Quando il pubblico diventa privato

16 Febbraio 2010

ligas

Marco Ligas

Le trattative per la sopravvivenza dell’Alcoa non fanno passi in avanti. Questa lentezza non ha niente di rassicurante, soprattutto dopo mesi di lotta dei lavoratori. I continui rinvii o aggiornamenti delle riunioni tra le parti interessate, le assenze sistematiche, forse programmate, di qualche interlocutore (a volte l’Enel o l’amministratore delegato dell’azienda o il nostro governo) alimentano pessimismo e preoccupazioni. E seppure si raggiungerà un accordo, sarà comunque decisivo il parere dell’Unione Europea sulla condizione posta dall’Alcoa relativa ai costi dell’energia. Insomma questa vicenda assomiglia sempre più al gioco degli incastri dove tutti i partecipanti potranno indifferentemente o assegnarsi il merito di un eventuale successo o defilarsi, nel caso la trattativa fallisca, attribuendo ad altri la responsabilità dell’esito negativo della vertenza. In questa situazione è comprensibile come cresca la preoccupazione per il futuro della fabbrica: più passa il tempo e più appare verosimile che la lotta dei lavoratori venga usata solo per ritardarne la chiusura.

Intanto, con estrema disinvoltura, alcuni rappresentanti della giunta regionale partecipano agli scioperi generali indetti dalle organizzazioni sindacali, cercano di apparire fra i promotori degli stessi nel tentativo di accreditarsi un ruolo di sostenitori degli interessi dei lavoratori; altri assessori attribuiscono al governo i ritardi con cui procede la vertenza! Tutti, dirigenti locali o nazionali, danno l’impressione di appartenere non allo stesso partito che governa ma a formazioni impegnate duramente su fronti contrapposti. Non dissimile è l’atteggiamento dei rappresentanti del governo nei confronti di altre istituzioni internazionali. Per loro, ormai dimentichi degli impegni assunti durante la campagna elettorale, i maggiori responsabili della crisi sono gli imprenditori che vogliono investire altrove, dove la mano d’opera è più conveniente. Non importa che le aziende di cui parlano siano le stesse che in passato sono state abbondantemente sovvenzionate dal denaro pubblico, in assenza di un qualsiasi progetto industriale o di un controllo sugli investimenti. Tutti, imprese e governi, sembrano vittime innocenti di un sistema economico fondato sul libero mercato, imposto non si capisce bene da chi.

In questo gioco allo scarica barile il nostro governo individua a volte un bersaglio nell’Unione Europea, ritenuta colpevole di ostracismo proprio nei confronti del nostro paese. In realtà l’esistenza di tante istituzioni che operano a vari livelli agevola questa specie di osmosi, questo passaggio di responsabilità. Ma intanto sono sempre i lavoratori che subiscono le conseguenze devastanti della globalizzazione.  Va comunque ricordato che oggi gli Stati nazionali non possono più controllare, se non in minima parte, le attività economiche che vengono svolte nel proprio territorio. Traggono vantaggi da questa realtà le multinazionali, il mercato valutario e i sistemi di comunicazione. Vengono meno così le politiche redistributive, il ruolo di ciascuno Stato sia nella realizzazione delle politiche sociali sia nell’organizzazione dei sistemi educativi e sanitari  nazionali. Naturalmente anche le Regioni, ancor più degli Stati, subiscono i conseguenze di questo processo.

Tutto ciò dovrebbe far riflettere chi governa, qualunque sia il suo livello di competenza. Durante la recente manifestazione dei cinquantamila qualcuno si chiedeva che cosa possa fare la Regione se l’azienda Alcoa decide di delocalizzare la produzione. Ci sembra naturale rispondere che gli aiuti che le istituzioni pubbliche erogano a favore delle imprese debbano rispondere ad alcuni requisiti fondamentali: il mantenimento dell’occupazione, la tutela dell’ambiente e del paesaggio, la valorizzazione delle risorse presenti nel territorio. Ma tutto ciò impone un programma e un piano di sviluppo che nelle politiche della nostra classe dirigente sono regolarmene assenti. Riscontriamo invece la solita politica a sostegno delle attività edilizie e l’aggressione del territorio.

La vicenda Alcoa può suggerire qualche riflessione sul come si è arrivati in passato alla liquidazione dell’impresa pubblica. In realtà il processo di privatizzazione, avvenuto con la svendita dei beni dello Stato, non ha certo migliorato la capacità imprenditoriale del capitalismo italiano. Sono cresciute le tendenze speculative, si è rafforzato il mercato valutario ma il sistema delle imprese ha continuato a battere cassa e a ricevere contributi pubblici senza offrire alternative. Dove sta l’utilità sociale di un’impresa sovvenzionata (se è sovvenzionata dovrebbe pur produrre qualche utilità sociale) se la produzione di ricchezza avviene soltanto attraverso il sostegno pubblico, creando al tempo stesso disoccupazione e costringendo i governi ad un intervento supplementare attraverso la pratica degli ammortizzatori sociali? Per queste ragioni si dovrebbe dedurre che quando ci sono bisogni sociali irrinunciabili, come l’occupazione o lo sviluppo delle aree depresse, è necessaria la presenza diretta dello Stato nell’economia, in cambio naturalmente di garanzie precise.

