 femminicidi/anno ogni milione di abitanti di sesso femminile.
Le persone. La vita di Marisela Ortíz Rivera, insegnante a Ciudad Juárez, cambiò improvvisamente quando la sua alunna migliore, Lilia Alejandra, di 16 anni, scomparve, nel febbraio 2001. Il suo corpo martoriato, avvolto in una coperta, venne rinvenuto dopo 5 giorni in un terreno abbandonato, con segni di tortura .Fu così che insieme a Norma e Malu Andrade, madre e sorella maggiore di Lilia Alejandra, decise di fondare l’associazione Nuestras Hijas de Regresso a Casa, che si occupa delle famiglie delle vittime della violenza femminicida di Ciudad Juárez e della ricerca della verità. Per questo Marisela, ormai figura simbolo a livello mondiale della lotta, si è dovuta rifugiare negli Stati Uniti dove ha chiesto asilo politico.
Anche Malu, dopo una serie di minacce, ha dovuto lasciare Ciudad Juárez per Città del Messico, seguita poco dopo dalla madre Norma, scampata miracolosamente ad un assalto a colpi di arma da fuoco all’uscita da lavoro. La pressione internazionale ha costretto le autorità a dotarla di una scorta che a poco è servita quando, l’estate scorsa, un uomo si è presentato alla porta della sua casa di Città del Messico e l’ha ferita gravemente, questa volta con un coltello.
Un’altra Marisela (Escobedo Ortíz), invece, ha perso la vita nel dicembre 2010 per aver preteso giustizia. Uno sconosciuto le ha sparato alla testa in pieno giorno, mentre protestava pacificamente davanti al Palazzo del Governo nella capitale dello stato, Chihuahua, contro l’impunità per gli assassini di sua figlia Rubí.
Quando la pressione delle famiglie delle vittime, delle organizzazioni dei diritti umani e di certa stampa si fa troppo forte, le autorità sono costrette a dare in pasto all’opinione pubblica l’assassino seriale. Niente di più facile in un paese dove il codice stabilisce la presunzione di colpevolezza e la tortura è praticata sistematicamente nelle carceri e nei commissariati di Polizia. Basta trovare una capro espiatorio sufficientemente debole, costruire le prove a tavolino e, se non basta, costringerlo a confessare.
Abdul Latif Sharif Sharif, per esempio: un chimico egiziano inviato dal suo datore di lavoro statunitense a Ciudad Juarez agli inizi degli anni 90. Abdul è solo, non conosce la lingua ed il suo passato nasconde episodi di violenza familiare e di alcolismo. Il candidato perfetto sul quale far ricadere tutti i crimini irrisolti. Di fronte all’evidente e inarrestabile crescita dei femminicidi anche durante la sua detenzione, si disse che, dalla cella, pagava dei complici incaricati di uccidere ancora per scagionarlo. Abdul si è sempre proclamato innocente. E’ morto in carcere nel 2006 per arresto cardiaco. E’ sepolto in Messico. Come per molte delle vittime della strage di Ciudad Juárez, non è stato possibile rintracciare nessun familiare che ne reclamasse i resti. Solo il console egiziano ha assistito alla sua sepoltura.
Oppure García Uribe e Gustavo González Meza, due conducenti di autobus conosciuti come El Cerillo e La Foca, arrestati nel 2001 con l’accusa dell’omicidio di otto donne i cui resti furono rinvenuti in un campo di cotone ai margini della città. Entrambi furono torturati per costringerli a dichiararsi colpevoli. Entrambi erano abbastanza poveri da non potersi permettere una difesa adeguata che ne dimostrasse l’innocenza. Gonzáles Meza è morto in carcere in circostanze non chiare.
Sergio González Rodríguez, invece, è un giornalista noto per il suo libro “Ossa nel deserto” (Adelphi 2008), che documenta dettagliatamente i casi di femminicidio a Ciudad Juárez, fornendo le prove dei legami tra narcotrafficanti, politici, magistrati, polizia e militari, anche di alto livello, finalizzati a garantire l’ impunità ai colpevoli. Per questo suo impegno subisce continue minacce ed è sfuggito a più di un attentato. “Le vittime sono ragazze giovani, ragazze povere che per guadagnarsi da vivere si sfiniscono nelle “maquilas”. Ragazze che non hanno alcun potere. (………) Ho scritto questo libro per loro” ha dichiarato in una intervista “Per ridare onore, dignità, storia ai loro corpi ritrovati nel deserto, torturati, mutilati, abusati. Vede, spesso mi domandano se non ho paura a raccontare cose così dure, così tormentate. L´unica risposta che mi è possibile è questa: è il coraggio con cui la vittima affronta, nel momento estremo, una morte indegna, a liberarci dalla paura”.

2 Commenti a “Ciudad Juárez (Messico): ¡Ni una más!”

  1. RU GIULIANO GRUPPO 124 scrive:

    E’ un articolo molto completo, che riassume la situazione di un paese in assetto da guerra, che non combatte contro un nemico esterno, ma contro gli individui stessi. Il MESSICO è un paese dove i soldati hanno un potere che va oltre le loro possibilità di azione, Il MESSICO è il cane da guardia degli USA e le forze militari si sentono in dovere, con il loro grande potere, di esercitarlo oltre misura. Ovvero, come se tutta questa situazione, permettesse a loro di agire indisturbati, permettendosi di far vincere il loro istinto animale, il famoso dominio maschile, che non tiene conto della personalità dell’essere, ma che vede solo un corpo da possedere e usare a proprio piacimento. Il potere dei soldati messicani è l’arma che esalta la loro possessività. Questo mette in pericolo la vita di esseri, che si trovano stravolta la loro esistenza a volte pagando con la morte. Pagare con la propria vita, la stupidità di esseri bruti è una cosa ignobile, che deve essere superata al più presto, mettendo sotto i riflettori le persone che contano perché agiscano in modo che le cose cambino al più presto, Stati Uniti compresi. Grazie!!!

  2. Paloma Gargiulo scrive:

    Reportage denso, onesto e doloroso. Cara “periodista” Ciudad non è che il sintomo. Il Messico ha un solo GRANDE problema congenito e si chiama geografia. Quel delinquente di Porfirio Diaz ( que descanse in paz si puede) lo ripeteva continuamente : ” povero Messico così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti”.

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