Telefonisti. Storie di ordinaria precarietà

1 Maggio 2008

Roberto Loddo

I lavoratori dei call center che prestano servizio nella struttura di una società hanno diritto ad un contratto di lavoro subordinato, dal momento che utilizzano materiale aziendale, e non possono essere considerati lavoratori autonomi. Lo sottolinea la Corte di Cassazione con la sentenza 9812 della sezione lavoro, del 14 Aprile. Una buona notizia che non ha cambiato di una virgola il grande vuoto culturale e generalizzato dei precari telematici sulla questione della trasformazione dei contratti a progetto. Nei piccoli imprenditori outbound cagliaritani permane ancora oggi il terrore di applicare i contratti subordinati ai lavoratori telematici. Ritengono che l’estensione dei diritti porterebbe un repentino calo delle produzioni, in quanto il lavoratore penserebbe solo ai diritti e non ai doveri. In questo modo si genera un meccanismo perverso. Chi dirige l’azienda assume atteggiamenti autoritari, vede l’operatore come un numero, controlla i tempi del suo lavoro, lo rimprovera ripetutamente. Questi comportamenti non sfociano nel miglioramento della produzione ma alimentano reazioni opportunistiche (per esempio l’abuso della malattia). Questi comportamenti imprenditoriali sono privi di prospettiva. L’economia e la storia ci insegnano che se il lavoratore opera in un ambiente e in un contesto favorevole trasmette degli spunti positivi che l’azienda potrebbe spendere in competitività. Gli stessi operatori, trovando soddisfazione e piacere nel lavoro svolto, potrebbero arricchire il proprio bagaglio di esperienze personali.
Abbiamo parlato con due giovani lavoratori del settore.
Marco, 29 anni operatore telefonico e redattore del Blog “Precarinlinea”, ci racconta che le condizioni di vita lavorativa sono le stesse in quasi tutti i call center della realtà outbound: orari sfasati, flessibilità a oltranza, pagamento a provvigioni e contratti a progetto. Gli chiediamo perché migliaia di operatori in continuo aumento a Cagliari, ogni anno, non si autorganizzino e non si mobilitino contro questo sistema. Nella maggior parte dei casi – ci dice – perché sperano di cambiare lavoro prima possibile. Così come è organizzato questo lavoro non piace. Eppure accompagnato da tutele adeguate, potrebbe alimentare i rapporti sociali e culturali di una persona, ed essere anche strumento di crescita individuale nel mercato del lavoro.
Diego, 26 anni, la mattina studia e la sera si trasforma in un operatore telefonico, ma non ama parlare del suo lavoro, pensa che mobilitarsi e rivendicare condizioni migliori significhi accettare di far parte del sistema. Identificarsi nel precariato sarebbe come ammettere la propria sconfitta sociale. Ci dice che molti operatori telefonici sono diplomati, studenti universitari che lavorano per sopravvivere, pagarsi le tasse universitarie e la casa in affitto. C’è anche la studentessa che vuole avere i soldi per andare a ballare in discoteca ogni fine settimana o il laureato tirocinante che non ha ancora trovato di meglio. Ma c’è anche la casalinga che lavora per arrotondare il reddito familiare, o chi è reduce da un fallimento che lavora nel call center perché non riesce pagare il mutuo della casa o l’assicurazione dell’auto.
Marco, conclude la sua riflessione con un appello ai propri colleghi di lavoro, e a tutti gli operatori telematici. “Noi operatori siamo tutti uguali davanti alle cuffie e le cornette. Non esistono distinzioni di età, sesso, o appartenenza politica. Non dobbiamo farci prendere da visioni emotive, individualistiche ed egoistiche. Nel futuro dell’outbound, in assenza di tutele, tenderanno sempre più a dividerci: da un lato gli operatori buoni e altamente produttivi, dall’altro gli operatori cattivi e scarsi. Solidarietà e Uguaglianza ci devono invece tenere uniti”.

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