Le tre scimmie di Dante

1 Dicembre 2021

[Marinella Lőrinczi]

Nello splendido borgo di Sarteano (in provincia di Siena), l’amministrazione comunale ha proposto per il 2021, anno delle commemorazioni dantesche, il progetto Paese che vai, Dante che trovi.

Il titolo azzeccato e spiritoso può essere applicato naturalmente, come si sa, anche alla Sardegna; distorcendolo o capovolgendolo un pohino, e restringendolo alla questione della lingua, si può rammentare che a Dante parve di trovare in Sardegna un linguaggio locale ben strano; un eloquio o una locutio volgare, in breve un volgare, che si discostava dai volgari italici municipali – parlati cioè su una determinata area più o meno ristretta – per certe sue peculiarità fonetiche e strutturali. Le ultime fanno sì che il sardo, da parte dei linguisti moderni ottocenteschi e successivi, sia classificato come lingua a se stante. Una delle caratteristiche più evidenti del sardo è il cosiddetto plurale consonantico sigmatico (in -s) della categoria nominale, che tanto dispiacque a Dante, come si intuisce dall’esemplificazione.

Volgare è una parola polisemantica, oggi come anticamente. Ma nel trattato dantesco De vulgari eloquentia (“Della lingua volgare”) scritto in latino nel primo quinquennio del Trecento, il vocabolo vulgaris (it. vulgare, poi volgare) è riferito a “lingua natia, linguaggio natio” (locutio vulgaris), cioè alla parlata più diffusa, più comune, appresa nelle circostanze sociali quotidiane; infatti, afferma Dante (libro I.I.2), “chiamiamo lingua volgare quella in cui i bambini sono avvezzati da chi li alleva”, oppure “per lingua volgare intendiamo quella cui i bambini vengono abituati” fin dalla nascita nel loro ambiente famigliare (trad. di M. Felisatti 1965, S. Cecchin 1983, due delle numerose traduzioni). Nel 2021, in certe aule scolastiche italiche dove si insegna letteratura italiana, questo significato medievale di volgare non sempre è ben evidente, e si pensa primariamente all’ignoranza e alla volgarità.

Il latino dell’epoca dantesca veniva invece indicato con gramatica, negli scritti latini.

Linguaggio strano il sardo per Dante – dal suo punto di vista, s’intende -, linguaggio lontano (insulare) ed estraneo poiché sembra che Dante in Sardegna non avesse mai messo piede. Di questo idioma solo colse qualche briciola lessicale (domus nova, dominus meus) deformata o deformandola verso il latino (De vulg.eloq., I,XI,6).

Niente di eccezionale in sé, né per allora, né per i tempi nostri: quanti di noi non sanno qualcosetta, o pensano di saperla, di lingue parlate in luoghi mai frequentati? e si lasciano andare persino a imitazioni di quel poco che non sanno, di solito divertenti oltre ad essere caricature pure. Lo fanno sia i bambini che gli adulti. Ma le imitazioni ironiche del linguaggio altrui (che  possono implicare sminuimenti) avvengono anche tra vicini, come quando in Sardegna certi Sardi dicono di altri Sardi che questi parlerebbero usando solo vocali: ajája oía oía “nonna, vorrei delle olive; (letteralmente) nonna, volevo oliva”, oppure u u u (= unu nu) “un nodo”. E se qualcuno volesse comunicarmene altre, gli sarei veramente riconoscente.

Capita ancora che venga presa in giro, senza pietà, la lingua tedesca ‘abbaiante’ in contrasto con le ‘dolci’ lingue spagnola italiana ecc., quale probabile retaggio di certi ricordi (anche tramandati e non diretti) della seconda guerra mondiale. Di kapitanen, doktoren ecc. ecc. era stracolma la serie dei fumetti satirici Sturmtruppen (1968-1995) dell’italiano Bonvi. Si trova in una dimensione diversa (ma pur sempre ambigua) delle considerazioni sul linguaggio altrui il nòio volevàn savoàr l’idrìss (“l’indirizzo”) di Totò, quando cerca di ‘adeguarsi’, da ospite rispettoso, alla parlata milanese. Ed è del tutto scherzoso ed ammirativo il soprannome Ibracadabra del calciatore svedese di origini balcaniche Zlatan Ibrahimović, in cui si combinano i suoni del suo cognome ‘esotico’ turco-slavo con la valutazione di una abilità tecnica degna di un mago o di un giocoliere.

