Lo Statuto dei Lavoratori compie 50 anni

16 Maggio 2020

Foto da Il Sole 24 Ore

[Graziano Pintori]

…il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa, e vuole che questi diritti siano rispettati da tutti e, in primo luogo, dal padrone…perciò sottoponiamo al Congresso un progetto di Statuto dei diritti dei lavoratori.”

Così Giuseppe Di Vittorio, storico sindacalista pugliese, presentò il primo progetto di statuto al Congresso Nazionale della CGIL, tenutosi a Napoli nel 1952. Successivamente furono le lotte del ’68 degli studenti e l’autunno caldo delle lotte operaie del ’69 che accompagnarono, fino al 20 maggio 1970, la nascita della legge n. 300/1970, ossia lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori.

La storia ci ricorda che la legge fu firmata dal socialista Giacomo Brodolini, coadiuvato da una commissione di esperti di diritto del lavoro, guidata dal docente universitario Gino Giugni, anch’esso socialista. Il Parlamento approvò la legge con una maggioranza di “centro sinistra organico”, il PCI scelse il voto di astensione, essendo contrario al fatto che la tutela dei lavoratori non si applicava anche alle aziende fino ai 15 occupati.

La legge trovò tenaci resistenze da molti datori di lavoro, che non vollero abbandonare il ruolo di “padroni” che, fra i tanti abusi, si sentivano in diritto di intervenire sulle scelte sindacali o sugli orientamenti politici dei dipendenti, per decretarne la morte o la vita lavorativa. In molte aziende la Costituzione trovò l’ingresso sbarrato dall’ignoranza di molti “padroni”, incapaci di cogliere il nuovo fermento sociale e civile di cui lavoratori, intellettuali, studenti, ma anche insegnanti e imprenditori in linea con i tempi, illuminarono la strada verso l’emancipazione dei diritti civili.

Non a caso dopo la Costituzione la fonte normativa più importante in materia di lavoro è stata la legge 300/1970, che con la legge sul divorzio e successivamente la legge sull’aborto, nonché le leggi sul diritto allo studio, il diritto alla casa, la riforma del diritto di famiglia ecc. furono i baluardi che contribuirono a dare “una scossa” alla società perbenista, paternalista, patriarcale, maschilista, bacchettona, bigotta ormai obsoleta rispetto alla svolta in atto.

Con lo Statuto, in pratica, si assaporò la Costituzione nelle fabbriche e di riflesso nella società, perché si riconobbe la centralità del lavoro come mezzo per lo sviluppo intellettivo e sociale del lavoratore, in quanto persona. Con esso il mondo del lavoro venne scrostato da certi tabù: un nuovo vento disciplinò il diritto di sciopero, furono bandite le condotte antisindacali dei “padroni” e s’impose il divieto di indagini sulle loro opinioni e adottate garanzie per la sicurezza sanitaria e incolumità fisica, fu vietato il demansionamento e così via. Di conseguenza non meravigliò più di tanto il tentativo di abrogare, da parte dei conservatori e del padronato più retrivo, la legge 300/1970 tramite referendum, che fallì.

Oggi in tempi di covid 19, pensando allo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, quanta acqua è passata sotto i ponti! Tanta, in cinquant’anni, è stata l’acqua che ci ha trascinato fino alla globalizzazione e alle crisi economiche che hanno partorito una generazione di mostri politici, partiti impudenti e governi machiavellici. Dagli anni ’90 i governi si impegnarono sempre con maggiore determinazione al rinvigorimento della flessibilizzazione del mercato del lavoro, da cui il ritorno dei licenziamenti indiscriminati di tipo economico e disciplinare senza giusta causa.

Non a caso comparve il lavoro interinale e l’articolo 18 dello Statuto fu uno degli obiettivi principali della ex ministra Fornero e successivamente del governo Renzi. Oggi, a questo riguardo, sarà anche per rimediare alle responsabilità dei sindacati sulla sorte riservata allo Statuto, la CGIL, forte di un milione e duecento mila firme, propone la carta dei Diritti Universali del Lavoro; un progetto teso a riportare la centralità della Costituzione nei luoghi di lavoro, per restituire al lavoratore la dignità in quanto persona, già riconosciuta dallo Statuto del 1970.

Carlo Smuraglia, Presidente emerito dell’Anpi e ex deputato, disse, intervenendo sullo Statuto dei Lavoratori: “…se nel lavoro il datore impegna il suo avere, il lavoratore impegna il suo essere, ossia la persona nella sua libertà, dignità, sicurezza retributiva non solo per il lavoro prestato, ma anche per ottenere garanzie per un’esistenza libera e dignitosa per la propria famiglia”.

Con questa riflessione restiamo in attesa che il cittadino lavoratore, produttore di ricchezza, titolare di diritti e esecutore di doveri si ritrovi in una nuova società più equa, meno egoista e individualista e rispettosa dei beni naturali e ambientali.

Graziano Pintori è il presidente provinciale dell’ANPI di Nuoro

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