Le “professioni senza senso” nel nuovo capitalismo globale

16 Febbraio 2019

David Graeber

[Gianfranco Sabattini]

David Graeber, docente di Antropologia presso la London School of Economics e attivista sociale e politico (nota la sua partecipazione ai movimenti di protesta contro il Forum economico mondiale di New York nel 2002 e al movimento Occupy Wall Street nel 2011), è conosciuto dal pubblico italiano per la pubblicazione, nel 2012, della traduzione del suo libro “Debito. I primi 5.000 anni”. In questo libro, Graeber muove una critica radicale a due delle massime istituzioni del capitalismo, il mercato e la moneta, sostenendo che esse non sarebbero nate automaticamente dal superamento della pratica del baratto, bensì create dagli Stati per tassare i sudditi-cittadini, al fine di perseguire scopi estranei al benessere sociale.

Ora, è apparsa nelle librerie la traduzione di un altro suo libro, non meno polemico del primo, nel quale sostiene che un’alta percentuale della forza lavoro occupata svolge un “lavoro del cavolo” (traduzione edulcorata del titolo, ben più espressivo, in lingua inglese: “Bull Shit Jobs”). La natura polemica di questo nuovo libro sta nel fatto che, in esso, Graeber dà conto di una sua intuizione, secondo la quale molti impieghi rendono “infelici” chi li svolge, non essendo strumentali al razionale funzionamento dell’attività produttiva, ma hanno una funzione di supporto “del nuovo capitalismo globale”. La sua tesi potrà non essere condivisa, ma la possibile esistenza di lavoratori che svolgono un “lavoro del cavolo” rende plausibile pensare che essi traggano un’insoddisfazione tale da assumere una rilevanza politica sinora mai considerata.

Graeber ricorda d’aver suscitato, senza volerlo, “scalpore a livello internazionale”, allorché gli è stato chiesto, nel 2013, di scrivere un intervento provocatorio per la rivista radicale “Strike!”. Accogliendo la richiesta, egli ha avanzato al direttore della rivista l’idea di scrivere un breve articolo dal titolo “Sul fenomeno dei lavori del cavolo”. L’autore racconta che l’idea gli derivava dal sospetto, da lui nutrito, che molte forme d’impiego, sia pure viste da fuori, non avessero una loro produttività, quali erano, ad esempio, secondo Graeber, quelle esercitate dai consulenti delle risorse umane, dai ricercatori del settore delle relazioni pubbliche e, in generale, da “quel tipo di gente […] che trascorre il tempo a costituire assurde commissioni per discutere del problema delle commissioni inutili”, e così via.

Il sospetto ha spinto l’antropologo a domandarsi se, per caso, coloro che erano impiegati in lavori inutili, ne fossero consapevoli; se così fosse stato, la presenza di “lavori del cavolo” avrebbe rappresentato “una terribile ferita psichica”, non solo per chi li svolgeva, ma anche per l’intera società. Nessuno aveva mai mostrato interesse ad accertare la consistenza di questo problema e a considerarne le implicazioni negative sul piano sociale; nonostante siano stati numerosi gli studi condotti per accertare il livello di “felicità delle persone al lavoro”, nessuno di essi però ha indagato, presso le stesse persone occupate, se ritenessero che il loro lavoro avesse “ragione di esistere”. Il sospetto dell’esistenza di un gran numero di lavori inutili non era mai stato oggetto di considerazione e di dibattito a livello di opinione pubblica, e tanto meno a livello politico; motivi, questi, che hanno indotto Graeber a scrivere l’articolo per la rivista “Strike”, col fine di “vedere quale reazione avrebbe suscitato”.

Il contenuto dell’articolo di Graeber (“Sul fenomeno dei lavori del cavolo”) traeva spunto dal famoso pamphlet che John Maynard Keynes aveva scritto nel 1930, dal titolo “Prospettive economiche per i nostri nipoti”. Nello scritto, da molti definito visionario, il grande economista di Cambridge, che era solito riferirsi al breve periodo, proiettandosi in quello lungo, prevedeva che lo sviluppo della tecnologia avrebbe assunto dimensioni tali da consentire ai Paesi economicamente più sviluppati di ridurre notevolmente le ore di ogni giornata lavorativa. Oggi – sostiene Graeber – ci sono tutti i motivi per credere che Keynes avesse ragione: dal punto di vista tecnologico, le condizioni esistono già. Ciononostante, non è accaduto quanto Keynes aveva previsto circa novant’anni fa; al contrario, il progresso tecnologico è servito semmai a trovare il modo per fare lavorare tutti di più.

