Ma il mare è sempre più blu

16 Giugno 2019
[Michele Zuddas]

E’ ancora possibile parlare della possibilità dell’avvento di una futura società basata sui principi di uguaglianza e libertà finalizzata alla realizzazione di una realtà comunista? La risposta non è semplice e sottende un’altra domanda, ovvero occorrerebbe chiedersi chi possa rispondere e, con questo, ponendo in dubbio che esista persona capace e non influenzata dall’indottrinamento del secolo precedente.

Eppure, tentare di dare una risposta non dovrebbe essere un’opzione ma un obbligo. Così, per evitare la presunzione di poter dare una risposta individuale, quanto segue è da intendersi come un invito ad una riflessione collettiva.

Per questo motivo, intendo procedere suggerendo alcuni spunti di riflessione da approfondire e che qui verranno solo accennati.

Il primo punto.

Solitamente quando si parla di Comunismo si associa il termine alle esperienze più conosciute, Cina, Russia, Cuba, che la storiografia ufficiale di matrice borghese ha imparato a descrivere secondo la propria visione del mondo, tanto che la parola ha con il tempo assunto una connotazione negativa. Per questo motivo, vorrei cambiare paradigma descrittivo, quindi non rimanere sul campo della descrizione borghese ma al contrario valutare se nella storia passata, al di dei tre casi succitati, siano mai esistite società comuniste o comunque se già prima dell’analisi marxista vi fosse un’adesione ai valori di uguaglianza e libertà (l’ordine delle parole non è casuale).

Ci sono diversi testi che si potrebbero citare e tra questi: Filone, Quod omnis probus sit liber, a proposito degli Esseni: “Tra loro, alcuni lavorano la terra, altri esercitano mestieri diversi che cooperano alla pace rendendosi utili a se stessi e al loro prossimo. Non accumulano argento e oro, né si appropriano di vaste tenute con il desiderio di trarne vantaggio ma semplicemente per procurarsi il fabbisogno essenziale per la vita. … .Fra di loro non v’è neppure uno schiavo: tutti sono liberi e si aiutano l’un l’altro. Non solo condannano i padroni come ingiusti in quanto ledono l’uguaglianza, ma anche come empi poiché violano la legge naturale che ha generato e nutrito tutti gli uomini allo stesso modo, come una madre, facendone veramente dei fratelli, non di nome, ma in realtà.”; Marco (X, 23-35)Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». 24 I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! 25 È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio.”; Sant’Ambrogio, De Officis (1,28) 132. Poi pensarono che la forma della giustizia fosse che le cose comuni e pubbliche si tenessero tali mentre quelle particolari e private si tenessero proprie. E questo non è ancora secondo la natura, perché la natura produce tutte quante le cose in comune per tutti. E per questo il Signore Dio aveva ordinato che così si generassero tutte le cose, che il vitto fosse comune a tutti, e la terra fosse come una certa comune possessione di tutti. La natura dunque generò la ragione comune, e l’usurpare ha fatto la ragione privata.”.

