Il Caucaso e la campagna elettorale Usa

1 Settembre 2008

red-army.jpg
Astrit Dakli

Probabilmente non sapremo mai se è vero o no che, come recita la tagliente accusa di Vladimir Putin, la guerra in Georgia è stata orchestrata dall’amministrazione Bush per favorire la vittoria del candidato repubblicano John McCain nelle elezioni presidenziali americane di novembre. Diciamo pure che probabilmente non è vero: ma dobbiamo ammettere che è verosimile. Assai verosimile. A parte il fatto che non sarebbe comunque la prima volta che fatti gravi di politica internazionale vengono prodotti per influenzare la campagna elettorale Usa (chi si ricorda della vicenda degli ostaggi americani a Tehran, sul finire della presidenza di Jimmy Carter?), va detto che in questa guerra georgiana d’agosto compaiono davvero molti elementi sospetti.
Anzitutto, l’inconcepibile sicurezza con cui il presidente georgiano Saakashvili ha lanciato il suo attacco la notte del 7 agosto: con una strategia mirata non a ottenere qualche piccolo vantaggio ma a vincere una guerra-lampo – e soprattutto, nel probabile caso di un fallimento, a inchiodare i russi al ruolo di aggressori e invasori. Una strategia che non ha senso, se considerata dal punto di vista strettamente georgiano, e nemmeno da quello degli interessi generali statunitensi, ma ne acquista invece molto se considerata dal punto di vista che Putin suggerisce: la creazione di un nuovo “nemico dell’Occidente”, adatto a esaltare la retorica bellicosa e l’esperienza militare del candidato repubblicano – che non a caso già da mesi andava ripetendo le sue teorie sulla necessità di “mettere al loro posto” i russi e anche sull’opportunità di “cacciarli dal G8” (proprio quel che ora Washington sta cercando di fare). Ma gli elementi di verosimiglianza non si fermano qui. C’è anche, a conferma di un fortissimo ruolo americano nella vicenda, l’accertata presenza sul campo, fino al giorno prima dell’attacco lanciato dalle forze di Tbilisi, di numerosi ufficiali statunitensi in veste di istruttori; e poi il ritrovamento a Gori, cioè a pochi chilometri dalla Sud-Ossezia, di alcuni veicoli americani dotati dei più complessi apparati per la guerra elettronica e per il controllo satellitare del teatro d’operazioni (difficile pensare che potessero essere usati autonomamente dai georgiani). E c’è infine la determinazione con cui la Casa Bianca si è messa immediatamente a capo di una crociata politica anti-russa, trascinandosi dietro anche i più riluttanti alleati europei su una linea che non prevede alcun tipo di negoziato o trattativa ma solo richieste imperiose e ultimatum a Mosca – una linea quindi fatta apposta per far durare nel tempo le tensioni e lo stato di “guerra fredda”, di nuovo senza procurare alcun vantaggio per gli interessi reali statunitensi ed europei ma creando un clima favorevole a una campagna elettorale come quella di McCain. In ogni caso, anche se non ci fossero questi elementi che autorizzano i sospetti peggiori, nel guardare con un po’ di distacco alle vicende recenti non si può non notare l’estrema confusione e contradditorietà della politica occidentale e americana in particolare: i cui obiettivi di fondo possono sembrare fin scontati nella loro continuità (il petrolio e le sue linee di rifornimento, ecc.) ma diventano quasi assurdi se visti da vicino, nel dettaglio. Come pensare che sarebbe bastato “piantare una bandiera” nel Caucaso, facendo diventare presidente della Georgia un proprio uomo (Saakashvili è cresciuto e ha studiato negli Usa) per ottenere la desiderata sicurezza degli oleodotti non russi? In quel groviglio spaventoso di conflitti etnici e nazionali che è l’area caucasica ogni elemento di conflitto in più non può che diminuire la sicurezza generale – compresa quella degli oleodotti. E questo è ciò che si sta verificando. E come non capire che la linea di appoggio a oltranza agli indipendentisti kosovari avrebbe comunque finito per ritorcersi prima o poi contro l’alleato georgiano? Come non rendersi conto che la vastità dell’impegno militare in Iraq e in Afghanistan è incompatibile con una politica aggressiva nei confronti della Russia – cioè di una potenza che ha ripetutamente mostrato di non avere troppo ritegno nel ricorrere alle armi per difendere i propri interessi? E infine, scendendo a guardare la specificità della guerra in Georgia, non è per nulla chiaro cosa in ultima analisi si propongano concretamente di ottenere Washington e gli alleati europei. Impossibile che credano seriamente a un futuro ritorno dell’Abkhazia e della Sud-Ossezia nell’ambito di uno stato unitario georgiano: non con questa Georgia di Saakashvili, comunque, a meno che non si consideri plausibile la pura e semplice eliminazione dei popoli che oggi abitano le due regioni. Certamente non vogliono il ristabilirsi di una vera “guerra fredda” con Mosca: troppi sono gli interessi a rischio, troppo grande ormai la compenetrazione delle economie. Si pensi solo al fatto che la Russia è diventata il più grande mercato di esportazione per l’industria dell’auto europea, uno dei maggiori mercati per l’industria agroalimentare americana, il maggior fornitore di energia della Ue, nonché uno dei massimi finanziatori delle imprese europee e statunitensi (proprio mentre fra Washington e Bruxelles si stava discutendo di sanzioni, il gigante russo dell’acciaio Severstal si comprava per un miliardo e mezzo di dollari una grossa compagnia mineraria statunitense “per espandere la propria rete di acciaierie negli Stati uniti”, e il gigante tedesco Siemens apriva un negoziato per un plurimiliardario finanziamento da parte di un fondo di stato russo, in vista di enormi appalti per infrastrutture che Mosca ha in progetto. Senza dimenticare che la Banca centrale russa ha ancora in portafoglio fra 50 e 100 miliardi di dollari di bonds dei pericolanti gruppi finanziari americani Fannie Mae e Freddie Mac, dalla cui tenuta o crollo dipende molto del futuro dell’economia statunitense.  E allora? Non resta purtroppo che concludere che davvero oggi la “grande politica” americana – e con essa quella di tutto il cosiddetto Occidente – viene fatta da uomini miopi, incapaci di vedere al di là della propria arroganza e presunzione, sulla base di calcoli approssimativi e di interessi molto, molto particolari. Così particolari da essere, in fondo, irrilevanti.

1 Commento a “Il Caucaso e la campagna elettorale Usa”

  1. ANGELO ACCASCINA scrive:

    Caro amico forse dovremmo andare oltre con l’immaginazione.
    Probabilmente Putin ha fatto un favore “all’amico” Bush.
    Questa farsa della guerra in Georgia durera’ ancora due-tre mesi…..
    il tempo necessario per far vincere i repubblicani!

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI