Contorni: Arte e non arte (3)

16 Ottobre 2015
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Giulio Angioni

Ciò che diciamo arte si riduce a ben poco se lo si vede tutto e sempre solo da qualche parte e solo iuxta propria principia, mentre tutto il resto della vita sarebbe cosa da cui l’arte si deve separare, differenziare, difendere.

Produrre arte, e in fondo essere artisti, è cosa ben più grande e importante se la si considera caratteristica fondamentale della nostra specie, bisogno e capacità ‘fissati’ nella nostra memoria genetica. Ma le persone di media e alta cultura in Occidente fin dall’infanzia sono abituate a ritenere che ci sono cose artistiche e altre che non lo sono né posso esserlo, che ci sono artisti e altri che non lo sono né possono esserlo, che l’arte insomma sta in un luogo particolare e separato della nostra vita, per esempio nei musei e non mai nelle officine, nei romanzi e non certo nelle barzellette.

Questo habitus occidentale, disdetto dalla vita anche occidentale di oggi, è un elemento non solo del senso comune colto e semicolto (e Kitsch) ma anche di filosofie raffinate, anche quando partano dal riconoscimento ovvio che ciò che si dice arte è anch’essa un prodotto della necessità umana elementare di produrre beni materiali, regole e senso per ricavarne soddisfazione e agio di vivere insieme e oltre la mera utilità.

La storia dell’arte e altri modi di guardare alle atività estetiche mostrano che in ciò che la nostra cultura considera artistico c’è varietà di prassi e di risultati, di tempo e di luogo e anche di strato sociale. È nota la varietà dei modi e delle cose su cui le diverse culture investono, ma l’investimento estetico è di tutti i modi di vivere. È esperienza comune la varietà culturale anche nei modi in cui si investe in tempo libero, da noi spesso pensato come luogo di ozi estetici.

La separazione tra ciò che è artistico da tutto il resto è una caratteristica interna e propria della cultura euroamericana di oggi. È nostra la convinzione che l’arte sia e debba essere separata dalla religione, dalla politica, dall’economia, dalla tecnologia e da tutto il resto; che le idee e le pratiche di libertà e separatezza assolute delle attività artistiche e degli artisti sono solo un prodotto recente della cultura occidentale degli ultimi due secoli circa, diventato senso comune tenace per minoranze colte.

La maggior parte dell’umanità fino a oggi è vissuta senza conoscere e praticare distinzioni tra cose come quelle che noi diciamo arte e altre cose che non lo sono, come anche senza concepire e praticare una distinzione, per noi ovvia, tra naturale e soprannaturale, e senza altre dimensioni del vivere e del pensare la vita che per noi sono ovvie e naturali, indispensabili, come la nozione e il sentimento di essere persona, individuo, che in molte culture è cosa così diversa o tenue da apparirci inesistente, un io plurale, un noi, su cui però anche da noi hanno insistito di recente alcune scuole di psicologia o di psichiatria, o, meglio, di antipsichiatria.

La nozione di arte, in quanto distinta da ciò che non è arte che oggi domina in Occidente come senso comune colto e anche spesso specialistico nel ‘mondo delle arti’, si diffonde sempre più nel resto del mondo, ivi comprese le peculiarità della vita d’artista, dell’opera unica e irripetibile, della ricerca indefettibile del nuovo, dell’autorialità e così via. Anche da noi tutto ciò passa dagli strati sociali più alti al senso comune più ampio anche attraverso la produzione e il consumo di massa. La separatezza di arte e non arte è convinzione che si rinnova e si ribadisce per ogni tempo e luogo, sebbene si sappia che, per esempio, un artista come Michelangelo ha prodotto le pitture della Cappella Sistina aderendo alla committenza papale che quelle pitture costituissero un’esposizione per immagini della concezione del mondo ebraico-cristiana dalle origini fino al giudizio finale.

Il senso comune popolare afferma in proverbio che anche l’occhio vuole la sua parte e che non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace. Ma è difficile accettare che è esclusivo solo del nostro modo di vivere considerare e praticare certe attività – che abbiamo ‘deciso’ che sono (le sole) di tipo artistico ed estetico – come attività da separare dal resto della vita, di qualità e tipo diverso rispetto a tutte le altre, e che stanno in una dimensione dove non sta tutto il resto della vita (‘normale’ e dunque ‘non artistica’). Bisogna ribadire la storicità transeunte, provvisoria, recente e già in crisi di questo modo di concepire e di praticare le ‘arti’. Tutta la vita dell’uomo è sempre in necessaria dimensione estetica, sebbene le varie culture privilegino esteticamente certi aspetti del proprio vivere e sebbene distinguano e apprezzino le diverse capacità e le eccellenze individuali.

La distinzione fra vita normale e vita dell’arte, caratteristica della cultura euroamericana di oggi, è da superare perché ristretta e povera. Non è per caso che si recuperano, sia da culture esotiche sia popolari tradizionali dell’Occidente, pratiche e concezioni di vita senza ambiti solo artistici, dove si dava e ancora si dà, per esempio, che la danza o il canto o il racconto siano aspetti pratici della vita quotidiana. Mentre già convivono arrivando da lontano altri modi di vivere la dimensione estetica nella mondializzazione.

Nella stessa cultura euroamericana, la vita normale non è separata ed è tutt’altro che separabile dalla dimensione estetica, come riconosce ancora un vecchio senso comune ‘pre-kantiano’. Se la tendenza alla specializzazione porta sempre più a far diventare specialismi artistici anche attività che prima non erano considerate tali, come il vestirsi alla moda, il vestirsi resta necessità pratica, sebbene sempre in dimensione più o meno estetica: eppure oggi la moda o fashion style, attività estetica specialistica legata al vestirsi, ha generato lo stilista specialista, a volte caricaturalmente artista, come da sempre l’architettura nell’ambito del fare case e così via. In questi decenni si vive una trasformazione accelerata di attività elementari (vestirsi, abitare e nutrirsi eccetera) in attività specialistiche della mera dimensione estetica.

L’assenza di distinzione, esplicita ed efficiente, fra arte e non arte, e fra utile e bello e anche brutto, non è solo di molte altre culture di tutti i tempi e luoghi, ma è anche nostra di oggi, se ogni vita umana è vissuta in dimensione estetica, se l’uomo non può mai rinunciare, come si dice della speranza, all’agio del vivere individuale e sociale. Le attività umane sono tali in quanto capaci di soddisfazione almeno in una vita ultraterrena. Non c’è attività che non possa diventare momento privilegiato ed eccezionale della dimensione estetica, come la tavola imbandita, il corpo e la casa ben tenuti.

Se la sposa ben vestita pare ovunque un obbligo, l’estetica del vestirsi non si dedica solo ai riti di passaggio come le nozze, ma più o meno sempre. Walter Benjamin nota per le nostre società che la vita quotidiana muta esteticamente con la riproducibilità tecnica delle opere d’arte. Il tempo stesso è una costruzione umana da cui non è pensabile escludere una matrice estetica, sia perché si hanno sempre tempi festivi e tempi normali correlati, e il tempo per produrre beni e servizi produce il tempo usato in attività del tempo libero esteticamente valorizzato, sia perché le varie nozioni e usi del tempo non paiono possibili se non anche come risultati di valorizzazioni estetiche. L’umanizzazione del tempo e dello spazio è un compito che si compie anche in dimensione estetica.

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