La casa

16 Febbraio 2021

[Marinella Lőrinczi]

Quando i miei genitori, alla fine degli anni ’90, si sono trasferiti da Bucarest in Sardegna, ho chiesto a mio padre, ungherese della Transilvania, di raccontare la storia della casa in cui abbiamo e poi hanno abitato per quasi mezzo secolo.

Lui ha tagliato corto dicendo che voleva evitare di sembrare critico verso i Romeni, il che mi risultò incomprensibile; soprattutto dopo aver letto un libro interessante di una giornalista francese – il cui nome purtroppo non ricordo – che aveva scritto sugli abitanti di una delle famosissime “sette sorelle” di Mosca, intervistandoli negli anni successivi al 1989. Certamente la storia di una assai più modesta casa a tre piani di Bucarest non è paragonabile a quella di un grattacielo moscovita costruito in epoca staliniana (con negozi e cinema riservati agli inquini illustri), ma a modo suo aveva e ha tuttora, ai miei occhi, un valore di esemplarità ossia di ammaestramento sociale e, appunto, storico.

Qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale i miei genitori si erano trasferiti da Cluj/Kolozsvár/Klausenburg, la città più importante della Transilvania, a Bucarest. Mia madre (di origini fiumano-istriane) mi aveva confidato una volta che ne aveva abbastanza delle discordie tra Romeni e Ungheresi. Se non era vero era ben trovato. E una capitale offriva di più, senza alcun dubbio. Arrivati a Bucarest, siamo rimasti per breve tempo in una camera d’affitto, coabitando nello stesso appartamento con una sarta romena, doamna Pia, bravissima e dal carattere dolcissimo (mi avrebbe confezionato un bellissimo cappottino per una mia bambola, che tuttora conservo). L’abbiamo frequentata a lungo anche dopo il trasferimento nell’appartamento al terzo piano di una ‘villa’. Arrivava la mattina dall’altro capo della città, lavorava in casa fino a pomeriggio inoltrato, pranzava con noi, poi tornava a casa da un marito fannullone. Era l’epoca quando si rivoltavano i cappotti.

Originariamente la ‘villa’ doveva essere sicuramente una villa. Era stata costruita nel periodo interbellico, nello stile razionale e funzionale dell’epoca, messo in opera in altre occasioni e con risultati più originali anche dall’avanguardista Marcel Janco, in romeno Iancu (1895 – 1984), compagno di carriera di Tzara ed altri, sul quale ritornerò. Si raccontava che il terzo piano, quello del nostro appartamento, in origine dovesse essere una terrazza con piscina, ma che poi è stato destinato ad un ulteriore appartamento, da affittare, sormontato da un ampio sottotetto, dove si sarebbero svolte, decenni più tardi, certe vicende ‘piccanti’.

Dei proprietari della villa, che a guerra conclusa hanno abbandonato la Romania, si favoleggiava che possedessero o amministrassero delle miniere d’oro. Abbandonata dai proprietari, la casa divenne dello Stato. La sua posizione periferica, ma solo apparentemente lo era, era compensata dalla vicinanza di un parco immenso, per me (e credo anche per mio figlio, tempo dopo) il più bel parco d’Europa che conosco in tutti i suoi dettagli (di allora), pianta per pianta, e dalla presenza, nello stesso quartiere, di piazze (ben tre piazze importanti), di edifici interessanti, di musei, di abitazioni più modeste, di monumenti (v. l’illustrazione iniziale), di altri parchetti, di lunghi viali alberati ornati anche da cespugli immensi di rose rosse (spariti per vecchiaia), il tutto variatissimo nello stile, un vero manuale di architettura novecentesca urbano-balcanica visitabile a piedi come facevo io. Dopo il 1989, il quartiere ha ovviamente cambiato aspetto, e non sempre, di nuovo ovviamente, in positivo.

Anche la nostra casa ha cambiato aspetto, nel senso che alcuni dettagli nonché le proporzioni architetturali tra balconi e pareti, tra rientranze più scure e sporgenze più luminose, tra le linee orizzontali e quelle verticali, sono stati nascosti da un rampicante enorme. Ma tutto il quartiere è ora in qualche modo soffocato da edifici più recenti e più alti; per non parlare di qualche edificio abbandonato e quasi pericolante o di altri, privati della necessaria manutenzione; altri invece stanno benissimo. E’ rigogliosissimo, finora, anche l’enorme albero dall’altra parte della nostra strada Alexandrina, che oramai sarà centenario. Il nome della strada deriverebbe da quello di una ricca doamnă Alexandrina, dimenticata per fortuna dalla autorità socialiste, che avrebbe venduto dei terreni agricoli, probabilmente agli inizi del Novecento, in un momento di espansione della città.

