Alcol, socialità e comunicazione

10 Luglio 2023

[Roberto Paracchini]

In quale regno o secolo e sotto quale tacita congiunzione di astri, gin che giorno segreto non segnato dal marmo, nacque la fortunata e singolare idea di inventare l’allegria? Con autunni dorati fu inventata. Ed il vino fluisce rosso lungo mille generazioni come il fiume del tempo e nell’arduo cammino ci fa dono di musica, di fuoco e di leoni. Nella notte del giubilo e nell’infausto giorno esalta l’allegria o attenua la paura, e questo ditirambo nuovo che oggi gli canto lo intonarono un giorno l’arabo e il persiano. Vino, insegnami come vedere la mia storia quasi fosse già fatta cenere di memoria. (Sonetto al vino di Jorge Luis Borges, 1899-1986).

 Il grande scrittore argentino dipinge mirabilmente l’intrigante fascino che possiede il vino per la maggior parte delle persone in tutto l’occidente e non solo. Borges evidenzia una delle caratteristiche maggiori che questa sostanza porta con sé, la capacità di rendere allegri e, quindi, di socializzare perché si è sempre allegri insieme: con amici, parenti, familiari, amanti, conoscenti… “Esalta l’allegria e attenua la paura”, ed emargina la solitudine, anche quando si è soli. La cultura del vino rinvigorisce e si nutre di miti, come quello di Dionisio dell’antica Grecia; vive in atmosfere sacre: sull’altare delle chiese il vino “diventa” sangue nella transustanziazione cattolica; coinvolge popoli e culture: per gli antichi egizi il vino era una bevanda sacra, simbolo di pacificazione; e via di seguito. In sintesi si potrebbe dire che nella nostra cultura il vino e, in parte, la birra sono stati trasformati, sia per motivi culturali che economici, in simboli della voglia di vivere, facendone quasi una bevanda laicamente sacra e che non può mancare nel convivio (dal latino convivium, banchetto, simposio).

  In questo quadro un’affermazione come quella che sostiene che “a differenza di cosa si dice spesso, non c’è un consumo minimo delle bevande alcoliche che sia ‘sicuro’ per la salute” crea un turbinio di sensazioni, come se qualcuno volesse invadere impropriamente la propria intimità e offendere la dimensione amicale del convivio.

 A questo punto il problema non è tanto sapere che la letteratura scientifica e gli organismi sanitari internazionali, come l’OMS, affermano che “nessuna quantità di consumo di alcol è sicura per la salute”; e nemmeno sapere delle grandi pressioni dei produttori di bevande alcoliche per non dire o minimizzare i danni alla salute di questa bevanda. La questione è più complessa, antropologico culturale e comunicativa.

 Innanzi tutto va ribadito che ognuno di noi vive all’interno della cultura del vino, sorretta non solo dalla tradizione e dai ricordi personali ma da un sistema mass mediatico pubblicitario e non, che ne accentua tutti gli aspetti: convivialità in primis, quindi spensieratezza ed allegria, voglia e senso di libertà. Va, poi, sottolineato che affermazioni tipo “bisogna bere responsabilmente” non fanno che incrementare questa cultura perché evitano di dire che non c’è una soglia entro la quale il consumo di alcol sia sicuro. Il che, sia chiaro, non significa affatto assumere atteggiamenti proibizionisti, sempre controproducenti. Ma semplicemente agevolare l’essere consapevoli di quanto appena accennato.

 Il problema è indubbiamente serio e come tale va affrontato in modo rigoroso.  Il 10 giugno a Orvieto Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, ha invece scelto un registro diverso. Parlando della decisione del governo irlandese di far inserire nelle bottiglie di vino un’etichetta esplicativa contenente anche che l’alcol nuoce gravemente alla salute, il ministro ha affermato che quella dicitura “racconta una cosa distorta”, come riportato dall’ANSA e rilasciato al giornalista Gianluca Semprini. Che queste considerazioni siano ampiamente presenti all’interno della cultura del senso comune è un conto; altro, e molto più grave, è che siano fatte proprie da un ministro in carica dell’attuale governo.

 Purtroppo la consapevolezza che l’etanolo contenuto in qualsiasi bevanda alcolica sia fortemente tossico è testimoniato da tutta la letteratura scientifica (leggasi a riguardo il recente e documentato articolo del quotidiano on line Il Post “Non fa male sapere che bere alcol fa male”). Infatti l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) delle Nazioni Unite ha inserito da tempo le bevande alcoliche nel “Gruppo 1” delle sostanze cancerogene. In che non significa affatto, sia chiaro, che chi beve alcolici si ammalerà di cancro, ma che – a condizioni ambientali e di salute simili – il rischio è maggiore rispetto a chi non beve.

 Tutto risolto? Per niente; in generale il sapere qualcosa non risolve il problema illuminato da quel sapere. Dall’aspetto informativo la questione si sposta, quindi, a quello della comunicazione nelle sue varie declinazioni, psicologiche e culturali.

 Vediamo. Gli umani sono esseri sociali e culturali, che vivono in ambienti immersi in una comunicazione prevalentemente simbolica, oggi sempre più veloce e accelerata e spesso auto-riproduttiva. E i social network, trasformati ultimamente in social media, incrementano notevolmente questo processo. Oggi inoltre molti studi di neuroscienze e di psicologia, come quelli di Daniel Kahneman, Nobel nel 2002, mostrano che nelle decisioni da prendere in situazioni di incertezza, noi tendiamo a scegliere la strada che, in termini di energie cognitive, richiede meno fatica, che è più facile; solo che, nei ragionamenti più complessi, si tratta di strade sbagliate.  Ed ancora: la psicologia sta mettendo sempre più in evidenza una serie di bias cognitivi che condizionano in continuazione le nostre scelte e il nostro comportamento: l’esempio classico racconta che quando ci troviamo di fronte a un problema o a ipotesi differenti, preferiamo privilegiare le soluzioni che confermano quello che già sappiamo, o che pensiamo di sapere, o che ci conforta di più perché contraddice di meno il nostro modo di fare e vivere.

 In pratica non basta informare correttamente, anche se si tratta di un primo passo importante. Occorre progettare strategie comunicative che tengano conto sia del contesto culturale e sociale in cui si vuole operare, sia delle moderne acquisizioni psicologiche e neuroscientifiche, nonché degli obiettivi che si vuole raggiungere. Come esempio al negativo può essere presa l’informazione fatta, soprattutto all’inizio sul Covid 19 e divenuta in parte responsabile della proliferazione dei no-vax. Informazione in cui le cifre fornite non venivano né contestualizzate, nè e per lo più presentate in modo apodittico (vedasi a riguardo il libro La pandemia  dei dati di Armando Massarenti e Antonietta Mira).

 Se si vuole trasmettere autorevolezza in quel che si comunica è importante anche spiegare come lavorano i ricercatori e il sistema scientifico nel suo complesso che, in quanto tale, è oggi più che mai un’opera collettiva fatta di controlli e verifiche che implicano la riproducibilità di ogni affermazione e risultato; e che portano ad acquisizioni, pur sempre negoziabili e perfettibili, che aprono squarci di ulteriore comprensione e che vengono pian piano sedimentati per diventare poi patrimonio della ricerca scientifica complessiva. Il tutto all’interno di una competizione incessante tra scuole e gruppi di ricerca sia pubblici che privati, e di serrato confronto tra ipotesi, messe internazionalmente alla prova. Il che significa che l’obiettivo è anche quello di riuscire a falsificare quanto affermato da un gruppo concorrente sia perché spesso vi sono ingenti interessi economici in gioco, sia in quanto si rincorre una posizione di prestigio e sia – esistono anche questi scienziati – per puro amore della conoscenza. Si tratta, insomma, dell’articolazione di un processo complesso, percorso pure per l’individuazione dei vaccini ed anche nelle ricerche sulle tossicodipendenze e, quindi, sull’alcol.