Potremmo continuare con altri esempi, ed evito volontariamente di citare il platonismo, ma avendo già dichiarato che lo scopo è quello di sollecitare piuttosto che quello di esaudire, incuriosire piuttosto che svelare, desidero utilizzare quanto appena scritto, per confutare alcune teorie spesso utilizzate ad uso e consumo del capitalismo. Tra queste, alcune interpretazioni della Teoria dei giochi sviluppata prima da Von Neumann e successivamente da altri studiosi, tra cui il più famoso perlomeno a seguito del film biografico “A Beautiful Mind” John Nash, contesterebbero la possibilità di realizzare una società comunista. Tuttavia, a differenza di quanto sostenuto da Laszlo Merò nel suo testo Calcoli Morali – Teoria dei giochi, Logica e Fragilità umana, la Teoria dei Giochi dimostra l’esatto contrario. Ovvero dimostra che la “mano invisibile” risponde anch’essa a delle regole, e soprattutto risponde a regole proprie contrarie allo sviluppo e al progresso di una società di uomini liberi. La Teoria dei giochi, a parere di chi scrive, dimostra però che è possibile anche cambiare le regole del gioco al fine di avere un risultato a somma positiva frutto della cooperazione, solidarietà ed uguaglianza piuttosto che dalla competizione. Per capire come ciò sia possibile, occorre rileggere Kant ed in particolare la Fondazione della metafisica dei costumi, laddove si spiega l’essenza dell’imperativo categorico (“agisci come se le massime secondo le quali vivi [debbano per tua volontà] debbano per tua volontà diventare leggi universali della natura”, meglio spiegato con “Due cose mi riempiono l’animo di ammirazione: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”) e della “Regola d’oro”, rintracciabile nelle opere di Platone, Aristotele, Seneca, Confucio e perfino in Matteo 7,12, la quale si riassume in “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, fatelo anche voi a loro”. In tal modo, applicando contestualmente l’imperativo categorico e la Regola d’oro, qualsiasi situazione che secondo la Teoria dei giochi debba essere identificata come competitiva può essere trasformata in cooperativa. Nella partita Eros contro Logos, non possiamo che tifare per entrambi. Questo è il Comunismo. Una società dove il Logos si raggiunge attraverso la cooperazione con l’Eros e solo grazie a quest’ultimo. Confucio nei suoi Dialoghi, XIII, 3, racconta della sua risposta ad un tale che gli chiese quale sarebbe stato il suo primo provvedimento legislativo immaginando che fosse al governo dicendo: “Restituirò ai nomi il loro significato”; alla sua risposta venne contestato: “Come siete astratto! Cosa vuol dire restituire ai nomi il loro significato?”; rispose: “Se ai nomi non è conferito il loro significato, il discorso è incoerente e, se il discorso è incoerente, non si perviene a nulla”. Allora intendiamoci sui termini. Il Comunismo, slegato dalle esperienze del secolo scorso, non è che il risultato di quel motto dell’anima guidato da Eros, un gesto d’amore che l’uomo compie verso se stesso: quel desiderio di essere libero tra liberi, uguale tra uguali per condividere la bellezza irripetibile di un mondo che pare creato per stupirci ed ammaliarci. Il Comunismo è quel motto dello spirito che portava Gaber a descriverlo come uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare vita perché chi vive con questo slancio è come più di se stesso: era come due persone in una – Da una parte la personale fatica quotidiana – E dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo – Per cambiare veramente la vita. In altre parole, si tratta di quel pathos che è la conseguenza della convinzione, fatta propria da Rousseau, che l’uomo nasca allo stato di natura in una condizione di uguaglianza e libertà; il tentativo etico e morale di preservare quello stato di natura dal principio entropico che tende, nell’evoluzione complessa della società capitalista, ad annientare sia il singolo sia la collettività. Questo non significa, abbandonare l’analisi scientifica compiuta da Marx e dai chi lo seguì, ma al contrario arricchirla del volto umano che più le si addice, di quel pathos che ogni essere umano riconosce come proprio di fronte alla contemplazione collettiva della bellezza del mondo. Quella Bellezza che si trova dentro di noi, che allo stesso tempo ci circonda e che ha spinto artisti più o meno conosciuti, uomini e donne comuni, a tesserne e cantarne le lodi. Ebbene, quello stesso amore per l’umanità e per la bellezza dovrebbe fornire ispirazione all’arte politica per portare avanti il più grande progetto sociale dell’umanità. Questo è il Comunismo. Cosa potrebbe esserci di più attuale, appassionante e doveroso non è dato sapere. Qualcuno ci vuole convincere che il mondo sia, e debba continuare ad essere, dominato dalla legge del più forte, costituito da pochi vincitori e molti perdenti, dall’odio e dalla paura. Ebbene, io non ci credo, “Si potrebbe dire che io sia un sognatore ma non sono l’unico, spero che un giorno vi unirete a noi ed il mondo sarà come un’unica entità(Immagine- John Lennon). Il modello capitalistico non è che una contingenza, un incidente di percorso dell’umanità, e come tale lo valuto e lo combatto. Per poterlo fare occorre esser dotati di una buona dose di amore e della capacità di analisi per capire che dobbiamo arricchire il nostro bagaglio politico, ideologico e culturale degli approfondimenti forniti dalla Teoria dei giochi, del principio entropico e dalla Teoria dell’informazione, elaborate successivamente al sorgere delle prime esperienze comuniste del ‘900 ed oggi necessarie al fine di evitare analisi semplicistiche di una realtà molto più complessa.

Così, dovendo immaginare di trasformare la spinta emotiva in un’analisi “sociologica” concreta, pare ovvio che il primo passo sia identificare quale termine possa maggiormente descrivere la realtà di una classe che, oltre ad aver perso i vecchi punti di riferimento, ha perso la consapevolezza di esistere e di appartenervi. Il termine proletariato ha svolto il duplice ruolo di descrivere da un lato una delle classi sociali antagoniste alla classe borghese, dall’altro il prodotto di un modello di produzione e distribuzione tipicamente capitalista e quindi a quel modello strettamente connesso. Tuttavia, mentre il modello di produzione e di divisione del lavoro capitalista si è evoluto di pari passo con le innovazioni della scienza e della tecnologia, altrettanto non è avvenuto con l’elaborazione di modelli alternativi ad esso, ed anzi, si è proceduto sempre più subendo la dis-omogeneizzazione del proletariato in rurale e urbano, e la nascita, attraverso l’esplosione del settore terziario, di classi intermedie composte da soggetti con scarsa identificazione politico-sociale. In poche parole, l’evoluzione del modello capitalista ha assecondato il moto “divide et impera” sgretolando il tessuto sociale proletario e per, quanto riguarda la Sardegna, portando avanti un processo di colonizzazione ed omogeneizzazione culturale finalizzato al controllo delle risorse. Tali esiti non erano facilmente prevedibili e rispondono al principio entropico da intendersi quale causa di una crescente complessità dei modelli sociali. Quest’ultimi tuttavia, ponendosi come ostacolo al raggiungimento degli obiettivi del Mercato, diventano oggetto di attenzione da parte delle forze politiche liberiste con il fine di dominarli ed omogenizzarli. Tali obiettivi sono stati, più o meno consapevolmente perseguiti attraverso l’educazione e la formazione giovanile, o meglio, attraverso graduali ma costanti interventi a favore degli istituti di istruzione privati e a scapito dell’istruzione pubblica, nonché attraverso programmi scolastici miranti alla sottomissione culturale. Particolarmente interessante, inoltre, è l’esito di un questionario sottoposto a studenti delle scuole negli anni tra il 2005 e il 2007 dal quale emerge come l’autopercezione, sia degli studenti extracomunitari sia degli studenti italiani, sia fortemente falsata ed orientata all’appartenenza alla classe medio borghese. In poche parole, fin dalle prime esperienze scolastiche si sviluppa il fenomeno dell’illusione del benessere come carattere intrinseco della società e come possibilità di conquista che fu approfondito già nella prima metà degli anni ’60 da Marcuse nel suo testo L’Uomo ad una dimensione. Quest’ultimo, nel medesimo testo, descrive come i processi di automazione, di gerarchizzazione delle aziende e delle fabbriche, abbiano da un lato causato l’aumento dei lavoratori non direttamente produttivi e dall’altro abbiano privato i “padroni” e “capitalisti” della loro identità come agenti responsabili, e quindi imputabili, e attribuito a quest’ultimi il ruolo di burocrati o tecnici asserviti alle regole del Mercato che si presuppongono valide ed immutabili. In questo modo sono state sottratte al Comunismo le basi su cui si era sempre fondato: la lotta di classe tra proletariato e proprietari capitalisti. “Entro la vasta gerarchia dei comitati di direzione che si estende ben al di là della singola impresa, sino al laboratorio scientifico e all’istituto di ricerca, al governo centrale e allo scopo nazionale, la fonte tangibile dello sfruttamento scompare dietro la facciata della razionalità obbiettiva” (Marcuse, op. cit., pag.45) ovvero il Mercato.

Tuttavia, pur riconoscendo la validità dell’analisi di Marcuse, quest’ultima non appare da sola sufficiente a giustificare gli sconvolgimenti politici ed elettorali che hanno interessato la nostra regione negli ultimi anni. Mi riferisco all’enorme differenza che si riscontra tra l’elettorato delle principali città e la campagna. Si badi bene che tale fenomeno non è peculiare della Sardegna ma interesse vaste regioni europee ed italiane. Sull’argomento risulta di particolare interesse quanto scritto da David Godhart nel suo libro dal titolo The Road to somewhere, in cui delinea un diverso punto di vista nell’analisi elettorale che prescinde dalle categorie “Destra” e “Sinistra”: esso si fonda invece sulla distinzione tra gli “Anywhere”, ovvero la classe di persone orientate a sinistra, di élites, cosmopolite e senza radici, residenti nelle grandi città, e gli “Somewhere” ovvero la classe di persone con precisi legami territoriali, culturali, ancorate ad un patrimonio di tradizioni e residenti nelle campagne. Punto di incontro dei “due mondi”, un non luogo, è la periferia dove si incontrano l’internazionalismo ed europeismo tipici delle metropoli, con lo scettismo caratteristico delle campagne.

