La genesi storica della questione palestinese e il dramma odierno

1 Giugno 2021

Un bambino in bicicletta di fronte alle macerie di un edificio distrutto a Gaza (afp)

[Francesco Casula]

La questione palestinese è di vecchia data ed è insieme problema etnico e politico, nazionale e sociale, con plurimi risvolti internazionali. Essa affonda le sue radici nella travagliata vicenda della Palestina fra le due guerre mondiali.

Nel 1945 resta un mandato britannico: in essa abitano 1.250.000 palestinesi e 560.000 ebrei: immigrati questi, in maggioranza fra le due guerre. L’Inghilterra, che inizialmente aveva favorito il flusso migratorio, all’inizio del 1945 adottò una politica restrittiva, per mantenere buoni i rapporti con gli Stati arabi e anche perché non voleva che fossero i Palestinesi a pagare al posto degli europei, per colpe che non avevano commesso.

“L’atteggiamento inglese irritò l’opinione pubblica europea e americana, convinta che la creazione di uno Stato sionista in Palestina fosse il giusto indennizzo per le stragi perpetrate dai nazisti nei campi di stermini, e spinse gli ebrei all’azione. Dall’ottobre 1945 le milizie sioniste di autodifesa dell’«Haganà» (difesa) cominciarono ad attaccare i militari inglesi e il movimento terrorista dell’«Irgum» (organizzazione estremista ebraica) moltiplicò gli attentati, il più grave dei quali fu l’esplosione che distrusse l’hotel «King David» di Gerusalemme, sede dell’Amministrazione civile mandataria, in cui persero la vita più di cento persone”1.

L’Inghilterra a questo punto, incapace di gestire la situazione, all’inizio del 1947 affida la questione alle Nazioni Unite che nel novembre dello stesso anno approvarono un piano che prevedeva la divisione della Palestina in tre parti: uno Stato ebraico, uno Stato arabo-palestinese e Gerusalemme internazionalizzata, sotto il controllo dell’ONU.

Il Piano fu respinto dai palestinesi perché favoriva nettamente gli ebrei. Così il 14 maggio 1948, alla partenza degli inglesi, gli ebrei proclamarono la nascita dello Stato d’Israele. E’ soprattutto da quel momento che inizia drammaticamente, la “Questione palestinese”.

In seguito alla guerra arabo israeliana (1948-49) infatti, lo Stato israeliano vincitore,  allarga i suoi confini, “ampliati con Gerusalemme ovest e altri territori che portarono la sua superficie dal 55% al 78% dell’antica Palestina” 2.

Di contro “lo Stato palestinese non vide la luce, perché il resto della Palestina (tranne la striscia di Gaza, amministrata dall’Egitto) fu annesso alla Transgiordania, che acquisì così la Cisgiordania e Gerusalemme-est e che nel 1950 prese il nome di Giordania” 3 .

Per circa 900.000 palestinesi ci fu l’inizio dell’espulsione e del forzato esodo dalla Palestina ai paesi arabi vicini (Siria, Libano, Egitto soprattutto) e altrove.

Verso la metà degli anni ’50 assunse la fisionomia di una vera e propria diaspora e per l’identità dei profughi dispersi nelle varie parti del mondo (1.250.000) e, al tempo stesso, per il loro tenace e sacrosanto attaccamento alla propria identità nazionale e al loro legittimo territorio Da quel momento si infittirono le politiche discriminatorie e repressive da parte del Governo israeliano, sia nei confronti di quelli rimasti che degli esuli sistemati dei campi di raccolta dei paesi arabi ospitanti.

Dopo la guerra dei sei giorni del 1967 l’intera Palestina storica sarà consegnata a Israele e ciò porterà il numero dei profughi palestinesi intorno ai 2.500.000. La storia, relativamente più recente fa parte di una cronaca drammatica: pensiamo solo al massacro di Tal-El Zaatar nell’agosto del 1976 in Libano, con centinaia e centinaia di morti, la maggior parte civili, opera dei partiti libanesi di destra accompagnati da milizie filo-Israeliane. O all’eccidio di Sabra e Shatila, compiuto dalle Falangi libanesi e dall’esercito del Libano del sud, con la complicità dell’esercito israeliano, di migliaia di civili, prevalentemente palestinesi e sciiti libanesi.