Così, secondo Graeber, sono stati creati impieghi che non servono a nulla; per cui nei Paesi economicamente più avanzati, come quelli dell’Europa occidentale e dell’America del Nord, ampi strati della popolazione lavorativa sono stati occupati per passare “l’intera vita lavorativa a svolgere compiti che in cuor loro ritengono non andrebbero affatto svolti”. Per l’antropologo, il “danno morale” che deriva da siffatta situazione non può che essere grave; si tratta di una “cicatrice che segna la nostra anima collettiva, anche se praticamente nessuno ne parla”. Diviene perciò spontaneo chiedersi il motivo per cui la previsione di Keynes non si è concretizzata.

Nel corso del periodo che va dal 1930 (anno in cui Keynes ha scritto il suo pamphlet) ai nostri giorni, il numero delle persone impiegate in lavori produttivi di beni reali è diminuito, a causa dell’automazione dei processi industriali, proprio come Keynes aveva previsto; nello stesso tempo, però, sono aumentati i lavoratori occupati nei settori dei servizi. Ciò ha comportato che invece di una riduzione significativa delle ore lavorative, tale da consentire alla popolazione mondiale di dedicarsi ai propri progetti di vita, sia stata realizzata una “gonfiatura” di settori totalmente nuovi quali, ad esempio, quello dei servizi finanziari, del telemarketing, delle risorse umane, delle relazioni pubbliche e di quello comprensivo delle cosiddette attività ausiliarie (settore, quest’ultimo, che ha una funzione di supporto nei confronti della attività dei settori precedenti). Le attività ausiliarie sono quelle che Graeber considera “lavori del cavolo”, ovvero “lavori privi di scopo”, in quanto svolti come se una qualche “entità” esterna costringesse gli addetti a compierli solo per tenerli occupati.

Per Graeber, l’esistenza di impieghi privi di scopo costituiscono un “mistero”, nel senso che essi esprimono una situazione di difficile spiegazione, se si considera che essa (l’esistenza) permane all’interno dei sistemi capitalistici, la cui logica di funzionamento, in linea di principio, non dovrebbe giustificarla. Per la teoria economica, su cui tale logica è fondata, è impensabile – afferma Graeber – che un’attività produttiva debba “sborsare soldi a lavoratori di cui non ha affatto bisogno. Eppure, per qualche ragione succede proprio questo”. Così, negli ultimi decenni, è accaduto che il numero dei “passa carte” abbia contribuito ad allargare a dismisura le burocrazie di ogni tipo.

In realtà, a parere di Graeber, la spiegazione esiste, ma non è di tipo economico, bensì solo di natura politica; gli establishment dominanti, formatisi dopo il secondo conflitto mondiale, si sono resi conto che “una popolazione felice e produttiva con tempo libero a disposizione” avrebbe costituito un “pericolo mortale”, come si era avuto modo di constatare durante i sommovimenti sociali verificatisi negli anni Sessanta del secolo scorso. Di conseguenza, per sventare il pericolo paventato (espresso dalla popolazione felice e produttiva, con tempo libero a disposizione, reso possibile dalla crescente automazione dei processi produttivi), la parte politica degli establishment dominanti non ha esitato a riproporre l’idea che “il lavoro sia un valore etico in sé, e che nulla spetti a chi non è disposto a sottostare per la maggior parte delle sue giornate alla severa disciplina che esso comporta”.

Per l’attuazione dell’idea è stata valutata opportuna la scelta di creare posti di lavoro che valessero a comprimere il tempo libero reso potenzialmente disponibile dall’automazione dei processi produttivi, come Keynes aveva previsto. Ciò è stato fatto indirizzando una moltitudine di soggetti verso lavori che, pur non producendo beni reali, tenessero occupati i lavoratori in attività probabilmente poco gradite. In tal modo, a parere di Graeber, si sarebbe formata una “nicchia sociale” nella quale si sarebbe “annidata” una profonda violenza psicologica esercitata ai danni dei lavoratori impegnati nei “lavori del cavolo”, perché privati della loro dignità, a causa del convincimento di svolgere mansioni senza senso e, perciò, prive di ogni legittimazione sociale; una situazione, questa, che, per Graeber, non poteva che dare luogo a “profonda rabbia e risentimento”, con possibili gravi ripercussioni sul piano sociale.

Pur in assenza di adeguate informazioni statistiche, Graeber ritiene che la validità dell’ipotesi assunta alla base del suo articolo sull’argomento pubblicato sulla rivista “Strike!” sia stata confermata, non solo dall’accoglienza ricevuta, ma anche da ricerche sul campo; infatti, non è passato molto tempo “perché venissero alla luce prove statistiche”. Vi ha provveduto l’istituto di indagini statistiche “YouGov”, che ha testato l’ipotesi dell’esistenza di “lavori del cavolo” socialmente inutili; a tal fine, l’istituto ha condotto un sondaggio tra i britannici, direttamente ispirato al saggio di Graeber, chiedendo a un campione di lavoratori inglesi se fossero convinti che il loro lavoro fosse socialmente utile.