Ai diversi piani della nostra casa gli abitanti si ripartivano così, ai miei tempi: al pianterreno abitava una coppia di ebrei ungheresi, i Molnár, nostri, miei, carissimi amici, da cui andavo a fare le telefonate ai miei compagni delle elementari, perché noi non avevamo ancora il telefono. Lui lavorava in una banca, lei era casalinga e una bravissima cuoca, ricordo dei panini dolci specialissimi. Nel soggiorno c’erano due fotografie di ragazze giovani. Non so come son venuta a saperlo, perché di queste cose non si poteva e non si doveva parlare, che le due giovanissime erano figlie di lui, sparite in un campo di concentramento.

Marito e moglie, sopravvissuti, si sono conosciuti dopo la guerra. Negli anni ’60, quando è iniziata l’emigrazione degli Ebrei della Romania verso Israele, anche loro sono partiti, lasciandoci dei ricordi preziosi, molto personali, che non volevano vendere né era possibile portare con sé. Son rimasti poco in Israele e hanno continuato la loro migrazione verso il Canada, dove lui ha ripreso a lavorare in una banca. Loro mi avevano regalato una preziosissima guida, in ungherese, alle opere liriche di tutto il mondo, che ora sta qui, nella mia biblioteca. Quando se ne andarono in Israele, al loro posto venne ad abitarci una coppia di Romeni con un figlio disabile; dei due si sussurrava che lavorassero al ministero degli affari interni, in qualche ufficio speciale, forse, ed erano (forse per questo) molto discreti.

Ciononostante qualche volta ci avevano invitati, e ricordo che lei, che era romena della Transilvania, aveva preparato una volta un dolce austriaco, la Linzer Torte, che non ha nulla a che vedere con le ricette in rete: anzitutto è quadrata e si taglia a parallelepipedi rettangolari, è formata di molti strati sottilissimi di pasta, farciti (obbligatoriamente) con marmellata di amarene, e ricoperta poi di cioccolato. Mai mangiata di migliore. Questo mi fa venire in mente che il miglior strudel di mele della mia vita, appena sfornato, l’ho assaggiato a Tbilisi, in Georgia, seduta in un bar davanti all’edificio dei bagni turchi; poi ho scoperto anche perché un dolce tanto mitteleuropeo fosse di casa in Georgia, ma questa è un’altra storia…

Il primo e il secondo piano della ‘villa’ costituivano un bellissimo appartamento unico, con scala interna – era stato quello dei padroni poi emigrati – che fino agli anni Sessanta è stato abitato da due famiglie romene imparentate, i Georgescu. Credo fossero quasi tutti ingegneri, si andava molto d’accordo anche con loro, tant’è che ci avevano invitati a qualche celebrazione speciale, funerale e matrimonio, che sono sempre molto elaborati presso i Romeni. Quando traslocarono altrove, nell’appartamento si insediò una coppia relativamente giovane, di cui ricordo molto di più, perché frequentavo già l’università. Lui era membro del comitato centrale del partito comunista, era stato ambasciatore a Berlino, da dove se n’è tornato senza gloria e si capiva perché, continuava a svolgere nel partito una funzione non meglio specificata, disponeva di una macchina di servizio, una Mercedes nera, che alle volte l’aspettava giù a lungo con il motore acceso, di un cagnolino striminzito, da grembo, che abbaiava con voce stridula e che una volta voleva mordermi, poveraccio, e io stavo per tirargli un calcio davanti al suo padrone che si era precipitato fuori, e di una moglie bellissima, una delle donne più belle che ricordi, di cui si pensava che facesse l’assistente universitaria di qualcosa come scienze sociali; più tardi, quando io me n’ero già trasferita in Italia, mio padre raccontava che il marito la maltrattava – una sera era salita di corsa per le scale in camicia da notte per chiedere aiuto – perché dopo il pensionamento lui si era dato all’alcol.

