Parole per la sinistra

1 Novembre 2007

PAROLE SHOP
Franco Tronci

Sempre più di frequente, all’interno del dibattito politico che cerca di reagire alla crisi della sinistra, vale a dire alla sua emarginazione e frantumazione, emerge la necessità di una lingua comune che sia, nello stesso tempo, strumento di analisi e conoscenza, agguerrita punta di lancia della dialettica, valido supporto alla progettazione di una realtà diversa.
Nel nostro quotidiano si possono citare, in tempi recenti, gli interventi di Rossana Rossanda, di Giorgio Cremaschi e di diversi altri.
Non è la prima volta nella storia che questa esigenza si pone: nei secoli XIII e XIV, in seno alla Scolastica, filosofia allora dominante nell’Europa cattolica, si manifestò una vera e propria disputa tra i sostenitori del Realismo (materialisti in senso molto lato) e quelli del Nominalismo che individuavano nel nome lo strumento adatto ad indicare i caratteri universali della realtà indispensabili agli uomini per comunicare e per comprendere.
Nel Settecento i propugnatori in Italia della cultura illuministica (i fratelli Verri, Cesare Beccarla, ecc.) dichiararono, nel momento in cui davano vita alla rivista “Il caffè”, di “rinunciare davanti al notaio” all’uso del Vocabolario della Crusca, assunto a simbolo della vecchia cultura.
Nell’Ottocento un certo Karl Marx, nel rimettere, come si disse, coi piedi per terra i presupposti della dialettica di Hegel, intraprende anche, a scopo epistemologico e politico-pedagogico, un intenso lavoro di connotazione linguistica ri-semantizzando il lessico (capitale, lavoro, valore, merce, denaro, ecc.) quale si configura nei fondamentali processi sociali (produzione, circolazione, consumo).
Tutta la prima fase di aggregazione dei lavoratori sul finire del secolo XIX (associazioni di mutuo soccorso, sindacati, partiti) è contrassegnata da un’intensa attività educativa che comincia dall’acquisto delle capacità di leggere e di scrivere per proseguire nella diffusione di un lessico dei diritti capace di produrre aggregazione, mobilitazione, lotta.
Nel tempo della comunicazione telematica non vien meno l’urgenza di un lessico e di una sintassi utili a spiegare la realtà e a tentare di modificarla. Anche perché, nel frattempo, l’avversario di classe sembra essersi dotato di una Koiné funzionale al dominio del mondo.

1. Le parole desaparecidas.

La fine della guerra fredda, la caduta del muro di Berlino, l’implosione dell’Unione Sovietica e il trionfo del liberismo senza confini (globalizzazione e mercato come nuovo codice etico) sono linguisticamente testimoniati dalla scomparsa delle parole che erano servite a dar vita, con risultati non sempre disprezzabili, al tentativo, verificatosi, con forme diverse, in diversi paesi, di costruire un mondo non governato dalle leggi del profitto. Sulle cause profonde di tali fallimenti non è ancora cominciata una seria discussione.
Chi ancora si dichiara di sinistra sembra provare un certo ritegno nell’uso delle parole (e la parola comunismo sembra la più sacrificata) che richiamino la lotta di classe, l’idea del conflitto, della resistenza, della solidarietà; ma anche della dialettica culturale (una volta si sarebbe detto lotta per l’egemonia), della rivendicazione dei diritti; dell’organizzazione e della pratica dell’obiettivo. La parola utopia sembra diventata una bestemmia.
Una sinistra rinnovata non può rinascere senza una lingua per la quale il lavoro è l’unica ricchezza del lavoratore, la fabbrica è luogo di pena (ma anche di crescita), il padrone è padrone e non benefattore dell’umanità.

