“Assemblea”: cooperazione e organizzazione della “Moltitudine”

1 Settembre 2019
[Gianfranco Sabattini]

Il ricorrente problema della gestione dei beni comuni reca con sé il dibattito sulle modalità della loro gestione, oltre che su quelle dell’accesso al loro godimento; la tendenza alla cooperazione auto-organizzativa dei gruppi spontanei è spesso considerata sufficiente a garantirne sia la gestione che il godimento. Sull’efficacia e sulle “virtù” della cooperazione auto-organizzative dei soggetti titolari dei beni comuni si ha, però, motivo di nutrire più di un dubbio.

La riflessione sui movimenti spontanei e sui problemi della costituzione di una loro soggettività unitaria è la costante che accomuna e lega “Assemblea”, l’ultimo libro di Nichel Hardt e Antonio Negri, ai loro precedenti lavori: il primo, “Impero”, è la narrazione delle forme in cui si sostanziano i caratteri delle forme organizzative della produzione capitalistica contemporanea e le loro complesse modalità di governo; il secondo, “Moltitudine”, è la rappresentazione della dimensione collettiva della molteplicità dei soggetti che affollano il mondo; il terzo, “Comune”, è l’individuazione di ciò che costituisce la base della produzione sociale, con la quale trasformare i caratteri della produzione economica capitalistica contemporanea e liberare la Moltitudine attraverso lo “scardinamento” dell’istituto della proprietà privata, cui si deve che il comune sia oggetto di appropriazione da parte di alcuni, a danno di tutti.

Nella prospettiva tracciata sulla base dei loro precedenti volumi, in “Assemblea” Hardt e Negri mettono a punto gli strumenti per l’attuazione di una possibile azione politica da parte della Moltitudine, facendoli scaturire (gli strumenti) dalla realtà del mondo contemporaneo, dalla totalità degli elementi che la compongono, ordinandoli ai fini di una trasformazione radicale della società capitalistica e dando così fisionomia a una presunta “intelligenza collettiva”, capace di combinare democrazia e potere per un autogoverno dei movimenti spontanei.

Il processo di questa trasformazione è ipotizzato in termini completamente diversi da quelli concepiti e praticati dai movimenti rivoluzionari del XX secolo. Il comunismo, ad esempio, concepiva la trasformazione dei caratteri del capitalismo realizzata attraverso una rivoluzione sociale, intesa come strumento per la creazione di una nuova società alternativa a quella capitalistica. I soggetti sociali in lotta, secondo le teorie rivoluzionarie del secolo scorso, erano sottoposti all’egemonia del Partito, inteso come soggetto politico di avanguardia separato, però, da essi, in quanto supposto dotato di una leadership in grado di governare, non solo il compiersi della rivoluzione, ma anche la nuova società post-rivoluzionaria; il Partito costituiva un contropotere rispetto al potere centrale della società capitalistica, contrapponendosi come alternativa ad esso.

Le teorie storiche rivoluzionarie sono oggi, secondo Hardt e Negri, totalmente inappropriate per la realizzazione della trasformazione dei caratteri della società capitalistica contemporanea; ciò che occorre agli spontanei movimenti contemporanei di resistenza e di opposizione al capitalismo globalizzato neoliberista, è l’organizzazione di un processo diretto alla trasformazione della società capitalistica che sia totalmente interno alla moltitudine.

La cultura propria della società capitalistica, a parere di Hardt e Negri, considera i movimenti spontanei un’anomalia, perché l’ideologia in essa dominante non riesce a comprenderne le istanze e le finalità; per questa ideologia, infatti, la “spontaneità” è un segno di improvvisazione, casualità e irrazionalità. Questa valutazione, quindi, è in realtà un giudizio che vorrebbe ridurre gli eventi spontanei di resistenza e opposizione a fenomeni pre-politici di natura emotiva, al fine di poter affermare che si tratta di manifestazioni “saltate fuori dal nulla”, per cui, così come sono nate, sono inevitabilmente destinate a ritornare nel “nulla”.

La realtà, però, sostengono Hardt e Negri, è molto diversa; gli eventi spontanei di resistenza e opposizione sono considerati estranei al corretto funzionamento delle istituzioni economiche e politiche, in quanto la sensibilità del potere proprio della società capitalistica non è in grado – per motivi strutturali – di valutarne l’importanza, finendo cosi per ridurli a crimini comuni o, nella migliore delle ipotesi, a espressioni del malfunzionamento del sistema.

