Semus totus pastores

16 Febbraio 2019

Foto Lucia Cossu – Sorgono

[Valeria Casula]

Come tanti, probabilmente anche in virtù delle mie origini pastorali, sono rimasta molto impressionata dalla protesta dei pastori sardi, una modalità che mi ha trasmesso un senso di urgenza senza eguali.

Qualsiasi forma di protesta che non utilizzi violenza è lecita, d’altro canto anche la modalità più tradizionale, lo sciopero, provoca una riduzione di beni (o servizi), quantomeno relativamente alla mancata produzione nei giorni di sciopero, e nessuno lo definisce uno “spreco”. Mi chiedo inoltre se la loro protesta avrebbe la stessa risonanza qualora si limitassero al solito corteo. Il tema vero è che questo settore viene nei fatti (ma spesso anche a parole da taluni, benché non in campagna elettorale), considerato un settore non strategico e assistito, un settore a cui occorre elargire ogni tanto un po’ di soldi (e con molto ritardo) per farlo sopravvivere.

In realtà quasi tutti i settori industriali sono assistiti, ma spesso indirettamente per cui non lo vediamo. Forse fanno eccezione i settori del lusso, del top di gamma, che riescono ad ottenere dei premium price che consentono di camminare sulle proprie gambe, ma siccome la produzione di beni (e servizi) deve essere tale da consentire a chiunque, non solo ai ricchi e ricchissimi, di mangiare, vestirsi, muoversi, svagarsi appare ovvio che tali settori debbano essere supportati.

Alcuni esempi di settori e aziende assistiti:
• Il settore automobilistico, assistito per anni con gli incentivi alla rottamazione (oltre alla cassa integrazione), salvo poi chiudere baracca e burattini e andare altrove;

Il settore edile assistito con le detrazioni IRPEF, sano al 50%, dei costi di ristrutturazione (e relativi arredi), con il segmento della riqualificazione energetica che gode di incentivi maggiori;

La oil company nazionale, quella che vanta ottimi conti economici, ma che ci costa uno sproposito in missioni militari per difendere le licenze petrolifere a Nassiriya in Iraq, gli interessi in Libia … o forse pensate che queste missioni le abbia pagate l’ENI? Vi do una notizia, le abbiamo pagate noi (e questo a prescindere da altre considerazioni sugli interventi militari italiani in paesi terzi);

La Saras che produce energia elettrica sotto incentivi (CIP 6) bruciando gli scarti della raffinazione;

Tutti i settori manifatturieri che usufruiscono di piccole e grandi infrastrutture realizzate con soldi pubblici;

Addirittura finanziamo la sanità privata dell’Emiro del Quatar in Sardegna, il Mater Olbia, a cui andranno ogni anno e per 10 anni 55 milioni di Euro di finanziamenti pubblici sardi.

A questi si aggiungono i settori che di fatto generano dei costi per la collettività, per lo più riconducibili all’inquinamento, in termini di spesa sanitaria, incapacità lavorativa, necessità di assistenza (anche questa considerazione prescinde dal costo umano legato ad una patologia o a una morte prematura). Ebbene, anche questi costi li sosteniamo noi. E quando magari questi costi non li sosteniamo noi perché le produzioni sono delocalizzate, li sostengono altri, messi peggio di noi, dove a questo costo si aggiunge il costo sociale di un lavoro senza diritti.

Allora io non solo trovo giusto che il decisore pubblico incentivi e disincentivi alcuni settori sulla base dell’interesse complessivo della collettività, ma trovo anche che sia doveroso. Ritengo tuttavia che le scelte su cosa incentivare, vale a dire a chi destinare i soldi pubblici, non siano sempre legate all’interesse della collettività. La pastorizia è un caso lampante, la pastorizia non è incentivata, ma solo miseramente sostenuta. Io non so quali incentivi e in che misura siano necessari, su quali forse occorre chiederlo ai pastori stessi, mentre sulla misura occorre valutare davvero quale sia il valore generato sul territorio da questa attività (es. argine allo spopolamento del centro della Sardegna, qualità e “salubrità” dei loro prodotti, mantenimento del territorio, ricadute positive sull’ambiente).

Insomma occorre valutare tutto e in funzione di questo definire quanto investire, parlo proprio di investimenti, non di copertura di costi correnti come avviene ora. Quali sono gli asset strategici per la pastorizia? L’innovazione? Allora si investa in Ricerca e Sviluppo nelle università per innovare. La tutela di un brand del prodotto e dei suoi derivati attraverso un marchio (es. IGP)? La disponibilità di caseifici locali? Io non lo so davvero, né francamente ritengo che spetti a me saperlo, ciò che so è che un litro di latte non può essere pagato ad un pastore quanto lui spende per acquistare una bottiglia d’acqua (si veda a questo proposito l’articolo “il prezzo del latte” in cui Andrea Murgia converte i vari costi che un pastore sostiene in una giornata in litri di latte.

Che chi ci governa (e chi ci governerà) stabilisca chiaramente se la pastorizia è un settore strategico per la Sardegna, sia in termini occupazionali, sia in termini di benefici (c.d. esternalità positive) che genera per la collettività, che esprima in modo chiaro le sue valutazioni e agisca di conseguenza, perché questa prolungatissima precarietà non è più tollerabile.

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