Per non dimenticare il trexentese Efisio Vincenzo Melis (1889-1922), laureato in matematica, che ha divertito generazioni di Sardi con la caricatura sia dell’italiano enfatico, sia dell’italiano sardizzato delle persone poco istruite, sia dei luoghi comuni linguistici (come ad es. “in sardo tutte le parole finiscono in u”; lo pensava anche Dante, a modo suo). Nella commedia Ziu Paddori (1919; https://www.youtube.com/watch?v=dEwoPJUysvo) Melis fa dire a Paddori – il quale ha captato i nostalgici e sconsolati sospiri di un torinese capitato da quella parti – parole premurosamente rivolte allo straniero e pronunciate in ‘italiano’: Naráte, sannore, aún’abbiate lu mammu? (“Dite, signore, dove avete/è la mamma?”), frase geniale che va analizzata lemma per lemma.

E dal momento che li ho appena risentiti in TV, ricordo i lunghi monologhi di Gigi Proietti in un simil-inglese americano e in un simil-romanesco, accompagnati da gesti e mimica adeguati. E andando ancor indietro nei ricordi, mio padre, ungherese della Transilvania che aveva imparato da giovane l’italiano in Italia, imitava l’italiano di un suo amico pronunciato con forte accento ungherese (e lo esemplificava con un verso dantesco); o, al contrario, gli stranieri che scherzano sulla lingua ungherese sempre a causa della sua ‘monotonia’ fonetica dovuta all’armonia vocalica (adeguamento dell’apertura di certe vocali ad una vocale in posizione dominante nella parola; così è in ungherese turco swahili ecc.) come in quest’esempio da me ora inventato: szemtelen gyermekeknek nem veszek kenyeret (la e è sempre aperta), che significa “a impertinenti bambini non compro pane”. E finisco con una filastrocca infantile romena per far la conta e che imita, a mio avviso, il francese; la trascrivo all’italiana: An-tan-té, dise-mane-pé, dise-mane-compané, an-tan-té!

Durante la giornata cagliaritana* dedicata nel mese di ottobre a Dante, entro un progetto gestito dalla Deputazione di Storia Patria e dalle Università di Cagliari, Sassari, Pisa e Chicago, è stato toccato anche l’argomento delle teorie e delle opinioni di Dante verosimilmente implicate nelle quattro parole simil-sarde che ricalcano il latino, e delle possibili ragioni della loro scelta. Le ricordo di nuovo: domus nova, dominus meus (sostantivo+aggettivo, sostantivo+aggettivo pronominale possessivo).

Dante, come si diceva, usa la parola gramatica per indicare la lingua latina (considerata da lui un idioma artificiale e stabile, invariabile nel tempo e nello spazio, mentre i volgari erano e sono mutevoli); ma il termine gramatica per “latino” nonché il modo di concepire la immobilità di tale idioma non sono originali o personali, poiché ai suoi tempi e da molto prima così la pensavano (Curtius 1943, p. 161) le persone istruite, esperte del latino degli autori antichi e medioevali. Guido delle Colonne (vissuto all’incirca tra il 1210-1287), poeta elogiato da Dante e autore anche di uno scritto in latino, compone quest’ultimo lavoro per coloro “qui gramaticam legunt” (leggono il latino) – ricorda ancora Curtius.

Si potrebbe perciò supporre che anche i due gruppi di parole ‘sarde’ – che per Dante esemplificano il fatto che i Sardi parlerebbero scimmiottando la gramatica (=il latino) – fossero una canzonatura, circolante tra le persone frequentate da Dante, inventata da coloro che magari avevano maggiore conoscenza del sardo parlato o scritto; in altre parole, nel caso di domus nova, dominus meus potrebbe trattarsi di una sorta di blasone popolare, di un marchio identificante il (parlante) sardo.

Durante il convegno cagliaritano dedicato a Dante, di questo si è parlato di sfuggita; è stata invece menzionata l’ipotesi (avanzata nella nuova edizione del 2012 del trattato dantesco, curata da E. Fenzi; p. 82), secondo la quale Dante avrebbe invece coniato espressioni diverse (dominus nova, domus meus) come esempio di sardo latinoide. Stravolgendo così non soltanto il sardo ma anche la gramatica. Se  scimmiottatura  è, lo sia fino in fondo: “l’imitazione del latino [, riflesso e distorto dal sardo,] non [sarebbe] altro che una scimmiottatura grottesca, fatta senza criterio [=sgrammaticata, insensata, confusa], che Dante vuole denunciare come tale” (Fenzi, p. CVII).