Il massacro avvenne fra le 6 del mattino del 16 e le 8 del mattino del 18 settembre 1982 nel quartiere di Sabra e nel campo profughi di Shatila, entrambi posti alla periferia ovest di Beirut.

Il conflitto  continua con l’Intifada del 1987 e anche dopo che Arafat, dal 1969 Presidente dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), dalla tribuna dell’ONU annuncia nel 1988, il riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza e la rinuncia ad azioni terroristiche, accettando la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, concernente la restituzione dei territori occupati dagli israeliani nel 1967.

Non se ne farà niente. E servono a poco anche gli accordi di Waschington nel settembre 1993 fra i premier israeliano Yitzhak Rabin e Arafat: con l’autonomia amministrativa dei 900.000 palestinesi nella cosiddetta “striscia di Gaza” (occupata militarmente da Israele nel 1967) e della città di Gerico, situata in Cisgiordania (anch’essa occupata da Israele) e divenuta sede di un governo provvisorio palestinese.

E neppure servono gli ulteriori accordi fra OLP e Israele del 1995 che stabilivano le modalità del ritiro dell’esercito israeliano e un governo civile palestinese in Cisgiordania. Tali accordi saranno rifiutati sia dagli integralisti palestinesi di Hamas che dagli integralisti ebraici, con uno stillicidio di sanguinosi attentati: fra cui quello attuato da estremisti religiosi ebraici con l’assassinio del premier Rabin, più disponibile al dialogo e l’elezione a primo ministro de Benjamin Natanyahu, “capo di una coalizione di nazionalisti e religiosi ultraortodossi, ostili alla concessione di una reale autonomia ai Palestinesi” 4 .

In seguito all’assassinio di Rabin e con il governo di Natanyahu, in questi 25 anni e più, il dramma palestinese si acuisce: ed è caratterizzato soprattutto da una ulteriore “colonizzazione”: tanto che il numero di coloni israeliani  in Cisgiordania avrebbe raggiunto i 475.000, cui vanno aggiunti altri 300.000 coloni a Gerusalemme Est. Ovvero nei territori “palestinesi”.

E’ frutto di una ulteriore colonizzazione anche il conflitto fra Israele e Hamas di questo mese di maggio, con 232 morti Palestinesi e 12 israeliani. Con 75 mila Palestinesi in fuga dai bombardamenti israeliani.

Questa la storia e la cronaca. Per quanto attiene il giudizio, ad iniziare da quello concernente l’ultimo conflitto, faccio mio quello espresso da un intellettuale e artista come Moni Ovadia che ha scritto:” “Io sono ebreo, anch’io vengo da quel popolo. Ma la risposta all’orrore dello sterminio invece che quella di cercare la pace, la convivenza, l’accoglienza reciproca, è questa? Dove porta tutto questo? Il popolo palestinese esiste, che piaccia o non piaccia a Nethanyau. C’è una gente che ha diritto ad avere la propria terra e la propria dignità, e i bambini hanno diritto ad avere il loro futuro, e invece sono trattati come nemici”.

E sulle reazioni della comunità politica internazionale e in particolare dell’Italia, Ovadia è netto: “Ci sono israeliani coraggiosi che parlano e denunciano. Ma la comunità internazionale no, ad esempio l’Italia si nasconde dietro la sua pavidità, un colpo al cerchio e uno alla botte. Ci dovrebbe essere una posizione ferma, un boicottaggio, a cominciare dalle merci che gli israeliani producono in territori che non sono loro”.

Riferimenti bibliografici

1.Franco della Paruta, Storia del Novecento-dalla Grande Guerra ai nostri giorni, le Monnier, Firenze, 1991, pagine 286-287.

2. Ibidem, pagina 287.

3. Ibidem, pagina 287.

Nella foto: Un bambino in bicicletta di fronte alle macerie di un edificio distrutto a Gaza (afp)

4.F. Della Paruta- G. Chittolini- C. Capra, Il Novecento, Le Monnier, Firenze, 1997, pagina 412.

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