Il mercato, un luogo di schiavitù

16 Ottobre 2014
Occupy Wall Street
Gianfranco Sabattini

Attraverso considerazioni religiose, storiche, antropologiche e filosofiche, David Graeber, l’antropologo ed economista che ha partecipato alla fondazione del movimento “Occupy Wall Street”, nel suo recente volume, “Debito. I primi 5.000 anni”, presenta una versione del ruolo dei mercati totalmente ribaltata rispetto a quella tradizionale: i mercati, anziché essere considerati luoghi di libertà, sono descritti, invece, come luoghi di schiavitù. Graeber tenta di dimostrare come il mercato sia stato, sin dai primordi dell’organizzazione della vita sociale in strutture complesse, uno strumento di illibertà.
All’interno della più osannata istituzione economica, infatti, si sarebbe formato da subito il concetto di debito, che avrebbe dominato e regolato i rapporti umani, nel senso che la sua presenza o la sua mancanza si sarebbero configurate, alternativamente, in termini di libertà o di asservimento. Dopo aver esplorato l’evoluzione dell’organizzazione economica negli ultimi 5000 anni, Graeber analizza, utilizzando la categoria del debito, la crisi attuale, nata dall’abuso nella creazione di strumenti finanziari da parte delle grandi banche deregolamentate.
Che cos’è e come si origina il debito? Graeber, attraverso coinvolgenti argomentazioni, prevalentemente di natura antropologica, tenta di ribaltare il pensiero dominante sull’argomento, cercando di spiegare la questione che è al centro dei dibattiti politici odierni e che investe gli equilibri dell’intero mondo capitalistico. Egli, pertanto, spiega come il debito abbia determinato la storia dell’umanità e qual è il ruolo che esso svolge nella crisi globale attuale, ipotizzando una sua estinzione liberatoria nel futuro dell’umanità.
La crisi del 2007/2008, secondo Graeber, può essere considerata l’episodio ultimo della lotta politica tra debitori e creditori, ovvero tra poveri e ricchi. Alla fine della Seconda guerra mondiale, la minaccia di una rivolta dei poveri (portata all’ordine capitalistico dalla classe operaia) è stata notevolmente affievolita, nel senso che, in tutte le economie di mercato, è stato tacitamente stipulato un accordo tra le classi sociali, grazie al quale è stata sospesa la lotta di classe; in base all’accordo, se avesse rinunciato alla pretesa di cambiare la natura del sistema, la classe operaia poteva godere di una serie di benefici sociali e, soprattutto, della garanzia che gli incrementi di produttività sarebbero stati parzialmente “riversati” a vantaggio dei livelli salariali.
Tutto ciò è stato celebrato come l’avvento dell’”età keynesiana”, in considerazione del fatto che le teorie di John Maynard Keynes sono state adottate pressoché da tutti i sistemi sociali industrializzati. Con il passare del tempo, però, il “compromesso keynesiano”, trascorsi i “gloriosi trent’anni” che vanno dal 1945 al 1975, ha raggiunto il “punto di rottura”, mostrando come i sistemi capitalistici non possano estendere a tutti i contenuti di un compromesso del tipo di quello allora stipulato. Il risultato finale è stata una “crisi di inclusione”; intorno alla fine degli anni Settanta, infatti, l’ordine keynesiano ha collassato, scosso simultaneamente da shock di ogni tipo: caos finanziario, crisi petrolifera, crisi ecologica e diffusione delle profezie apocalittiche dei “decrescisti”. Tutto ciò, secondo Graeber, è valso ad annunciare a tutti che gli accordi sociali di origine keynesiana avevano perso ogni valore.
Una volta consolidatosi il convincimento che il compromesso del dopoguerra era entrato in crisi, è accaduto che nel successivo periodo, compreso tra la fine degli anni Settanta e il 2007/2008, i termini del vecchio compromesso siano stati cambiati all’insegna dell’emergente neoliberismo di stampo reaganiano e thacheriano; in tal modo sono stati riaffermati i diritti politici acquisiti nel dopoguerra, parallelamente però alla soppressione di buona parte del loro originario significato economico. Ciò ha consentito di risolvere il legame tra produttività e salari, ma mentre la produttività ha continuato a crescere, i salari sono stati bloccati su posizioni stagnati, se non regressive.
Nel nuovo patto, con i salari bloccati, la forza lavoro è stata incoraggiata ad indebitarsi, sulla base del presupposto che il nuovo accordo non avrebbe mai potuto essere condiviso se la forza lavoro non avesse potuto aspirare a “comprarsi – afferma Graeber – un pezzo di capitalismo”, espresso, ad esempio, dall’acquisizione della proprietà della propria casa, resa possibile da un’ingegneria finanziaria orientata a facilitare l’accesso generalizzato al mercato dei mutui immobiliari. Il neoliberismo sottostante il nuovo patto ha potuto così configurarsi come ideologia delle “democratizzazione delle finanza” o come “finanziarizzazione della vita quotidiana”.