Non si tratta di una congettura bizzarra di tipo inedito: già A. Marigo nel 1938 aveva pensato a un originario dantesco dominus nova, domus novus, che piacque a quei tempi quale soluzione “elegantissima e definitiva”; certezza tuttavia non sostenuta dalla storia esegetica del trattato, tant’è che Fenzi suggerisce combinazioni ancora diverse, come si è visto (seppur modellate esplicitamente sulla congettura di Marigo; p. CVII), mentre M. Tavoni (ed. 2011,  p. 1262) accetta e conferma domus nova, dominus meus. Ma altri commentatori non si erano lasciati sfuggire la possibilità dell’esotizzazione  ad oltranza del sardo – superando persino Dante – attraverso la forzatura combinatoria delle parole, parole latine corrette in sé, ma in abbinamenti bislacchi anche nel senso etimologico della parola bislacco (< sloveno “sciocco”).

Mi spingo oltre, immaginando lo stupore e l’incredulità di Dante – questa è una mia ipotesi – se avesse saputo che i Sardi avevano usato, per scrivere testi importanti ma non poetici, i caratteri greci. Se ne fosse stato a conoscenza, questo sarebbe servito a mettere ancor di più in evidenza una supposta mancanza di autonomia linguistica, o una subalternità linguistica, dei Sardi. Ma, rispetto alla lingua greca, come sostengono ad esempio M. Telò  e il classicista G.W. Most (2006, pp. 184, 185), “Dante non esprime mai il desiderio di imparare questa lingua e tanto meno il rammarico di non essere nelle condizioni per farlo”, e che “né nella sua versione antica né in quella bizantina la lingua greca rappresenta una parte attiva e vitale del mondo linguistico di Dante. Sa che esiste, ma non vede alcuna ragione per desiderare d’impararla né alcun mezzo possibile per mettersi a fare. La sua esistenza gli è indifferente.”

E’ giusto aggiungere subito che tra gli idiomi municipali che Dante scarta come inadatti a competere e/o a collaborare (mescolarsi attivamente) col volgare illustre sovramunicipale (già in uso nell’alta cultura italiana scritta ma non generalizzato), ve ne sono alcuni che sono trattati quasi peggio del sardo. Uno di questi (aquileiese e istriano considerati insieme) è ciò che oggi si indica con friulano. I friulanisti moderni, tra cui G. Francescato a più riprese, hanno analizzato minuziosamente le implicazioni dell’esempio dantesco ces fas-tu, alla lettera “che fai tu”, che contiene in ces l’aggiunta di una s finale spuria, inesistente nella lingua reale.

Insomma, per i gusti o criteri linguistici di Dante sia i Sardi sia i Friulani pronuncerebbero anzitutto troppe s; e questo eccesso, quest’asprezza, vengono derisi iperbolizzando, esagerando il fenomeno fonetico, cioè piazzando negli esempi la s anche quando l’idioma reale non lo richiede. E’ curioso rimarcare, che, al contrario, le numerose uscite latine in -s non gli provocano lo stesso fastidio. Inoltre, il ces fas-tu friulano sarebbe paragonabile ad un’eruttazione (provare per credere), perché il pronome finale tu è accentato, cioè energico, forte (Francescato 1964); e l’ossitonia (accento sull’ultima sillaba) era da Dante considerata ugualmente sgradevole. Quanto al sardo vero, ponendo attenzione alle finali di frase o anche di parola, se terminanti in –s e seguite da pausa o intervallo, si deve ricordare la quasi generalizzata sonorizzazione di tale –s in [z], cioè in s ‘dolce’, dovuta alla vocale aggiuntiva, paragogica (Wagner 1984, parr. 82-88); ad es. [domuzu, kanizi, melaza, pruzu, dunkaza], aggiunta vocalica che in qualche modo evidenzia ancor di più la consonante sibilante. Il fenomeno della paragoge è attestato già per il sardo medioevale, soprattutto per i verbi (es.  funti “sono”).

