Portogallo: un Paese in demolizione

16 Aprile 2013
Maurizio Matteuzzi
Una “mano tesa” o invece più corda per impiccarsi offerta a un paese che il vecchio socialista Mario Soares definisce “in demolizione” e a serio rischio di “rottura sociale”? La “concessione” fatta dalla troika (UE-BCE-FMI), con il nuovo crack a Cipro sullo sfondo, prevede un anno in più per risanare i conti. Nei termini originali fissati nel memorandum d’intesa del maggio 2011 – il piano di soccorso da 78 miliardi di euro, di cui 12 per salvare le banche, da restituire entro i successivi tre anni -, il governo del conservatore Pedro Passos Coelho (“socialdemocratico” di nome ma in Portogallo il PSD è il centro-destra liberal-liberista) avrebbe dovuto ridurre il deficit di bilancio al di sotto del fatidico 3% del prodotto interno lordo entro il 2014. Ora ci sarà tempo fino al 2015.
Un riconoscimento della troika per gli sforzi compiuti dallo zelantissimo governo di Passos Coelho e dal suo staff economico di “tecnici” duri e puri (il ministro delle finanze Vitor Gaspar e quello dell’economia Alvaro Santos Pereira), un premio per la stabilità finanziaria e le riforme strutturali. Ma anche il sintomo della preoccupazione per le “deboli prospettive di crescita” (il -3.2% del 2012, il previsto -2.3% del ’13, un incertissimo +0.6% del ’14) che consigliano “un aggiustamento” del percorso del risanamento fiscale. Intanto la disoccupazione, conferma la troika, continuerà a galoppare, superando la soglia del 18% e infierendo fra i giovani (il 38.7%, terzultimo posto in Europa, dopo Grecia e Spagna e subito prima dell’Italia).
Però la troika è soddisfatta del governo lusitano, un vero specialista in macelleria sociale, e delle sue riforme (anche se l’altro caposaldo di Maastricht-Merkel: il rapporto debito pubblico-pil al 60% massimo, va sempre peggio, ormai superiore al 120%, peggio in Europa solo Grecia e Italia): “la strada è giusta” e il presidente della Commissione europea, il portoghese José Manoel Durao Barroso, antico maoista passato armi e bagagli a destra, dice che “per il Portogallo c’è speranza”.
Speranza? Dalla rivoluzione democratica del 25 aprile 1974, il Portogallo ha fatto molti progressi ma è rimasto il più povero paese dell’occidente europeo. Ora con la crisi e le micidiali ricette imposte dalla troika si ritrova nel peggior momento degli ultimi 30 anni e rischia anche – come capita altrove, ad esempio nell’Italia dei professori e dei tecnici – di subire quella sorta di vendetta politico-ideologica che vuole cogliere la palla al balzo per andare alla resa dei conti finale infrangendo qualsiasi tabù.
Prima il socialista Socrates (già autore dopo la vittoria elettorale del 2005 di una riforma del mercato del lavoro che era piaciuta fin troppo al padronato) con il lancio nel marzo 2010 del PEC, il sanguinoso programma per “la stabilità e… la crescita”, poi dopo la sua caduta e la prevedibile vittoria della destra di Passos Coelho nelle elezioni del giugno 2011 (astensionismo record al 41%), il tragico “piano di salvataggio” da 78 miliardi: decurtazione della spesa pubblica, tagli ai salari (il minimo, 485 euro, già fra i più bassi dell’euro-zona) e alle pensioni (in genere non superiori ai 200-300 euro), prestazioni sociali e welfare decapitati, licenziamenti più facili e a buon mercato, abolizione dell’equo canone, più tasse, più imposte, più iva…
Ma a Passos Coelho sembrava non bastare mai e sul finire del 2011, sull’onda di uno dei sempre più frequenti scioperi generali in cui si gridava “que se lixe a troiika” (più o meno: che si fotta la troika), annunciava di voler andare oltre i limiti fissati dalle leggi e dalla stessa costituzione del ’76: via il tetto delle 40 ore settimanali, via il divieto di licenziamento per giusta causa, via perfino la festa del primo maggio… La vendetta. E il Portogallo pur così elogiato da Ue e banchieri, sprofonda. Le compagnie pubbliche o private – energia, elettricità, telecomunicazioni, banche, linee aeree… – vendute o svendute ai cinesi e, in una sorte di nemesi storica, agli angolani e ai brasiliani; cervelli freschi di laurea e braccia in fuga verso le ex colonie di Angola e Brasile, divenuti ora “paesi emergenti”.
Il Portogallo è il paese in cui nel marzo 2011 per la prima volta in Europa e nel mondo, sulla piazza del Rossìo a Lisbona, fecero la loro apparizione gli “indignati”, che qui si chiamano la “Geraçao a rasca”, la generazione precaria da buttare. Che fare? I socialisti sono considerati “complici” per cui, anche se adesso sono all’opposizione, i sondaggi li danno al 20-25%. L’estrema sinistra , storicamente forte e ben ancorata in Portogallo (sia con il vecchio PCP sia con il nuovo Bloco de Esquerda) si affanna a chiedere la fine dell’austerità e una politica di crescita: “Non è il momento delle politiche recessive e delle privatizzazioni. Le 15 misure che proponiamo per rendere «decente» l’economia sono risposte immediate, concrete e alternative a quelle inique del governo”, dice Francisco Louça, leader del BdE.
Il sociologo Boaventura de Sousa Santos, professore all’università di Coimbra e uno dei guru dei Forum sociali mondiali, si spinge oltre e propone uno “scenario B” ancor più controverso: “un’uscita da questo euro, da soli o insieme ad altri paesi, sulla base del fatto, comprovato dalla realtà, che, con l’euro, le diseguaglianze fra i paesi europei non cesseranno di aumentare”.

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