Ritengo che tale approccio sia di estrema utilità per capire gli esiti delle ultime consultazioni elettorali europee che hanno visto primeggiare il PD nelle grandi città e, al contrario, la Lega nei piccoli centri e nelle campagne. E’evidente che nella ridefinizione di un programma comunista per la società del futuro non possa trascurarsi, come fosse ininfluente, un fattore, quello geografico: esso diventa sempre più determinante nello scenario politico sardo, sia per l’impatto sui movimenti indipendentisti sia per l’impatto sui partiti politici della sinistra radicale. In questo quadro appare ovvio che il punto di partenza non possano che essere le periferie, i non luoghi dove si arriva alla sintesi tra sinistra ed indipendentismo.

Dopo aver, seppur a grandi linee, citato tre aspetti importanti come assenza di coscienza di classe (sgretolamento del proletariato, gerarchizzazione dell’impresa capitalista e caratterizzazione geografica), pare opportuno proporre un tentativo di sintesi o quanto meno di identificazione di quel minimo comune denominatore che possa in qualche modo descrivere al meglio, nell’ottica unificatrice, una nuova classe antagonista a quella dell’oligarchia finanziaria.

A riguardo la miglior strada possibile non può che essere quella indicata da David Harvey nei suoi studi sui “Commons”. Quest’ultimo avvia la sua analisi partendo dalle lotte degli operai di Cowley, parlando di “particolarismo militante” che si muove a sua volta all’interno dell’universalismo di classe. Ma tale particolarismo altro non è se non il supporto da parte della comunità locale nella rivendicazione di diritti universali dei lavoratori e delle lavoratrici, quindi con una specifica localizzazione, tuttavia non per questo dissimili in senso strategico unitario dalle rivendicazioni di qualsiasi altra comunità locale. Quindi alla domanda se vi possa essere un’unità di classe, non può che rispondersi affermativamente, pur riconoscendo le composite differenze e specificità basate sulle scale geografiche e localizzazioni differenti, accomunate da una opposizione e un rifiuto senza compromessi del sistema capitalistico. Dovendo tradurre il termine più utilizzato da Harvey dovremmo parlare di “spossessati”, ed effettivamente in tale categoria è possibile ricomprendere tutte quelle persone private dei propri diritti, poste ai margini delle decisioni politiche, senza alcun diritto all’autodeterminazione politica, economica, sociale e personale. Questa è la nuova classe, figlia del proletariato ed antagonista dell’oligarchia politico-finanziaria di matrice capitalista.

Su questo tema i maggiori partiti comunisti dovrebbero incontrarsi e avviare un percorso comune a pena di incamminarsi verso l’estinzione.

Non mi rimane che spiegare il titolo di questo scritto, “Ma il mare è sempre più blu”, banale correzione del più noto testo “Ma il cielo è sempre più blu”. La scelta del titolo non vuol altro se non provocare il lettore su quanto già ammoniva Marcuse relativamente al pensiero unico: egli denunciava, con anni di anticipo, quel fenomeno che vede la cultura dominante appropriarsi della comunicazione antagonista facendone un oggetto di mercato, pop, snaturandolo del significato originario e quindi privandolo di qualsiasi rapporto dialettico. Ecco, a tal proposito, pur non essendo un esegeta di Rino Gaetano, mi sono posto la domanda sul perché un testo di denuncia sociale dell’indifferenza possa esser diventato un testo delle più ludiche feste in discoteca, privandolo quindi della sua carica di protesta. Tale riflessione, mi ha spinto oltre facendomi notare il come ogni problema della Sardegna, la terra del popolo Sardo, dei nostri nonni e avi, si possa risolvere, a mente dei politici delle classi dominanti sarde, con “Ma il mare è sempre più blu”: nella loro ottica il turismo e lo sfruttamento del nostro territorio sarebbero in grado di risolvere i problemi atavici di un colonialismo politico e culturale che altro non ha fatto se non alimentare povertà e disagio sociale. Così di fronte all’inattività femminile che nella nostra terra arriva a picchi del 60%, possiamo gridare al cielo “Ma il mare è sempre più blu”; di fronte ai dati allarmanti sull’abbandono scolastico che sfiora il 30%, possiamo urlare giulivi “Ma il mare è sempre più blu”; di fronte alla povertà minorile e alla deprivazione materiale possiamo cantare felici “Ma il mare è sempre più blu”; di fronte alla repressione politica contro chi immagina una Sardegna libera e sovrana, si può innalzare la mano al cielo e con l’altra bere, gridando “Ma il mare è sempre più blu”; di fronte alla situazione critica dei pastori sardi possiamo consolarci d’altronde con le parole “Ma il mare è sempre più blu”.

Ecco, odio gli indifferenti e per questo in Sardegna i partiti comunisti di qualsiasi origine dovrebbero al più presto incontrarsi e avviare un percorso di coordinamento delle lotte prima che sia troppo tardi, e lo è già.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI