Come un rifugiato

16 Luglio 2008

refugees
Chiara Fabrizi

Londra. Il 20 giugno si è celebrata la giornata mondiale dei rifugiati. Migliaia di manifestazioni si sono svolte nelle piazze delle grandi città al fine di dare un’eco e una sostanza a questa giornata. In effetti, non si legge e non si sente granché circa le condizioniin cui versano milioni di rifugiati (refugees) e molti di noi non sanno nemmeno quale sia l’esatto status di un rifugiato, le differenze che lo distinguono da un richiedente asilo (asylum seekers) e quali gli aiuti e i sostegni di cui un rifugiato può beneficiare. Un rifugiato, secondo una definizione diffusissima, è quell’individuo costretto ad abbandonare il proprio paese di origine a causa di persecuzioni di origine religiosa, politica o etnica (Convenzione di Ginevra 1951). Definizione un po’ vaga, soprattutto se si confronta con l’articolo della nostra costituzione relativo al diritto di asilo, che ne definisce solo in parte le condizione generali, rimandando a legge ordinaria per una più specifica regolamentazione. In un incontro internazionale tra Francia, Germania e Italia (Wustrau, 2003) si è tentato di intravedere una differenza di status, che sostanziale non è, tra richiedenti asilo e rifugiati: per i primi devono essere presenti nel paese di origine forti compressioni o limitazione delle libertà democratiche; per gli altri risulta invece fattore determinante il presupposto e fondato timore di essere, nel paese di origine, perseguitato fisicamente. Ma ciò non semplifica di molto le cose ed appare chiaro che la mancanza di una legge ordinaria di attuazione del principio costituzionale comporta divergenti interpretazioni giurisprudenziali, che generano confusione e ambiguità. Per molti paesi, poi, la principale fonte normativa dello status di rifugiato risulta ancora la Convenzione di Ginevra del lontano 1951. Aggirandosi tra vuoti e ambiguità di commi, articoli e Convenzioni, donne e uomini – esseri umani non fantasmatiche figure giuridiche – cercano di ricostruire le loro vite. Lasciare il proprio paese per ragioni di sicurezza non è una scelta; a 20 o 50 anni essere costretti a scappare, viaggiare attraverso molti paesi come clandestini, talvolta con figli, per poi arrivare in uno Stato, qualsiasi esso sia, con lingua, cultura e stili di vita completamente diversi non è assolutamente facile. In occasione della giornata/settimana mondiale a sostegno dei rifugiati, nel quartiere di Islington è stata allestita una mostra, le cui protagoniste sono donne arrivate a Londra come rifugiate e mai più tornate nel loro paese di origine; «le più fortunate di loro stanno vivendo una vita apparentemente normale, ma comunque minata dal difficile status di rifugiate che, a distanza di anni, limita ancora le loro possibilità», racconta Sue Wkes. Sue è una donna adulta sulla sessantina, prosperosa e dai colori chiari, i suoi occhi guardano dritto negli occhi della giornalista come a sottolineare la gravità e l’importanza della conversazione. Racconta di sé e di come sin da ragazzina le persone più importanti per lei siano state «rifugiate». Lei no, non lo è mai stata, lei è nata a Londra, è cittadina inglese: c’è un po’ di rabbia quando lo dice; credo che il suo «avere le carte in regola» la infastidisca. Suo padre è nato a Praga ed era ebreo, costretto a fuggire nel ’39, giunse a Londra grazie all’aiuto di amici; il suo ex-marito, padre delle loro figlie conosciuto nel ’76 a Lontra, è cileno ed anche lui è a Londra come rifugiato. «Da quando alla fine del ’75 ho conosciuto quello che è stato il mio compagno di vita, non ho mai smesso di lavorare cercando di aiutare le centinaia di rifugiati che hanno incrociato la mia vita». La giornalista chiede quale sia la maggiore difficoltà per un rifugiato, e lei sospirando dice « il rapporto con il Governo … la situazione è caotica, seguendo la prassi – obbligatoria- prevista dall’ufficio immigrazione si dà il via a una pratica senza fine in grado di imporre serie limitazione alle attività quotidiane di un qualsiasi individuo»: in parole povere, per l’attuale prassi, identificarsi e registrarsi non è sempre un bene. Ci spiega come – legalmente- un rifugiato non possa lavorare. «Lavorare per un rifugiato è quasi impossibile, anche nella multirazziale Londra passano dei mesi prima che il rifugiato possa fare qualsiasi tipo di lavoro; …. senza conoscere la lingua, senza avere più un contatto a cui appellarsi, e senza certezza alcuna, immaginate la solitudine e la sofferenza, lo strazio per quello che si sta lasciando alle spalle. Se ce la fate ad immaginare tutto questo, forse potrete aver immaginato il caos in cui un rifugiato si è dovuto districare». Il Refugee Council, la più grande organizzazione della Gran Bretagna nell’aiutare, sostenere e poi collocare rifugiati e richiedenti asilo, pur avendo ampliato negli anni la sua organizzazione e il suo raggio d’azione, non riesce ad assistere e soddisfare le numerose richieste, come testimonia la vicenda raccontata da Sherife, kossovara di 65 anni malata di Parkinson. A Londra dal ’99, ha cercato un qualsiasi tipo di occupazione. I mesi passano e lei non riesce a trovare un good way. Inizia una fase, ci dice, in cui la depressione fa da padrona fino a portarla al crollo fisico. Col progressivo peggioramento delle sue condizioni, si rivolge al Refugee Council e inizia a comporre il numero di assistenza giorno e notte cercando disperatamente di ricevere una visita. Dopo molte insistenze, la visita medica, pur diagnosticando il Parkinson, le restituisce un briciolo di speranza. La aiutarono moltissimo nei primi tempi, le fornirono, e tutt’ora lo fanno, le medicine e continua ad essere sempre seguita dallo staff. Dal punto di vista legale il Refugee Council ha cercato ripetute volte con insistenza di persuadere il Bureau and Immigration Agency ad accettare la richiesta inoltrata da Sherife due anni prima, sottolineando lo stato fisico della donna. Ci viene mostrato un foglio, è una lettera di risposta del Bureau: come se non avessero minimamente capito che si tratta di una donna anziana e con il Parkinson, rispondono scusandosi e dicendo che la richiesta sta seguendo la prassi prevista. Due sole testimonianze di donne che, come altre migliaia nel mondo, vivono per motivi politici il dramma dello sradicamento dai paesi di origine, alla disperata ricerca di un aiuto, che spesso non garantisce neppure i loro diritti umani. Quantunque Asia e Africa accolgano i 2/3 dei rifugiati mondiali e l’Europa si attesti su un insignificante 18%, i tre quarti dei rifugiati presenti nel paesi sviluppati,« developing countries », vive in campi appositamente creati [UNHCR 2006]. Campi appositamente creati?!? Com’è possibile che l’Africa e l’Asia concedano ai rifugiati maggiori possibilità di stabilirsi all’interno dei propri stati, mentre l’Europa con i suoi sistemi così restrittivi e complicati sia in grado o – piuttosto – voglia limitarsi a ricoprire un ruolo così marginale? L’Inghilterra con la sua Londra, una delle città più battute dai rifugiati e dai richiedenti asilo, è riuscita a rifiutare negli ultimi 5 anni quasi tre quarti delle richieste di asilo presentate e, paradossalmente, i richiedenti asilo rappresentano solamente lo 0.025% sul totale ingresso di cittadini non comunitari in Inghilterra. Governi e parlamenti europei,tra inadempienze e mancanza di solidarietà, rimangono immobili di fronte a questioni di questa portata. Drammi umani che andrebbero, invece, risolti con leggi ordinarie, le cui norme dovrebbero avere come base solo una radicale solidarietà, unita al rispetto delle norme e delle responsabilità accettate al momento della ratifica delle convenzioni internazionali.

