La rivoluzione ha dato forfait

1 Gennaio 2008

Mario Faticoni

Sono un attore e dirigo un gruppo teatrale, Il crogiuolo, che opera da venticinque anni in Sardegna e a Cagliari al Teatro dell’Arco (e, in attesa che l’Arco ci venga restituito dopo una ristrutturazione, al Teatro Sant’Eulalia). La scorsa stagione ho scritto e recitato per il progetto triennale La Mutazione, un’opera teatrale dal titolo Blood Boom Break – perversa vitalità nel dopoguerra italiano, una trentina di frammenti di narrativa, poesia e saggistica che, cuciti insieme, ricostruiscono un ipotetico pensiero autobiografico degli italiani sul periodo che va dall’avvento del fascismo al miracolo economico.
A Cagliari e in Sardegna lo spettacolo fu visto da pochi e nullo fu il dibattito sulle pagine culturali dei giornali. Esito scontato, se si tengono coi media solo rapporti professionali e, in generale, se si riflette sulla scarsa fortuna del teatro d’impegno oggi in Italia e sull’atteggiamento di noncuranza assunto in Sardegna dagli stessi media rispetto al mutamento da qualitativa a quantitativa della crescita produttiva teatrale isolana, dopo la significatività degli anni ’70 e ’80.
Lo spirito di controinformazione che anima Il Manifesto m’ incoraggia, qui, e ne ringrazio, a riferire brevemente ai suoi lettori non spettatori il significato di quell’opera e del progetto che lo contiene.
Come dice il sottotitolo “Miracolo e tradimento nel dopoguerra italiano”, il tema del progetto è il cambiamento radicale della società italiana a cavallo degli anni ’50 e ’60, in cui, come scrive Fofi, “si afferma una divisione del potere che, tramite il centrosinistra, riafferma la centralità di una borghesia industriale settentrionale che guarda al Sud come mera riserva di mano d’opera e possibile nuovo mercato e rifiuta, in un periodo favorevole, le riforme di struttura così necessarie”.
Progetto e spettacolo procedono a stazioni. La prima e l’ultima ci danno uno spaccato dell’oggi. In Blood è Fortini che parla all’inizio. Principi potenti cuoi/ Principi unghie di marmo/ Signori di tutti noi,/ voi di invisibili armi,/ voi ci avete creati/ ciechi e quieti come le merci/ sigillate nei mercati,/ come i visceri lerci/ dei macelli, che vanno/ nei vostri splendidi autoclavi,/ sazi nei doponatali/ vi ringraziano gli schiavi.Come e perché, si chiede ancora il poeta, la vita politica e morale della nostra nazione è diventata quella di un paese semicoloniale? E come e perché questo è accaduto implicando tutta l’opposizione anche la più intelligente e coraggiosa? Per dare risposte a questi perché il personaggio testimone, italiano a malincuore come Gaber, confortato dagli scrittori che hanno parlato in modo veritiero del loro paese, farà un viaggio a ritroso nella storia italiana del dopoguerra. Il viaggio comincia dall’evocazione della civiltà contadina, il paese degli anni ’30, ’40, che ingenuamente appare come un paradiso perduto, “una comunità modesta ma organica, un rapporto tra uomini e cose ordinato, duraturo” (Meneghello). Poi, per la penna lussureggiante di Gadda, il fascismo, Mussolini, “Pirgopolinice smargiasso, Scipione affricano del due di coppe, primo Racimolatore e Fabulatore ed jettatore delle scemenze e delle enfatiche cazziate, quali ne sgrondarono giù di balcone ventitré anni durante, rutti magni di quel furioso babbeo, urli soli del frenetico, ululati di un bieco lupo in tagliola”.
E’ l’8 settembre e Meneghello scrive:<< il regime si squaglia come un letamaio sotto l'acquazzone, esce dal ring senza neanche aspettare non dico il primo pugno, ma almeno che qualcuno si infili i guantoni>>. La Resistenza, ancora con i versi di Fortini (“aprite le porte, gente, siamo profughi, dateci un giorno, un sonno nel fieno, un morso di pane di segale”) e con parole di Meneghello (“si doveva proclamare l’insurrezione, non la resistenza. Era un niente in quei giorni avviare la rivoluzione. Bastava pensarci. Naturalmente ci avrebbero sterminati, ma almeno l’Italia avrebbe provato il gusto di ciò che deve voler dire rinnovarsi a fondo.”). Poi la pace, con Pintor: << Era tempo di far festa, di tornare alla normalità. Ma l'aria del dopoguerra non aveva per me questa leggerezza, quella normalità somigliava a una diserzione>>. Infatti, ecco la cronaca delle dimissioni di Parri del giornalista Carlo Levi:<< Entrai che il presidente stava già parlando. Una specie di atto d'accusa mite e senza perdono: ritorno di un vecchio mondo, l'ombra grigia dello stato burocratico, colpo di stato>>. Nasce la Repubblica, avviene la ricostruzione, trionfa il miracolo economico. Puntuale l’ironia beffarda dell’intellettuale etico, che si tinge di tanti colori: << Eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al governo, e poi di non esserne cacciati>> (Tobino), << Abbiamo ritrovato il risorgimento, espulso i Savoia ! >> (Garboli), e, qualche anno più tardi, Bianciardi: << La nostra città lancia nella campagna un drappello ardito di case nuove! >>, e Gadda a sostegno: << Veder case, strade, marciapiedi, fognature, ci dà quella stessa gioia consolatrice che ci dà il rinverdire degli alberi a primavera! >>. Per finire con Ginsborg e Pizzorno, che affondano la critica nella strategia del Pci: la politica dei due tempi, l’unità nazionale, il fallimento della missione veramente rinnovatrice, con lo spreco, invece, di energie << per studiare l'hegelismo napoletano, le lettere di Engels a Pinco Pallino, gli illuministi minori di Canicattì >> e con il delirio beffardo di Arbasino:<< E' l'età spoglia questa>>. Torna, a conclusione, il canto amaro di Fortini. Lontano lontano si fanno la guerra./ Il sangue degli altri si sparge per terra./ Io questa mattina mi sono ferito/ a un gambo di rosa pungendomi un dito./ Succhiando quel dito, pensavo alla guerra./ Non posso giovare, non posso parlare,/ non posso partire per cielo o per mare./ E se anche potessi, ho l’arabo nullo. Ho scarso l’inglese!/ Potrei sotto il capo dei corpi riversi/ posare un mio fitto volume di versi?/ Non credo. Cessiamo la mesta ironia./ Mettiamo una maglia, che il sole va via. Opera di un attore, senza pretese scientifiche. Uno stimolo a cercare le cause storiche dell’attuale malessere, a nutrire sentimenti di indignazione e di lotta contro questa stupida infelicità. In questo spirito la dedica più appropriata di questo scritto va a Peppino Marotto.

1 Commento a “La rivoluzione ha dato forfait”

  1. vincenzo pillai scrive:

    la sintesi che hai fatto è efficace,bella
    e per me dolorosa la lettura.
    forse mentre tu scrivevi passeggiavo in una pineta
    fra buste di plastica e lattine di birra.
    i milioni di donne e uomini e bambini
    concentrati a Napoli sono sommersi dai rifiuti
    ma se raccogliessimo i rifiuti sparsi per la Sardegna come sparsi sono i Sardi ne faremmo anche noi montagne puzzolenti.
    Per ora sono diluiti lungo tutte le strade e stradine, impigliati nel cisto, fanno capolino da sotto gli aghi di pino, volano come acquiloni e si depositano come corvi sui rami delle querce.
    Lo vedi quell’uomo che ha finito di fare pic-nic e chiude n una busta gli avanzi? Ma che fa? appende la busta a un ramo e mette in moto.
    Come ha fatto quel ragazzo a portarsi dietro una bottiglia piena di birra se ora che l’ha bevuta sullo scogio più bello non riesce a portarsela via vuotà?
    forse non arriveremo ad ammazzarci per conquistare il palazzo d’inverno, forse eviteremo dittature e campi di concentramento, forse.
    qul’è la linea rivoluzionaria,quale quella riformista per non morire di aliga?
    a quale morto ammazzato potranno i nostri nipoti dedicare la storia di questa guerra alla nostra immondezza?

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