Questa nuova ideologia ha concorso a giustificare la tesi che il mercato, liberato dagli eccessivi oneri sociali, doveva essere considerato il principio organizzativo del modo di produzione capitalistico, ma anche della vita di tutti gli agenti in esso operanti, nel senso che tutti dovevano “pensarsi come piccole aziende”; in questo modo, “pagare i propri debiti” è divenuto il principio posto a fondamento della moralità del nuovo patto, per cui ciò che esso in linea di principio ha ispirato è stato che tutti dovevano indebitarsi, in quanto l’indebitamento costituiva un fatto positivo di per sé, che concorreva ad alimentare il livello di attività del sistema economico e, con esso, a garantire la pace sociale. Proprio come il ciclo dei gloriosi trent’anni 1945-1975, anche quello inaugurato con la fine degli anni Settanta ha messo capo ad una crisi di inclusione, nel senso che, raggiunto il punto di rottura nel 2007/2008, gli esiti negativi sul piano economico e sociale sono stati gli stessi verificatisi alla fine degli anni Settanta.
Sulla base dell’esperienza vissuta dal 1945 ai nostri giorni, ci sono buone ragioni per credere che in capo ad “una generazione o poco più”, le contraddizioni interne che caratterizzano il neocapitalismo lo debbano condurre necessariamente al “capolinea”; la più ovvia tra queste ragioni è la crescente scarsità delle risorse ancora disponibili; ma quella che può essere percepita più immediatamente è il fatto che il neocapitalismo non possa sopravvivere sulla base del solo processo di indebitamento della maggioranza dei componenti dei sistemi sociali.
Per liberare l’umanità dal pesante fardello dei debiti crescenti, a giudizio di Graeber, la prima cosa da fare è ricuperare agli uomini il ruolo di soggetti attivi della storia. L’ostacolo a questo processo di liberazione è costituito dal fatto che tale ruolo potrà essere ricuperato solo se prima sarà possibile rimuovere molte delle categorie di pensiero che nel tempo si sono consolidate; fra queste, quella più radicata è quella che ritiene che i mercati costituiscano la condizione della “più alta espressione della libertà umana”. Ma se si prende atto che gli odierni mercati funzionano solo sulla base di un processo crescente d’indebitamento, con la trasformazione in debitori di tutti i componenti l’intera umanità, la liberazione dai debiti potrà essere realizzata solo con una trasformazione della società che “annichilisca” ogni cosa.
Se la libertà, si chiede Graeber, è la capacità degli uomini di realizzare i propri progetti di vita, come può accadere che tali progetti possano realmente essere realizzati se gli uomini non si libereranno dagli obblighi incombenti permanentemente sulla vita di tutti i giorni? La risposta all’interrogativo, per quanto difficile possa risultare, sta per l’antropologo-economista americano nella soluzione del problema del come assicurare la libertà all’intera umanità. E il primo passo in questo senso è quello di considerare irrinunciabile il principio secondo cui, come nessuno ha il diritto di imporre agli altri il vero scopo della loro vita, nessuno ha il diritto di suggerire agli altri di che cosa devono essere debitori.
Il messaggio di Graeber è sicuramente stimolante sul piano culturale e può essere accettato come sollecitazione a riconsiderare criticamente molte categorie del pensiero corrente; esso, però, appare poco convincente sul piano della proposta politica, perché se è vero che non esistono al momento valide alternative riformiste adeguate alle dimensioni della crisi, è difficile generalizzare come modello la rivolta dei debitori di tutto il mondo; così come è difficile accettare la critica decostruttrice radicale di Graeber per liberare l’umanità dai limiti del debito e condurla verso il “nirvana” predicato dai convivialisti decrescisti à la Serge Latouche.

 

1 Commento a “Il mercato, un luogo di schiavitù”

  1. Carlo Cavalletti scrive:

    l’articolo è molto dubitativo della tesi di Graeber… invece la trovo, avendo letto il suo libro, molto, ma molto, convincente… Consiglio quindi assolutamente di leggere il libro di Graeber non fermandosi all’articolo. http://www.ibs.it/code/9788842817970/graeber-david/debito-primi-5000.html

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