I diritti della sofferenza psichica

1 Giugno 2008

Lucia Altea

Partecipando recentemente all’incontro-dibattito organizzato dall’ ASARP (Associazione Sarda Per l’attivazione della Riforma Psichiatrica), sulla situazione della psichiatria in Sardegna, sono rimasta sconcertata nel constatare che dopo trent’anni dall’approvazione della legge 180, l’istituzione manicomiale perdura nella percezione di alcuni psichiatri che, non solo auspicano il ripristino dell’elettroshock, affermandone l’efficacia terapeutica, ma praticano ancora oggi nei reparti SPDC un uso indiscriminato di procedure di contenimento dei pazienti nelle fasi acute di crisi psicotiche. Ho la sensazione che si voglia tornare indietro di quasi cento anni, quando agli inizi del secolo scorso, si definivano i malati di mente “pericolosi a sé e agli altri e di pubblico scandalo. La psichiatria era una disciplina chiusa alle conoscenze degli altri saperi (sociologia, psicologia), le modalità coattive venivano prescritte da figure professionali a bassa formazione scientifica e a scarsa valenza sanitaria.” Da salute mentale ambienti e strategie.
Sono passati ormai decenni dall’unanime riconoscimento, da parte di tutta la comunità scientifica internazionale ( Organizzazione Mondiale Sanità ), delle conseguenze devastanti ( irreversibili regressioni, depersonalizzazione, anti – terapeuticità ) dell’istituzionalizzazione e della segregazione in strutture totalmente emarginanti dei sofferenti psichici; ma taluni psichiatri riprendono ad enfatizzare l’origine organicista della malattia mentale, adottando prevalentemente un approccio ambulatoriale e valorizzando l’effetto prodigioso dello psicofarmaco. Una psichiatria moderna, non può ignorare la compresenza di una complessità di fattori biologici- psicologici- ambientali, che rappresentano le cause dell’insorgenza e dell’evoluzione del disturbo mentale. Il sottovalutare i molteplici aspetti è alla base del crescente fallimento di una prevenzione, diagnosi e cura del disagio psichico, fondato esclusivamente sul modello biologico e relazionale di tipo unidirezionale, che prevede esclusivamente un ruolo passivo del paziente, non considerandone la specificità, il contesto familiare e le reti sociali in cui è collocato.
Il disturbo mentale dalle forme meno a quelle più gravi, va invece inquadrato come un fenomeno interattivo, per cui l’approccio dovrebbe seguire un’impostazione dinamico- ecologica, finalizzato a promuovere benessere psicofisico. Si deve iniziare a prendere coraggio di sperimentare nuovi sistemi terapeutici di agire progettuale, abbandonando alcune pseudo- terapie che tendono ad uniformare gli individui, omologandoli in attività spesso depersonalizzanti.
E’ necessario andare oltre la malattia psichica, ridando identità e unicità a chi ne è ferito, perché anche nella sofferenza si è persona, con i propri desideri affettivi- emotivi- relazionali. Dare speranza significa arricchire l’esistenza “dell’altro da noi” di rapporti caratterizzati da reciprocità, dialogo, rispetto, vicinanza emotiva e condivisione.

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