La porzione di esempio sardo-latino domus nova è, in verità, corretta se vista come latina e al singolare, ma scorretta se vista come sarda (poiché domus, plurale, richiederebbe novas o noas); quindi, a rigore, l’intero esempio domus nova, dominus meus avrebbe una esse in meno e sarebbe asimmetrico nelle desinenze, persino se domus, latino, fosse un plurale (perché l’aggettivo sarebbe allora novae, nove, con uscita ugualmente in vocale). Forse anche questa potrebbe essere una ragione in più per asserire che i Sardi imiterebbero maldestramente la gramatica, cioè il latino, tanquam simie homines “come le scimmie (imitano) gli uomini”. E il paragone dantesco, che però non è identificazione, è chiaro e severo (e corrisponde a ragionamenti coevi sul mondo animale, sulla scimmia in particolare), inutile cercare attenuanti moderne, arzigogolate e prolisse, come intendeva procedere S. Frau (2017).

Riferendoci ora a tutti i volgari locali elencati e criticati da Dante, questi non andrebbero mai indicati come dialetti (come fanno alcuni studiosi moderni, v. in Mengaldo 1978). Ai tempi di Dante il termine dialetto (di origine greca indiretta, per tramite del latino) non è né noto né in uso; le sue prime attestazioni (come dialecto e poi dialetto) risalgono, rispettivamente, al 1525 e al 1565 (D’Achille 2020, pp. 42-43). Mentre il neologismo latino dialectus compare sì precedentemente, ma nella seconda metà del Quattrocento (Trovato 1984). Questa osservazione vale a prescindere dal fatto che odiernamente friulano e sardo sono classificati come lingue a sé stanti.

La scimmia nel Medioevo europeo. Accennato l’argomento durante la giornata cagliaritana su Dante, andava colta l’occasione per approfondirlo da due angolature. La prima è quella più generale e riguarda la dimestichezza dell’uomo medioevale con quest’animale speciale. I serragli medievali (racconta Buquet in un articolo del 2013, riccamente illustrato), allestiti da imperatori, re, principi e comunità cittadine, possedevano – come si evince da numerosi inventari – oltre ai più frequenti leoni, dromedari e pantere, anche scimmie (al quarto posto, in termini statistici), e poi orsi, struzzi, elefanti ecc. La scimmia era sia animale di compagnia sia esibita in gabbia o incatenata (per chi poteva permetterselo, s’intende). Era uno status symbol, nonostante certi suoi comportamenti fossero ritenuti ripugnanti (ma evidentemente non da tutti) e persino oltraggiosi e diabolici; comportamenti o atteggiamenti considerati come minimo imitazioni cattive o inquietanti benché inconsapevoli. Le imitazioni degli uomini, o di fatti della realtà in genere, erano paragonabili alle immagini restituite da uno specchio deformante. La scimmia era considerata e trattata, come efficacemente riassume Bugatti (2018), secondo un duplice registro “di sospetto o di divertente gioco di specularità”.

Un altro articolo completa le informazioni, già nel titolo riportato nel link, con il trattamento ambiguo che era riservato alla scimmia nella vita reale (belle le illustrazioni; https://www.foliamagazine.it/la-difficile-vita-delle-scimmie-nel-medioevo/, 2013), di esibizione e al contempo di schiavizzazione o di disprezzo. Invece nei bestiari medievali (ricchi in miniature), considerati “delle finestre aperte sulla cultura e sulle categorie di pensiero degli uomini del medioevo”, ed in altri testi scritti, prevalgono i valori simbolici, ereditati in parte dal mondo antico (Gaudron 2014). L’apparato iconico dei bestiari deve tuttavia costituire il punto di partenza – fa comprendere Gaudron – per lo studio dell’importante presenza della scimmia nelle arti visive medievali, presenza che genera “una storia di successo” e di grande ed inquietante suggestione.

Di solito si indica lo studio di Janson (1952) come opera di riferimento (quasi una “piteco-enciclopedia” illustrata) per l’analisi del simbolismo negativo della scimmia medievale, da abbinare al nono capitolo di Letteratura europea e Medio Evo latino di Curtius (1948, cap. IX sulla scimmia quale metafora); questo nono capitolo comprende un lungo elenco di citazioni tratti da autori medievali, Dante incluso, e si evidenzia ogni sfumatura di significato entro il suo contesto.

Da un’altra angolatura, più specifica, andava verificato l’uso che Dante fa del fortunato motivo scimmiesco. Ricerca risultata molto semplice. L’opera dantesca ci fornisce, in modo sorprendente, tre sole attestazioni. Due in volgare, una, di cui si è già detto, in latino.