 Oltre a quello sanitario ed economico l’altro grande aspetto, oggi prioritario e insito al fenomeno del consumo di alcol, vino e birra in particolare, riguarda il modus vivendi socializzante e simbolico a questa bevanda ormai connaturato; e presente nelle varie stratificazioni culturali, storiche e non, della nostra società. Lo stesso Dante Alighieri (1265-1321) nel venticinquesimo canto del Purgatorio della Divina Commedia utilizza la formazione del vino come potente metafora per illustrare un aspetto per lui cruciale nel discorso della Commedia, di come lo spirituale si innesti nel corporeo: “E perché meno ammiri la parola, guarda il calor del sol che si fa vino, giunto a l’omor che della vite cola”. Per attenuare lo stupore del suo interlocutore sulla sua notazione di come l’anima razionale inglobi la vegetativa e la sensitiva “e fassi un’alma sola”, Dante invita a riflettere su come il calore del sole, qualcosa di immateriale, congiunto all’umore della vite, qualcosa di materiale, produca il vino. E il vino diventa qui il simbolo di una trasformazione che come “un’alma sola (…) vive e sente e sé in sé rigira”, ovvero che produce autocoscienza. Fuor di metafora, si ha in questi bei versi un’incoronazione del vino al massimo livello, come produttore di autocoscienza.

 Alcune domande infine s’impongono. L’aspetto socializzante tipico del convivio, in cui il vino viene dai più considerato un componente simbolico centrale, può diventare secondario di fronte alla consapevolezza che sulla salute  l’alcol non fa mai bene, anzi fa male? Oggi come oggi e salvo poche eccezioni, penso di no. Il che porta ad alcune considerazioni. La prima è che l’aspetto socializzante implica una postura comportamentale importante e decisiva per tutti noi, l’essere e lo stare insieme; una modalità di vita che, anche sulla base dell’attuale ricerca scientifica, possiamo considerare una componente centrale per la salute psico fisica. La seconda, che discende in parte dalla prima, è che al problema in esame, la pericolosità dell’alcol nell’attuale contesto culturale, non è possibile dare una soluzione semplice (dal latino simplicem, sem uno solo e plectere, piegare, una sola piega) ma necessariamente complessa (cum plècto, tessuto assieme), quindi con molte opzioni possibili.

 Da quanto detto ne consegue che in un ambiente culturale siffatto (il nostro) occorre elaborare differenti visioni progettuali a seconda della situazione specifica in cui ci si trova e dell’angolazione da cui si esamina il problema. Privilegiare l’aspetto di prevenzione verso i danni, comprovati, alla salute o quello dell’incremento della socialità? Oppure, non rinunciando al bicchiere di vino o di birra, difendere questa tradizionale socialità, ma sforzandosi anche di inventare altre simbologie socializzanti per limitare al massimo i danni alla salute da parte dell’alcol (consapevoli però che non saranno mai eliminati del tutto finchè si continuerà a bere alcolici)? Le decisioni sono ovviamente soggettive. L’importante è esserne consapevoli.

 I quesiti sopra indicati possono essere conciliati? Possono esservi momenti intermedi? Alcuni fanno il confronto con la campagna relativa ai danni del fumo. Inizialmente mal vista, pian piano poi accettata; oggi i fumatori sono certamente diminuiti, mentre chi vuole fumare lo fa liberamente. Ma col vino, per l’Italia e non solo, il discorso è diverso per via dell’aspetto socializzante e simbolico prima illustrato, mentre nel fumo la socialità è ed era un aspetto marginale.  In Irlanda, come accennato, è stata approvata una norma che prevede che entro due anni le etichette dei prodotti alcolici indichino il contenuto calorico e i grammi di alcol nel prodotto, oltre ai rischi per la salute: per tutte le bevande alcoliche, birra compresa, diffusissima in quel Paese.

Un primo passo che informa rispettando la giusta prerogativa e autonomia di scegliere se bere o meno. In Italia chi osa dire pubblicamente che l’alcol non fa bene viene, per il momento almeno, indicato al pubblico ludibrio, oppure, andando bene, emarginato. Non è difficile prevedere, quindi, che la strada per una sobria consapevolezza sarà lunga e molto accidentata.

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