Le fallacie dietro la cancel culture

16 Maggio 2021

[Alessio Dore]

Sempre più polemiche sta scatenando il fenomeno della cancel culture, la quale viene equiparata ora ai roghi dei libri del nazismo, ora all’iconoclastia dei talebani. Ma reggono davvero paragoni di questo tipo o si rischia di cadere in una fallacia logica?

Recentemente, ha suscitato molto scalpore il post di Enrico Mentana pubblicato sulla sua pagina Facebook, il quale così scriveva: «Bisogna avere il coraggio di dirlo: per molti aspetti la cancel culture ricorda i roghi dei libri del nazismo», allegando una foto d’archivio in cui vengono arsi libri sotto il braccio teso dei soldati nazionalsocialisti. Eppure, il fenomeno della cancel culture è totalmente differente da quello della censura nazista e si rischia di attuare un ragionamento fallace sotto più punti di vista.

In particolare, la fallacia sarebbe quella della reductio ad Hitlerum, con la quale si tenta di screditare una persona o una cosa mettendola in relazione con il partito nazista. I pericoli che può portare questo tipo di ragionamento sono plurimi e lo storico Francesco Cassata, in “Eugenetica senza tabú”, ci mette in guardia da questo particolare paralogismo (ovviamente in campo eugenetico, ma si può benissimo estendere anche al fenomeno della cancel culture). Nel primo capitolo, intitolato eloquentemente “Tutti nazisti, nessun nazista”, viene affermato come, attraverso questo genere di fallacia, si rischi di estendere così tanto il concetto di nazismo da farci rientrare ogni cosa, normalizzandolo ed ignorando la sua unicità. Scrive infatti che «lo specifico caso nazista viene banalizzato e decontestualizzato» e si arriva quindi a deformare il passato, privandolo anche dell’«intento moralizzatore di cui vorrebbe farsi portavoce».

La seconda direzione in cui cerca di muoversi questa fallacia consiste – riportando il discorso di Cassata alla nostra tematica – nel ricondurre un processo sociale complesso (come quello della cancel culture) ad una variante particolare, senza considerare le differenze geografiche e culturali. Nel caso del post di Mentana, il riferimento non può che essere diretto al caso del bacio del principe a Biancaneve, sia per prossimità temporale con cui è stato pubblicato, sia – soprattutto – perché il paragone con i libri regge certamente di più rispetto all’abbattimento delle statue. Ci si potrebbe dilungare nel mostrare come la polemica di Biancaneve sia stata ingigantita dalla stampa italiana e di come effettivamente non ci sia alcuna richiesta di censura, ma rimandiamo ad altri articoli questa funzione: ciò che interessa qui sta nel mostrare come fenomeni sociali diversi – in questo caso una critica femminista alla rape culture – vengano gettati nello stesso calderone della cancel culture. Tutto viene etichettato con questo nome, dissipando le differenze: le richieste di decolonizzazione della storia da parte degli afroamericani, di parità di genere da parte del femminismo e di lotta all’omotransfobia da parte della comunità lgbt vengono tutte cestinate, racchiudendole in quell’ideologia non bene definita della cancel culture. Ma quest’ideologia di fondo, banalmente, non si dà. Sussistono invece più movimenti che richiedono un mondo più aperto alle differenze.

Ritorniamo però al raffronto istituito da Mentana: non possiamo minimamente paragonare una mossa politica assunta da un governo dittatoriale qual è quello nazista con una sorta di iniziativa popolare di revisione storica. Il fenomeno della cancel culture richiede semplicemente di non prendere un certo personaggio storico come idolo. Tale richiesta emerge a causa di una cultura subalterna che sale in superficie e vuole raccontare la sua storia; si tratta di ascoltare chi per secoli è stato sottomesso. Il caso appare totalmente diverso dal rogo dei libri nazista. Non c’è nessun potere forte che vuole censurare Aristotele perché misogino o Gobineau perché razzista.

Talvolta, tuttavia, le proteste non si limitano ad una pacata richiesta di contestualizzazione storica, ma si risolvono in vere e proprie rivolte per le strade, con il relativo danneggiamento delle statue dei personaggi incriminati. A questo proposito, sono state fatte numerosissime comparazioni tra questo fenomeno e la distruzione delle statue ad opera dei talebani. Anche in questo caso, si banalizzano entrambi i fenomeni.

La distruzione delle statue in questi due processi ha una matrice totalmente differente, per quanto possano avvicinarsi nel risultato. Spesso si prendono i riformisti islamici come archetipo dell’opposizione ad ogni qual forma di pensiero razionale, descrivendoli come barbari distruttori della cultura: certo, in un contesto del genere sarebbe impensabile una rifioritura della filosofia come nel califfato Almohade, ma l’esigenza della distruzione di tutti i luoghi di intercessione è dettata da una precisa dottrina teologica. Ciò che è successo in Iraq e in Siria per mano dell’isis non è una novità e sin dall’Ottocento i wahhabiti si sono resi protagonisti della distruzione di tutto ciò che potesse essere oggetto di venerazione per l’intercessione, dalle tombe alle reliquie, dai santuari alle statue. Nel caso, invece, della cancel culture, si tratta di comprendere come l’abbattimento delle statue consista in una critica all’etnocentrismo: alcuni personaggi storici che in Occidente sono visti come idoli, in un’ottica interculturale non possono essere definiti tali. L’esposizione di una statua ha una funzione specifica e non è quella di esaltare la manualità dell’artista che l’ha eseguita o abbellire la città; è quella di prefissare un certo ordine di valori. Lo sguardo miope dell’occidentale considera solamente una parte dei valori di quel personaggio, tralasciandone un’altra altrettanto fondamentale. Si invita allora a rileggere la storia non semplicemente con gli occhi del vincitore, ma con quelli del vinto.

In Italia, per quanto sia chiassoso il dibattito su questi temi, non c’è niente che si avvicini alla cancel culture e all’ideologia del pensiero unico; negli Stati Uniti, invece, questo problema sussiste ma non è certamente qualcosa di nuovo: Tocqueville, nel suo saggio “La democrazia in America” del 1830, mostrava come la tirannia della maggioranza eserciti un dominio sull’opinione pubblica; ora che le minoranze stanno emergendo, semplicemente si sta andando incontro a una nuova polarizzazione della società.

Possiamo quindi affermare che mettere sullo stesso piano la cancel culture ed il nazismo o la distruzione delle statue ad opera dei riformisti islamici sia alquanto raffazzonatorio. Con la cancel culture si fa presente l’urgenza di combattere le disuguaglianze sociali che perdurano nella nostra società. In un contesto ormai pluralista, bisogna comprendere quali valori possano dirsi oggettivi e quali no; in questo consiste la sfida del mondo moderno, e su questo bisogna lavorare all’interno di uno Stato che voglia davvero definirsi democratico per non lasciare inascoltate le esigenze dei cittadini con una voce più debole.

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