Nel Convivio, opera composta da Dante fra il 1304 ed il 1307-8 (quasi in contemporanea col De vulg.eloq.), il motivo della scimmia compare in III,VII,8-10 (a p.96 dell’edizione citata). Più in geneale, Dante vi “espone e radicalizza” una tesi presente nella tradizione teologica e filosofica a lui nota, e vuole dimostrare che il parlare, il comunicare per mezzo di segni “esteriori” convenzionali, sono una competenza e una prerogativa esclusivamente umana (Kelemen 2001, capp.2-3). Infatti “… solamente l’uomo intra li animali parla, e ha reggimenti [=comportamenti] e atti che si dicono razionali” e se qualcuno dicesse che “alcuno uccello parli [gazza o pappagallo, oppure che] alcuna bestia fa atti o vero reggimenti, sì come pare de la scimia … rispondo che non è vero che parlino né che abbiano reggimenti” poiché le scimmie ed altri animali imitanti non “intendono per [quel che fanno imitando] alcuna cosa significare, ma solo quello che veggiono e odono rappresentare … sì come ne lo specchio”; dunque quel che fanno per loro non ha alcun significato: essi agiscono come se fossero un corpo lucido, uno specchio che riflette. Infatti “la imagine corporale che lo specchio dimostra non è vera”. Abbiamo, quindi, anzitutto una definizione generica della scimmiottatura (quale riflesso speculare privo di significato); secondariamente una esemplificazione, visiva e uditiva, di queste imitazioni compiute da un essere guidato dal solo istinto, e che imita (facendo smorfie ed emettendo versi) senza comprendere ciò che fa.

Nel Canto XXIX dell’Inferno, all’ultimo verso 139 (N.B.: 1+3+9=13), la parola scimia chiude bruscamente, sebbene provvisoriamente, la Bolgia dei fraudolenti. L’alchimista Capocchio, che falsò “li metalli con l’alchìmia”, si autodefinisce un ottimo contraffattore, “di natura buona scimia”; fu un imitatore in mala fede, un truffatore consapevole, abile sì ma non tanto da non essere scoperto ed arso vivo sul rogo, pubblicamente, nel 1293 a Siena. Scimia qui è usato metaforicamente.

Che indicazioni interpretative possiamo trarre da questi due esempi, da applicare al terzo, ai Sardi che, parlando, imiterebbero il latino tanquam [come] simie homines? Qualcuna sicuramente.

L’idioma dei Sardi, sebbene non sia da Dante considerato, o piuttosto detto, autentico ovvero spontaneo e naturale, cioè un vero volgare, sarebbe pur sempre modellato (da parte di umani) su di un altro idioma, la gramatica: invenzione questa, e convenzione ugualmente umana, fatta ad arte, costruita di proposito e utile anche ai “litterati fuori di lingua italica” (Conv., I,IX,2), ad esempio ai germanofoni. E se “in un dato senso, la natura è più nobile dell’arte […] in un altro senso, è più nobile l’arte,  inquantoché è come un ulteriore progresso della natura” (G. Contini cit. da P.V. Mengaldo 1978, p.61, n.61). Nella Commedia il falsario Capocchio dichiara di essere stato un buon imitatore (scimia) della natura, ma non per questo fu risparmiato nella vita, anzi, perché c’è arte e arte, l’«esperto imitar = arte» è graduabile e non assoluto. E scimia va intesa come una comparazione implicita, una metafora, poiché innegabilmente Capocchio è umano. Come anche gli imitatori della gramatica  sono umani. L’imitazione della gramatica (il sardo) che diventerebbe un’imitazione di secondo grado,  può essere a sua volta arte, o solamente un’ardita o incosciente distorsione? Tanto più che si tratta di una comparazione o similitudine (imitano come fanno le scimmia, x è come y) e non di una metafora (x è y, la birra è simia vini, ad es.). Sta di fatto, tuttavia, che da quattro parole sembrerebbe eccessivo trarre delle conseguenze troppo drastiche. Ritornerei all’idea di una aspra e un pohino presuntuosa canzonatura di un volgare che noi chiameremmo neolatino, come lo è, a ben vederci, anche per Dante.

Ringrazio Luisa Mulas e Mirko Tavoni per l’appassionato supporto bibliografico.

     Alighieri, Dante, Convivio, Einaudi, 1988,http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_1/t12.pdf.

      Alziator, Francesco – Mengaldo, Pier Vincenzo, 1970,  Sardegna, https://www.treccani.it/enciclopedia/sardegna_%28Enciclopedia-Dantesca%29/.

      Bober, Harry, 1954,  H. W. Janson, Apes and Ape Lore, in the Middle Ages and the Renaissance, “The Art Bulletin”, 36,2, pp.145-148; recensione.

      Bugatti, Vera, 2018, Il significato della scimmia nell’arte; https://www.stilearte.it/storie-di-scimmie-parlanti/.

      Buquet, Thierry, 2013, Les animaux exotiques dans les ménageries médiévales. Jacques Toussaint. Fabuleuses histoires des bêtes et des hommes, “Trema – Société archéologique de Namur”, pp.97-121; https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-00905429/file/exotiques-menageries-buquet-2013.pdf.

      Idem, 2013, Preventing “Monkey Business”. Fettered Apes in the Middle Ages, “Medieval Animal Data Network”; https://mad.hypotheses.org/37.

      Curtius, Ernst Robert, 1943, Dante und das lateinische Mittelalter, “Romanische Forschungen”, vol. 57, 2,  pp.153-185.

      Idem, 1948, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, trad. it. a c. di Antonelli, Roberto, La Nuova Italia, 1995; il breve cap. XIX ha come argomento la scimmia quale metafora.

       D’Achille, Paolo, 2020,  Le datazioni del termine «dialetto» e di alcuni suoi derivati, in Maconi, Ludovica (a c. di), Retrodatazioni lessicali: storia di cose e di parole, Firenze, Accademia della Crusca , pp.41-59.

       Fenzi, Enrico (a c. di), 2012, Dante, De vulgari eloquentia, in Dante Alighieri, Le opere, III, Roma, Salerno Editrice.

       Francescato, Giuseppe, 1964, Ce fastu?, “Ce fastu?”, XL, pp.128-135.

       Frau, Sergio, 2017, Il latino delle scimmie. Linguacchio [=Il pastrocchio], in Omphalos. Il Primo Centro del Mondo. Il Paradiso che divenne Inferno … Un’inchiesta, pp.947-974); https://www.nurnet.net/blog/il-latino-delle-scimmie-da-pag-947-a-pag-974/.

       Gaudron, Amandine, 2014, Le singe médiéval: Histoire d’un animal ambigu : savoirs, symboles et représentations, École nationale des chartes – PSL; http://www.chartes.psl.eu/fr/positions-these/singe-medieval.

       Janson, Horst Woldemar, 1952,  Apes and Ape lore in the Middle Ages and the Renaissance, coll. Studies of the Warburg University, 20, Londra.

       Kelemen, János, 2001, Per la ricostruzione della filosofia del linguaggio di Dante, “Verbum”, 1, pp.11-129; http://www.verbum-analectaneolatina.hu/pdf/3-1-09.pdf.

       Lőrinczi, Marinella, 2000, La casa del signore. La lingua sarda nel De vulgari eloquentia; https://people.unica.it/marinellalorinczi/files/2007/06/11-dantesardo2000.pdf.

       Mengaldo, Pier Vincenzo, 1978, Linguistica e retorica di Dante, Pisa, Nistri-Lischi Editori.

        Ricci, Pier Giorgio – Mengaldo, Pier Vincenzo, 1970 De vulgari eloquentia, https://www.treccani.it/enciclopedia/de-vulgari-eloquentia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/.

       Tavoni, Mirko, 2010, Dante

https://www.treccani.it/enciclopedia/dante_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/.

       Idem (a c. di), 2011, Dante, De vulgari eloquentia, in Dante Alighieri, Opere, I, Milano, Mondadori.

       Telò, Mario – Most, Glenn W., 2006, I greci di Dante, “Belfagor”, vol. 61,2, pp.181-201. 

       Trovato, Palo, 1984,  ‘Dialetto’ e sinonimi (‘idioma’, ‘proprietà’, ‘lingua’) nella terminologia linguistica quattro- e cinquecentesca (con un’appendice sulla tradizione a stampa dei trattatelli dialettologici bizantini), “Rivista di letteratura italiana”, II, pp.205-236.

      Wagner, Max Leopold, 1984, Fonetica storica del sardo, introd., trad. e app. di Paulis, Giulio, Cagliari, Trois; ed. orig. ted. 1941.

* Links al convegno di Cagliari: https://www.facebook.com/watch/live/?ref=watch_permalink&v=186946946907760https://www.facebook.com/SardegnaEventi24.it/videos/884071082541598.

Immagine: Murale di Eduardo Kobra a Ravenna

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