2. Contro il lessico del trasformismo.

I vincitori adottano sempre la lingua più funzionale all’esercizio dell’egemonia. Alla sua costruzione danno l’apporto forse più considerevole (è un antico vizio della storia italiana) gli intellettuali trasformisti, coloro, cioè che si trasferiscono nel campo degli avversari di una volta per accoglierne l’ideologia e condividerne i privilegi, I neofiti sono sempre molto loquaci.
Non a caso, è nel terreno delle forze convertitesi al culto del mercato globale (partiti un tempo di sinistra, grossi spezzoni del sindacato, intellettuali collocati nei posti che contano nell’ambito delle comunicazioni di massa, ecc.) che è nata la lingua nuova (sono pronti a giurare che non è di destra, né di sinistra) funzionale alla rappresentazione della realtà più gradita alle classi dominanti.
Il termine riformismo mi pare il più utilizzato godendo di una pregressa rendita di posizione (riformismo vs rivoluzione) e mascherando più agevolmente una pervicace volontà di cancellare tutte le conquiste del secolo passato, in particolare sul terreno dello stato sociale (pensioni, sanità, diritto allo studio,ecc.).
E’ dagli anni Novanta che un lessico nuovo si è fatto strada anche laddove non te l’aspetteresti: i lavoratori sono diventati risorse umane; i licenziamenti si chiamano esuberi; l’assoggettamento totale del lavoro è diventato flessibilità.
Le serie linguistiche attinenti alla divisione in classi della società vengono sostituite dai nomi desunti dalla vecchia dottrina sociale cattolica o dalla terminologia in uso fra i sostenitori del cosiddetto “capitalismo compassionevole” in voga oltreoceano.
E’ tutto un parlare di ceti meno abbienti, di nuova povertà, di sussidi alle famiglie povere (il neologismo in voga è ora “incapienti”), di vaghi patti fra le generazioni.
Sullo sfondo l’esaltazione del maggioritarismo, il culto del leader e il presidenzialismo mentre un sociologismo d’accatto alimenta la paura del diverso (immigrato, rom, tossicodipendente).

3. Solo apparentemente parliamo la stessa lingua.

La corsa verso il centro dello schieramento politico, la configurazione di maggioranze improbabili, l’asservimento dei media e dell’informazione, il disastro provocato nella scuola e nell’università costringono la sinistra, che spesso si muove maldestramente, in una condizione di difficoltà da cui è possibile uscire in due modi: accelerando i processi di unificazione e organizzandosi per un lungo periodo di opposizione e di lotte sociali.
Il rischio di emarginazione in cui la sinistra vive si percepisce anche analizzando linguisticamente i caratteri delle battaglie culturali che essa conduce; basta seguire i defatiganti dibattiti e le polemiche che vengono proposte dalla stampa o dalla televisione. Gli esponenti della sinistra, di fronte ad un uso omogeneo della lingua da parte degli avversari (o degli alleati), provano quasi un senso di inferiorità ad utilizzare con convinzione il lessico del lavoro, del profitto, dello sfruttamento, dei diritti inalienabili, della democrazia, della difesa della Costituzione.
Quando non si lasciano trascinare nella pratica dei sottili distinguo e nella cura del piccolo orticello di casa.

4. Riprendiamoci la lingua.

Può sembrare riduttivo, in un momento assai difficile per il futuro della sinistra italiana, fare ricorso al puro buon senso come risolutivo di una questione in sé complessa e difficile: come rilanciare una battaglia culturale per la difesa del lavoro e dei diritti di cittadinanza (volendo, potremmo, a questo punto, aprire una parentesi sul campo semantico occupato dal “cittadino consumatore”).
La “questione della lingua”, quando si pone, come ricordava Gramsci, contiene in sé un nucleo di problemi vasto, articolato e complesso.
Coloro che ci hanno preceduti ci hanno lasciato, assieme ai dolori, agli errori e ai sacrifici, un’eredità culturale e, perciò, un lessico, una lingua che potrebbe ancora tornare utile.
Fra le numerose parole di tale eredità mi sento, in conclusione di privilegiarne una: utopia.

1 Commento a “Parole per la sinistra”

  1. Marco Lucidi scrive:

    Caro Tronci, guardi che la lingua comune c’è già. Ed è sarda: Lingua Sarda Comune, LSC. S’informi.

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