Sardegna, latte e dintorni

16 Febbraio 2019
[Stefano Deliperi]

In queste settimane la Sardegna è attraversata turbinosamente dalla ricorrente protesta dei pastori. Blocchi stradali, latte versato (talvolta regalato), contestazioni verso le aziende casearie, qualche atto di vandalismo, solidarietà ma anche critiche.

Viene convocato l’ennesimo “tavolo di trattative”, stavolta nazionale, ma le prospettive non sembrano delle migliori, anche se alcuna catene della grande distribuzione hanno fatto proposte allettanti (la Coop ha proposto pubblicamente di pagare 1 euro al litro). Nessuno può dimenticarsi le pecore lanciate contro le vetrate della Regione sarda nei primi anni ’90 del secolo scorso. Da allora, periodicamente, sistematicamente, ogni tre-quattro anni esplode il conflitto nelle campagne sarde. Certo, con il latte venduto sottocosto (60 centesimi al litro) non ci si può campare. E’ vero anche che il mondo agro-pastorale (18 mila aziende, 2,6 milioni di pecore) è parte fondamentale della Sardegna, basti vedere il millenario paesaggio agrario isolano. Ma quali sono le cause di questo profondo malessere persistente, nonostante il tradizionale fortissimo sostegno finanziario pubblico (fondi regionali, nazionali, comunitari) al settore?

Senza voler avere alcuna pretesa di esaustività, in gran parte l’attuale situazione è dovuta alla destinazione quasi totale del latte ovino alla produzione di pecorino romano, facile da produrre e conservare, ma soggetto, ovviamente, al principio economico della domanda e dell’offerta: oggi l’offerta supera abbondantemente la domanda e, in più, il sostegno comunitario è diminuito dopo l’uscita (2007) della Sardegna dalle regioni inserite nell’Obiettivo 1 (quelle in ritardo di sviluppo). Nonostante questo, nel 2018 ben 33 su 35 caseifici hanno superato le quote di produzione prestabilite di pecorino romano. E ora ci sono 60 mila quintali di pecorino invenduti. Crolla il prezzo del pecorino e crolla, di conseguenza, il prezzo del latte ovino. La richiesta-pretesa è sempre la stessa: Stato e Regione devono comprare le eccedenze per far risalire i prezzi. A ciò si aggiunge la mancanza di diversificazione dei prodotti caseari.

Se, poi, il 60% dei caseifici è di imprenditori privati, il 40% è costituito da caseifici sociali, cioè di cui gli stessi pastori riuniti in cooperative sono i titolari. Insomma, fanno anche la guerra a se stessi, in un caos ricorrente che fa solo male al contesto economico-sociale isolano. Gli allevatori sono in buona parte ben consapevoli della situazione, “il sistema agropastorale è obsoleto, ormai fuori dalla storia. Il mercato è pesantemente condizionato, le cooperative funzionano male, il sistema politico è inerte e non reagisce, quello burocratico ci soffoca di carte”, affermava già nel 2010 Felice Floris, leader del Movimento Pastori Sardi (M.P.S.), indicando anche delle possibili soluzioni: “chiediamo l’apertura di almeno cinque centri di refrigerazione gestiti direttamente dai pastori. Ci permetterebbero di conservare il prodotto, reperire possibili acquirenti fuori dall’isola e rompere il monopolio degli industriali”.

La diversificazione dei prodotti caseari e della destinazione del latte ovino sembrano due elementi fondamentali per garantire un futuro al settore agropastorale sardo, ma con criteri organizzativi e gestionali ben diversi. L’esempio della 3 A – Cooperativa Assegnatari Associati di Arborea è emblematico: 226 aziende, 50 mila bovini, oltre 300 prodotti (marchi Arborea, Fattorie Girau, Trentina, Collina Felice), 206 milioni di litri di latte vaccino (il 90% di quello prodotto in Sardegna) e 166 milioni di euro di fatturato (2017). Dal 2018 esporta i suoi prodotti anche in Cina e nel Sud Est dell’Asia. Un esempio da seguire, su connottu da evolvere, se si vuole camminare con le proprie gambe.

3 Commenti a “Sardegna, latte e dintorni”

  1. Gianni Pisanu scrive:

    Finalmente un intervento che affronta l’argomento con un minimo di realismo, senza nascondere la difficoltà di tutti gli operatori. Non dobbiamo limitarci alla poesia. Qualche dato, il latte ovino trasformato dalle cooperative (molte sono gestite bene) è il 50% di quello totale, il pecorino romano prodotto eccede di oltre 100.000 q.li il potenziale export di 250.000 q.li, al nord America. Il romano rappresenta circa l’ 80% del formaggio prodotto. Purtroppo in Italia non lo vuole nessuno, ma si continua a produrne sempre troppo. Non si opera la necessaria diversificazione della produzione, e la valorizzazione di pochi ma buoni ed eccellenti prodotti – es. fiore sardo e non solo- in grado di affermarsi nel mercato nazionale ed estero.
    Siamo alla monocoltura del prodotto, oltre ché alla sovraproduzione. Con l’aggravante che così si genera una monocoltura sostenuta dalla presenza-invasione- sempre più diffusa della pastoralità in ambiti territoriali diversi da quelli storicamente destinati al pascolo. Questo fenomeno potrebbe essere aggravato col “miglioramento” della pecora sarda già avviato con immissione di bestiame non autoctono di taglia superiore mirando all’aumento della produzione. Avremmo un problema irrisolto, e in futuro un ricorso inevitabile e crescente all’assistenza.
    Il problema è stato trattato dei media solo dal lato folcloristico, senza un minimo di conoscenza dell’argomento. La stampa -tutta- dovrà dare spazio alla competenza. Non è il mio caso.
    Penso che l’assistenza dovrà esserci, e dovrà compensare l’opera preziosa di presidio dei territori marginali e di tutela della cultura pastorale, autentico patrimonio della Sardegna, unitamente all’incentivo per un’istruzione e formazione del pastore che superi la fase del puro e semplice allevamento e dovrà fornire abilità e strumenti ulteriori per affrontare il futuro.

  2. Alessandro Littera scrive:

    Il Manifesto si conferma uno dei pochi quotidiani seri in Italia. In questo articolo avete analizzato bene la situazione senza scivolare nel populismo pro-pastore che ormai ha divorato tutta la penisola. Bravi e complimenti per il coraggio.

  3. Riccardo Gessa scrive:

    Ma ci siamo mai chiesti perché in Italia il pecorino romano non lo vuole più nessuno? Uno dei motivi potrebbe essere perché non ha più né il sapore né la consistenza del pecorino romano a cui eravamo abituati. La qualità è scaduta in modo notevole negli ultimi anni per adeguarsi ai gusti di chi lo importa dall’estero.

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