Ma la vicenda dell’Alcoa pone anche un altro interrogativo: quando un’azienda appartiene ad imprenditori di altri paesi è possibile avere le stesse garanzie che si dovrebbero chiedere alle imprese nazionali? Un’istituzione pubblica dotata di un programma e di un piano di sviluppo, pur senza praticare una politica autarchica, dovrebbe essere in grado di valutare problemi di questa natura e capire se gli interventi prefigurati rispondono all’esigenza di crescita delle aree depresse. C’è un passo nel documento con cui le organizzazioni sindacali hanno promosso lo sciopero del 5 febbraio che alimenta più di una perplessità, laddove si sostiene che bisogna favorire l’internazionalizzazione della nostra economia puntando verso politiche di attrazione di capitali stranieri che realizzino nuovi investimenti in settori innovativi industriali. Davvero, dopo la crisi che ha investito il già debole sistema industriale dell’isola, è prudente puntare ancora su politiche che attraggano capitali stranieri? Non è forse vero che la Sardegna più che attrarre il capitale straniero ha attratto le imprese straniere che poi hanno usufruito dei capitali locali, forniti sempre con generosità dalle nostre istituzioni? Allora, forse è opportuno tentare una riflessione che punti davvero all’elaborazione di una politica industriale che sconfigga una volta per tutte la pratica dell’assistenza che sinora ha avvantaggio quella imprenditorialità cialtrona  che prende e scappa. Se Alcoa, ma meglio sarebbe un’impresa che offra garanzie di stabilità nell’isola, vuole pagare meno l’energia elettrica non sarebbe opportuno elaborare un piano per la produzione di energia elettrica usando le fonti alternative? Ecco, questo è un compito che la sinistra, sindacale e politica, stenta a realizzare.

7 Commenti a “Quando il pubblico diventa privato”

  1. Angelo Liberati scrive:

    (…) non sarebbe opportuno elaborare un piano per la produzione di energia elettrica usando le fonti alternative? (…)

    Sarebbe proprio opportuno caro Marco, ma poi verrebbe meno quel “Sistema gelatinoso” che interessa molti

  2. Desi Satta scrive:

    Premesso il grande rispetto per i lavoratori dell’Alcoa, temo che il tema generale dell’articolo abbia poco a che fare con il caso specifico. Si tratta di capire se si vuole avere un sistema basato sul mercato o meno e, nel primo caso, la localizzazione della produzione di alluminio primario in Sardegna (al giorno d’oggi) è una follia. Nel secondo, l’unica possibilità di sopravvivenza del comparto è che i cittadini paghino la perdita generata dall’elevato costo energetico. Ma, a questo punto, sarebbe assai più ragionevole dare ai lavoratori uno stipendio tenendoli a casa, perché costerebbe di meno (non è una provocazione: lo dicono i numeri, se si tiene conto dei costi dell’inquinamento di cui tutti sembrano dimenticarsi).
    Purtroppo, il caso Alcoa (ed altri) sconta la mancanza di una politica industriale da parte della R.A.S., che non è cosa di destra o sinistra ma cosa Sarda e basta. La produzione di alluminio primario, che poteva avere un senso quando venne impiantata l’ALSAR, non lo ha più oggi, come accade per tutte le lavorazioni industriali. La programmazione industriale consiste appunto nella previsione della obsolescenza e nella messa a punto degli opportuni correttivi. Detto in poche parole, bisognava prevedere che produrre Alluminio non sarebbe più stato conveniente e trovare vie alternative in vista della inevitabile dismissione del comparto. Adesso bisognerà farlo comunque e in regime di emergenza.

  3. Marco Ligas scrive:

    I temi affrontati da Desi Satta mi suggeriscono alcune precisazioni; le espongo in modo sintetico. 1) Ritengo che il problema principale, in Sardegna come altrove, sia la difesa del lavoro. Questo è un bisogno sociale irrinunciabile, riguarda i lavoratori dell’Alcoa, tutti quelli che si trovano in condizioni analoghe, i tantissimi giovani che non trovano un’occupazione. I fatti dimostrano come il libero mercato non garantisca questa prospettiva, non esiste una sola azienda capace di fare da sé. 2) La localizzazione della produzione dell’alluminio in Sardegna è una follia? I costi di produzione sono minori altrove? Ecco, perché il potere politico ha sovvenzionato l’industria privata senza imporre il rispetto di uno sviluppo legato all’occupazione, alla tutela dell’ambiente e alla crescita delle aree arretrate? Questi interrogativi valgono per l’Alcoa e per tutte quelle imprese che hanno sottratto denari pubblici. È vero, intanto migliaia di famiglie rischiano l’impoverimento, sono indispensabili gli ammortizzatori sociali, ma meglio sarebbe programmare e realizzare investimenti che siano in grado di rispondere alle caratteristiche accennate, anche col sostegno pubblico. Questi processi richiedono del tempo, ma se non si iniziano non potranno mai realizzarsi. 3) ripeto quel che ho detto nell’articolo: perché non proviamo ad elaborare un piano per la produzione di energia elettrica usando le fonti alternative? E perché la sinistra non si attrezza per questa scelta?

  4. Desi Satta scrive:

    Posso permettermi di replicare? Perché realizzare una centrale elettrica basata sulle energie alternative per alimentare l’Alcoa sarebbe un investimento inutile, visto che in futuro l’alluminio si farà in luoghi dove il rapporto investimento/beneficio sarà più conveniente (ad esempio in Islanda) di qualunque fonte di energia alternativa attuabile sull’Isola. Si può criticare il sistema basato sul mercato (certo che si può) ma non si può neppure pretendere di produrre in perdita. Se qualcosa dev’essere fatto, allora si deve basare su una politica industriale seria. Vogliamo le energie alternative? Ben vengano, ma per che cosa? Per chi produciamo? Per il turismo? La produzione energetica deve scaturire dalle necessità imposte da una politica industriale credibile e non viceversa. Certo che bisogna fare in fretta; ma possibilmente anche bene, posto che la politica (e ci metto dentro anche il sindacato) abbia davvero delle proposte utili e non si limiti alle solite battaglie di retroguardia che si limitano ad una generica ‘protezione dei posti di lavoro’ (e lo dico, si badi bene, con un rispetto enorme per i lavoratori di Portovesme, ci mancherebbe altro). La domanda è un’altra: ma siamo davvero capaci (intendo noi Sardi) di esprimere una politica in grado di elaborare una politica industriale efficace, oppure (tutti a destra come a sinistra) stiamo solo inseguendo il contingente????

  5. Marco Ligas scrive:

    Ringrazio Desi Satta per le osservazioni e… mi permetto anch’io una replica. La produzione di energia elettrica basata su fonti alternative non deve essere funzionale soltanto alla produzione dell’alluminio, ma deve diventare una scelta capace di rispondere ai molteplici bisogni della popolazione, dunque non solo a quelli dell’industria. Alcune imprese producono in perdita? È probabile, ma è anche vero che le stesse imprese considerano il salario una variabile dipendente, orientata sempre verso il basso, e il profitto una categoria che deve soltanto crescere. Come spiegare diversamente l’innalzamento esponenziale degli stipendi dei manager? Perché queste stesse imprese anziché usare l’occupazione come un arma di ricatto per mantenere a livelli minimi il costo del lavoro non investono nella ricerca e non avviano quei processi destinati a migliorare i cicli produttivi? Infine, se pure è vero che non esiste alcuna impresa disponibile a perdere quote di profitto per evitare l’impoverimento dei propri lavoratori è altrettanto vero che la presenza diretta dello Stato nell’economia può essere utile: sarà onerosa ma è probabile che lo sia meno dei costi della cassa integrazione, dei sussidi di disoccupazione, e di tutti gli altri costi che occorre sopportare in un quadro di crisi economica e di crescente insicurezza del posto di lavoro. Naturalmente devono essere definiti i vincoli precisi di questa presenza.

  6. Marcello Madau scrive:

    La questione Alcoa suscita passioni e ragionamenti politici, fa emergere le relazioni fra particolare e generale. Se è ovvio pensare che non si debba produrre in perdita, è altrettanto vero che il problema dell’esistenza, ovvero il diritto a vivere e progettare il proprio futuro è quello veramente centrale. Sapevamo/sappiamo che l’alluminio qua è ‘fuori mercato’? Perfetto, ma come escludere che ciò che oggi sembra ‘entro il mercato’ domani non ne sarà espulso e si dimostrerà sbagliato? E questo non è un problema sardo. Le previsioni nelle scelte è ovvio, vanno migliorate. Forse l’economia territoriale è un aspetto importante. Ma non il solo. Per me il diritto all’esistenza è la prima delle variabili indipendenti. L’energia pulita – come dice Marco, non serve tanto e solo per Alcoa, ma a tutti. Quindi: non mi interessa iniziare dal ragionare su un’industria migliore di un’altra sulla base delle compatibilità economiche. Mi interessa iniziare dalla costruzione di una società dove il diritto all’esistenza sia garantito, dove la tutela dell’ambiente come base di un’esistenza biologicamente sana sia a fianco di tale diritto, e poi si potrà discutere delle scelte industriali da organizzare. Non possiamo aspettarcelo dal liberismo. Lo faccia il “pubblico”, con nuove politiche economiche e/ o con il reddito di esistenza. La vicenda Alcoa ci insegna quindi due cose: che manca il rispetto della dignità umana, che questo modello socio-economico, che non la tiene in conto, va superato.

  7. stefano leoni scrive:

    http://www.ilmanifesto.it/archivi/terra-terra/nocache/1/pezzo/4b7d5f09511e7/
    un articolo comparso sul Manifesto del 18 02 2010 a firma di Marina Forti.

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