Qui iniziano le tragedie. Lei muore giovane, probabilmente di cancro, il figlio unico, che faceva la guida turistica e forse non era nemmeno trentenne, si è trovato nella zona di Černobyl’ nel ’86, sarà stato contaminato dalle radiazioni perché morì qualche tempo dopo. Così mi è stato raccontato. Il loro appartamento era, ai tempi della costruzione e soprattutto dopo la guerra, un appartamento di lusso: la porta d’ingresso era di legno massiccio rinforzato con decorazioni in ferro battuto; davanti alla porta, nel vano scala, pendeva un bel lampadario pure in ferro battuto che i due spostarono subito all’interno dell’appartamento. Dopo la morte della moglie, rimasto solo, lui si risposa con una donna, sicuramente non docente universitaria, tutt’altro, che aveva una figlia. Sembra, dai rumori e dai passi che si sentivano, che la ragazza usasse una stanza indipendente destinata originariamente ad una domestica e che era nell’ampio sottotetto (che  serviva anche come lavanderia), per ricevere ospiti maschi; vi si accedeva dalla scala posteriore, di servizio, e nessuno vedeva. Muore anche lui, il patrigno. Dopo il 1989 era possibile acquistare le case in affitto la cui manutenzione costava troppo allo stato, per cui la vedova eredita o acquista l’appartamento a due piani che poi affitta a stranieri che stavano arrivando, fiutando affari, oppure al personale diplomatico. Eredita probabilmente anche i due garage seminterrati, preziosi in quella zona, che suo marito si era fatto assegnare a suo tempo, quando era ancora potente, senza averne necessità e che poi gestiva chissà come.

Ma la presenza dell’uomo per così dire politico aveva avuto i suoi vantaggi. Durante il terribile terremoto del 1977, che distrusse interi palazzi nel centro di Bucarest mentre quelli ‘socialisti’ dei nuovi quartieri popolari periferici resistettero bene, anche la nostra casa s’inclinò. Mio zio, che era in visita, dormiva e si ritrovò per terra.  Sembra che il grande deposito sotterraneo per il gasolio, oramai in disuso, avesse giocato un certo ruolo, non so se positivo o negativo; sta di fatto che la casa si era inclinata in quella direzione, perché il deposito era tra la casa e il marciapiedi. Gli interventi di consolidamento sono stati relativamente rapidi, perché sia il grand’uomo sia mio padre si sono dati da fare. E’ stata importante anche l’installazione di un’autoclave per portare l’acqua ai piani superiori. Finché ci abitavo anch’io, per anni la vasca da bagno era servita come serbatoio per l’acqua, che arrivava soltanto la sera e di notte quando la pressione saliva. Nella nostra lavatrice abbastanza primitiva si versava l’acqua attingendo alla vasca, non so come si era organizzata mia madre per fa questo. Per me i bagni infantili caldi e prolungati, nella vasca, erano oramai solo un ricordo. Ma si riesce a sopravvivere anche così. Poi arrivò il grand’uomo e la vasca ridivenne vasca.

Al terzo piano abitavamo noi. Siccome l’appartamento era grandicello, e noi eravamo soltanto in tre, la autorità pensarono subito di farcelo condividere con degli estranei, come si usava negli anni postbellici: l’inurbamento era forte e le abitazioni scarseggiavano; ti poteva capitare chiunque in queste kommunalki, come erano state chiamate in russo. Una nostra amica di origine russa o forse romena della Bessarabia, giornalista, era vissuta così per anni, ma aveva avuto la fortuna di coabitare con delle ottime persone. Mi sono ricordata di lei perché ha regalato il suo samovar ai miei genitori che poi me l’hanno passato, restaurato, ed ora è probabilmente l’unico samovar non elettrico, autentico, a fornello, della Sardegna. Tornando alla minaccia della coabitazione forzata, a mio padre era venuta la brillante idea di ricordare ai funzionari che mia madre, essendo arpista, doveva esercitarsi per ore in casa, che tornava dal teatro lirico ad ore tarde, il che non si sarebbe accordato per niente con la vita degli altri. Per cui ci lasciarono in pace. Però ora mi viene in mente che chi ci aveva visitato per darci la bella notizia della coabitazione era stato un ufficiale molto elegante e compito, così me lo descrisse mio padre.

Quest’appartamento evidentemente non era stato progettato per una famiglia, al massimo per una coppia senza figli che conducesse una certa vita mondana. Cosicché lentamente subì delle trasformazioni affinché ognuno di noi avesse una stanza autonoma. Alla fine la cucina che serviva oramai meno, perché si pranzava spesso fuori, fu trasferita nello sgabuzzino e funzionò molto bene, e quella iniziale divenne la mia camera, isolata, ben illuminata, con una vista gradevole sugli alberi del vicinato. L’intelligenza dell’architetto si evidenziava anche nella quantità e disposizione delle finestre, sia negli appartamenti sia lungo le due scale, obbligatoriamente doppie considerata la rigidità del clima invernale, divenute addirittura triplici nel nostro soggiorno. Il violento e freddo vento invernale, il crivăţ che arriva dalle steppe, non scherza.

La casa, costruita per gente benestante, disponeva di una serie di vani di servizio. Anzitutto di due garage. Accanto ai garage c’erano vani da usare come depositi. Evidentemente c’era anche un bagno, perché in una delle stanze della cantina aveva abitato per un certo tempo, quasi come un’ombra misteriosa, un uomo di mezza età, un operaio forse, che io vedevo rarissime volte. Entrava e usciva dal retro della casa quasi invisibile, come un fantasma. Lo scantinato era umido, e non privo di scarafaggi e forse nemmeno di topi. Ma ci si andava poco, era un altro regno, e il suo unico abitante era del tutto silenzioso. Un’altra zona alquanto strana era la soffitta, asciutta e luminosa, divisa tra la stanza destinata ad una domestica, niente male come dimensioni, che dava sulla scala di servizio e sul resto del sottotetto, dove c’erano un lavello grande e sicuramente anche un gabinetto. Ricordo che ci aveva vissuto un’inquilina donna. Andata via, vi si era installata, negli anni Settanta-Ottanta, la figliastra del grand’uomo, che sembra trafficasse in sesso e forse anche in altro.

Nelle strade del quartiere, dalle dimensioni normali, a due corsie, negli anni cinquanta-sessanta avvenivano, una volta all’anno, delle strane corse di sidecars. Gli angoli dei marciapiedi venivano imbottiti coi dei materassi, era vietato circolare, e noi, come gli altri abitanti, guardavamo dall’alto. Dal nostro balcone si vedeva anche l’incrocio tra due strade: arrivati là quello della carrozzina si sporgeva verso destra per stabilizzare la moto che stava svoltando a sinistra a novante gradi. Mi è rimasta la curiosità di sapere perché la corsa si dovesse tenere proprio in quelle strade molto abitate. Ma non ho mai assistito ad un incidente.

Dalla finestra dell’ingresso assistevo spesso anche ad un altro spettacolo. Frotte di ragazze (io ricordo solo loro), che indossavano delle divise per me molto eleganti, si dirigevano verso la scuola russa poco distante, che aveva la fama di essere molto buona. Infatti, i ragazzi delle ambasciate dei paesi di lingua slava frequentavano quella scuola, dove si facevano anche molte attività all’aperto. I ragazzi che passavano sotto casa mia abitavano non lontano con le loro famiglie, in un edificio bianco molto grande e interessante, che era stato messo a disposizione del personale dell’ambasciata sovietica. Ho appreso soltanto molti anni più tardi che l’architetto era Marcel Iancu ed era stata costruita nel 1935;

ora so anche che l’immobile non appartiene allo Stato romeno, ma alla Federazione Russa; qualche anno fa era in uno stato di totale abbandono e degrado, avevano rubato persino gli ascensori, mentre durante il terremoto del 1977 non aveva subito danni; dal 2019 degli imprenditori privati, in un complicato intreccio tra Romeni e stranieri, starebbero provvedendo al suo restauro.

A qualche isolato di distanza da dove siamo partiti, il quartiere è attraversato da una delle maggiori arterie della città, Bulevardul aviatorilor, che prende il nome dal monumento dedicato agli aeronauti civili e militari degli esordi. Progettato e realizzato da due artisti dell’epoca non romeni ma viventi in Romania e suoi cittadini, ho avuto a questo proposito qualche anno fa una discussione antipatica e sgradevole, durante un convegno,circa la nazionalità di questi due artisti, l’una russa e l’altro ungherese. Il monumento è sicuramente uno dei più potenti al mondo tra quelli offerti agli aviatori caduti nella Grande Guerra. Fino a qualche anno fa non mi ero preoccupata dei suoi realizzatori la cui appartenenza originaria etnica mi era, prima, ignota poi del tutto indifferente. Apprezzavo molto, in quanto visto innumerevoli volte, e continuo ad apprezzare il monumento in sé e la sua suggestiva posizione. Che poi i due artisti non fossero romeni, per me era ed è secondario. Ma per altri non lo è, anzi pare essere sminuente o irritante se viene menzionato.

Il rettilineo del bulevard è interrotto, a circa mezzo km di distanza dal monumento degli aviatori, da un’altra piazza, assai più ampia della precedente. Quando ero ragazzina era intitolata a Stalin. Durante la seconda guerra mondiale era la piazza Adolf Hitler. Ma era stata anche la piazza Eminescu (il poeta nazionale). E ancor prima la piazza Jianu, nome che oramai non dice niente a nessuno (famoso bandito sociale nella prima metà dell’Ottocento). La piazza confina coll’ingresso al grande parco, e tra ingresso e piazza era stata eretta nel 1951 un’imponente ma non bella statua in bronzo di Stalin, che lo raffigurava in una postura stereotipata. Un anno prima la città di Braşov (nel sud-est della Transilvania) era stata rinominata Oraşul Stalin, la città di Stalin, ma riprese il nome originario qualche anno prima della demolizione della statua di Stalin a Bucarest, che avvenne nel 1962. Ricordo benissimo quest’operazione, perché sarà vero che la statua è stata tagliata a pezzi in una sola notte, ma per giorni era stata circondata da paraventi molto alti, il che rendeva ancor più visibili sia l’esistenza della statua sia l’intenzione della rimozione. Doveva sembrare grottesco anche ad altri, ma sembra destino di quella piazza dover essere il palcoscenico di eventi strambi. Il grande edificio bianco progettato da Marcel Iancu si affaccia sulla stessa piazza, ed infatti ebbe una sorte indegna. Il vuoto lasciato dalla statua di Stalin era decisamente imbarazzante, tanto più che non lontano si contano due monumenti importanti, in piazze meno importanti, quello degli aviatori e l’Arco di Trionfo, che celebra soprattutto la fine della Grande Guerra e la nascita della Grande Romania (ratificata col Trattato del Trianon nel 1920). Cancellato il nome di Stalin nel 1962, passò del tempo, e dopo il 1989 si decise di intitolare la piazza, chissà perché, a Charles de Gaulle. E’ vero che era stato Ceauşescu a invitare ufficialmente il presidente francese nel maggio del 1968, quale segnale grandioso di apertura politica verso l’Occidente. Proprio per questo immagino che per i Romeni il nome di de Gaulle richiami subito quello di Ceauşescu. Tanto più che la villa dove avevano abitato i coniugi Ceauşescu (attualmente attrazione turistica, non poteva non diventarlo! nella terra di Dracula!) si trova a qualche centinaio di metri dalla Piazza, ora, Charles de Gaulle, ornata della rispettiva statua. Vi sono altre coincidenze, decisamente imbarazzanti, se mettiamo a confronto le due statue.

(la proporzione tra le foto è inversa rispetto alla proporzione tra le statue reali, inclusi i piedistalli)

Posture quasi identiche. Ma mentre Stalin con il braccio destro alzato si rivolge alla folla, al popolo, de Gaulle usa lo stesso braccio, abbassato, per reggere probabilmente un soprabito, ma che sembra piuttosto un asciugamano. Stalin, nella mano sinistra, tiene un libro, un documento, un giornale. I gradini sui quali si trova de Gaulle dovrebbero ricordare quelli dell’areo da cui scese nel 1968, tra le ovazioni delle persone appositamente radunate. Il mio ricordo dell’evento è legato proprio alla discesa di de Gaulle dall’aereo.

La Piazza de Gaulle è ora un’enorme rotonda, resa più accettabile da aiuole fiorite. Là non si potrebbe più organizzare le grandi parate come quelle del primo maggio, del 23 agosto (che era la giornata nazionale pre-1989) o del 7 novembre (anniversario della rivoluzione d’ottobre). Io le ho vissute per anni, senza parteciparvi, anche se sarebbe stato obbligatorio. La ragione è semplice. Abitavo nelle vicinanze e siccome sarei dovuta andare ore prima al posto di raduno iniziale e i mezzi pubblici non circolavano più, ne ero stata esonerata. Ma non potevo nemmeno avvicinarmi alla piazza per via del cordone di sicurezza. Si sentivano da lontano i canti, le grida, la musica delle fanfare. E quindi quest’esperienza ‘incorporata’ mi manca. Le nuove parate, post-1989, si svolgono nella piazza dell’Arco di trionfo e nella giornata nazionale del primo dicembre; questa è stata istituita nel 1990 a tamburo battente, come sommo simbolo. L’abbinamento della piazza dell’Arco con la data non è affatto casuale. La data celebra (con nostalgia, altrimenti non avrebbe senso) la costituzione della Grande Romania nel 1920, la quale, dopo la seconda guerra mondiale, ha subito delle importanti perdite territoriali. Il Covid ha introdotto per il primo dicembre del 2020 delle significative innovazioni. Vale la pena di guardare il brevissimo filmato.

Immagine di apertura: Il monumento agli eroi dell’aria a Bucarest, Romania

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