1 Commento a “Come un rifugiato”

  1. Giuseppe Onorato scrive:

    L’Italia è uno ei Paesi in Europa più ipocrita in materia di rifugiati. Da una parte garantisce il diritto all’asilo nella Costituzione (art. 10), dall’altra non ha una legge per dare esecuzione a questo diritto. A chi presenta istanza d’asilo non viene garantito il diritto di lavorare durante l’iter della pratica. Le questure spesso rinviano la trattazione a tempo indeterminato e chi si presenta presso gli uffici di polizia spesso non ha alcuna assistenza e viene trattato da “semplice clandestino” che tenta illegalmente di trattenersi sul territorio italiano. La richiesta di asilo più che un diritto, viene nei fatti ritenuta una pretesa, se non anche una scusa per restare nell’illegalità, e di rado, tra le istituzioni pubbliche, ci si preoccupa realmente di offrire ai richiedenti asilo una tutela piena ed efficace. Perché in Italia non si può lavorare se si richiede asilo? Perché non vengono rilasciati permessi temporanei idonei? Perché non ci sono delle struttrure di accoglienza ma solo campi di concentramento con tanto di filo spinato e sorveglianza armata? Perché non c’è una legge di esecuzione dell’art. 10 Cost.? Perché le questure rinviano di mesi e mesi la trattazione delle pratiche e in oltre il 90% dei casi danno parere negativo al riconoscimento dello status di rifugiato?
    Manca, nelle istituzioni (questure, prefetture, etc.), più la Cultura del diritto, che i mezzi per appicarlo. E’ grave per la nostra democrazia.

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