I risultati dell’inchiesta hanno confermato l’ipotesi: oltre il 37% degli intervistati ha risposto che pensava di no, mentre il 50% ha risposto affermativamente e il 13% ha dichiarato di non esserne sicuro. Un sondaggio successivo, condotto in Olanda, ha confermato i risultati dell’istituto “YouGov”, con una percentuale un poco più elevata (40%) di lavoratori che hanno dichiarato che il loro lavoro non abbia ragione di esistere. Quindi, Graeber ha avuto motivo di affermare che, non solo “l’ipotesi è stata confermata dalla reazione pubblica, ma è stata anche abbondantemente convalidata dalla ricerca statistica”, che è valsa a mettere gli establishment dominanti di fronte a un grave problema sociale.

I risultati delle indagini statistiche hanno motivato lo stesso Graeber a dare all’argomento, con il libro “Bull Shit Jobs”, una rappresentazione più sistematica rispetto a quella del saggio originale, nel quale era stato possibile solo “denunciare” ipoteticamente che l’ideologia neoliberista del libero mercato aveva dato origine ad una realtà che “era il contrario di quella che pretendeva di essere”, nel senso che si trattava di un progetto politico camuffato da progetto economico”. Pertanto, con il suo libro, Graeber ha inteso “scoccare” una freccia contro il cuore della società neoliberista, per avere, quest’ultima, trasformato la vita sociale, basandola “sul lavoro, nemmeno poi ‘lavoro produttivo’, ma lavoro con fine e significato in sé”; fatto, questo, che, risultando incomprensibile per una parte dei lavoratori, costituisce fonte di odio, rancore e sospetto, divenuti il collante che tiene assieme la società; una società che Graeber si augura possa presto finire. Ma come?

L’automazione, come Keynes aveva previsto, ha provocato la nascita del fenomeno della disoccupazione tecnologica di massa; le società industriali contemporanee si sono limitate a “colmare il vuoto” con la creazione di lavori inventati e senza senso. La soluzione è stata l’esito della “combinazione della pressione politica esercitata sia da destra sia da sinistra”, con la profonda convinzione comune che un’occupazione retribuita potesse di per sé creare le condizioni atte a garantire la realizzazione di un’organizzazione sociale inclusiva ed equa sul piano distributivo, indipendentemente dalla reazione emotiva riguardante l’aspetto lavorativo.

A parere di Graeber, la sola soluzione che può consentire di rimuovere tutte le conseguenze negative connesse alla proliferazione dei “lavori del cavolo” (considerati strumentali per la soluzione del fenomeno della disoccupazione tecnologica di massa nelle società industriali contemporanee) è l’introduzione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato, col quale realizzare la separazione del “sostentamento dal lavoro”. L’effetto immediato sarebbe l’eliminazione, non solo di tutte le forme d’impiego prive di senso, ma anche della burocrazia, che si è espansa a dismisura per la gestione di tali forme d’impiego. Quello di cittadinanza deve essere un reddito da corrispondersi a tutti, in quanto riguardante ciò che è necessario per soddisfare il diritto alla vita.

La percezione di un reddito per la sopravvivenza separato dal lavoro diviene così un diritto umano, cessando di risultare, come ora avviene, una pratica di beneficenza o uno strumento di coesione sociale. Tutte le obiezioni che di solito vengono sollevate, quando si propone di garantire a tutti un reddito di sostentamento incondizionato, prescindendo dal lavoro (quali la motivazione a non lavorare, oppure a svolgere un lavoro solo per l’interesse personale), sono, a parere di Graeber, infondate; ciò perché tali obiezioni mancano della consapevolezza del fatto che non sarebbe mai possibile (considerate le risultanze delle indagini statistiche) arrivare a una distribuzione del lavoro più inefficiente di quella che già esiste.

In conclusione, l’adozione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato potrà anche non essere parte dell’agenda politica di chi governa la congiuntura attuale, ma continuare a discuterne servirà, se non altro, a radicare nell’opinione pubblica l’idea del come potrebbe essere una società autenticamente liberata dalle sacche di odio e rancore originate dall’insoddisfazione procurata da procedure distributive inique del prodotto sociale, fondate sulla costante insistenza sul valore etico del lavoro, anche quando risulti un “lavoro del cavolo”.

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