Con “Assemblea”, Hardt e Negri riflettono sulle modalità di auto-organizzazione dei movimenti, partendo, nell’elaborazione della loro analisi, da una delle congiunture politiche degli ultimi anni. A partire dalla crisi del 2008 si è avuta, secondo gli autori, una risposta neoliberista agli effetti della crisi, che ha avuto conseguenze ancora più gravi rispetto a quelle manifestatisi nei due decenni precedenti. La maggior gravità di tali conseguenze è consistita, infatti, nel ritorno a regimi autoritari e nell’inasprimento delle politiche neoliberiste (o ordoliberiste a trazione tedesca) nell’Unione Europea e in altre parti del mondo. Ciononostante, questi anni sono stati caratterizzati dal diffondersi di molti movimenti spontanei, come quelli Gezi Park e di Occupy Wall Street e delle innumerevoli lotte per i beni comuni; fatti, questi, che hanno motivato Hardt e Negri a riflettere, con “Assemblea”, non tanto sulle insufficienze di questi movimenti, quanto sulla loro natura di esperimento innovativo sul piano dell’azione politica e di critica del capitalismo contemporaneo. A tal fine, Hardt e Negri hanno orientato la propria riflessione per individuare il modo in cui i “movimenti” possono durare nel tempo e creare una trasformazione sociale duratura della società capitalista.

Secondo i due autori di “Assemblea”, considerata l’obsolescenza dei metodi rivoluzionari del secolo scorso, i movimenti spontanei contemporanei, per durare e contribuire efficacemente a trasformare i caratteri delle modalità di funzionamento delle società capitalistiche contemporanee, devono “ridefinire i rapporti sociali fondamentali e lottare non tanto per prendere il potere così com’è, ma […] per realizzare una società completamente nuova e democratica, e soprattutto produrre nuova soggettività”.

Per raggiungere questi obiettivi, i “movimenti”, anziché rifiutare, come essi normalmente fanno, la leadership, ricusando ogni forma di organizzazione verticale con cui i partiti tradizionali, distanti ed esterni ai loro rappresentati, hanno ostacolato lo sviluppo della democrazia e la piena partecipazione di tutti alla politica, essi (i “movimenti”), al contrario, devono evitare di rinunciare all’organizzazione politica per “eliminare il problema della verticalità solo per fare dell’orizzontalità un feticcio, ignorando la necessità di avere strutture sociali che durino nel tempo”; ciò perché gli stessi “movimenti”, per avere successo, “devono organizzare una produzione di soggettività in grado di creare relazioni sociali [alternative] durature”.

I “movimenti” perciò, invece di rinunciare totalmente alla leadership, devono conservarne le funzioni, trovando “nuovi meccanismi e pratiche per realizzarla”; funzioni che sono poi quelle di mettere insieme la moltitudine in “assemblea” per l’assunzione delle decisioni necessarie per il governo della produzione sociale. In altre parole, i leader, all’interno delle concezione della democrazia di cui i movimenti spontanei sono portatori, devono essere degli imprenditori in grado di organizzare la produzione sociale, mettendo insieme la moltitudine per creare “combinazioni sociali nuove”, organizzandole “in modo cooperativo”. A tal fine, Hardt e Negri ritengono che, per mettere insieme la moltitudine e prendere decisioni, non occorra che la leadership sia svolta centralmente (lontano dall’assemblea), in quanto può essere svolta direttamente dalla moltitudine organizzata democraticamente in assemblea.

Ovviamente, osservano Hardt e Negri, possono esservi “questioni che, per la loro urgenza e per la loro natura tecnica, richiedono una qualche forma di centralizzazione del processo decisionale, ma in questo contesto lo svolgimento della funzione di ‘leadership’ dovrà essere costantemente subordinata alla decisione o alla revoca da parte della moltitudine secondo l’occasione”. Non si tratta, quindi, di eliminare la leadership, ma “di ribaltare la relazione politica che la costituisce, invertendo la polarità che lega movimenti orizzontali e leadership verticale”, per evitare, da un lato, che i leader possano prendere decisioni “a distanza”  e all’esterno rispetto alla volontà della moltitudine, e dall’altro, che si data la stura a un processo di separazione “tra leader e seguaci, tra chi comanda e chi è comandato”.

I leader sono perciò necessari ai “movimenti”, soltanto se svolgono la funzione di mettere insieme le persone per assumere decisioni unicamente nell’interesse di una “moltitudine produttiva”, perché questa possa essere messa nella condizione di soddisfare i suoi “desideri” di uguaglianza, libertà e democrazia, ed anche di benessere e ricchezza; certamente non per “possedere di più, ma per creare relazioni sostenibili che garantiscano a tutti uso libero del comune”, del quale i “movimenti” sono impegnati a cambiare le modalità di appropriazione, di gestione e di uso; ciò, in considerazione del fatto che esso (il comune) è oggi “sempre più sia il fondamento sia il risultato principale della produzione sociale”. Per produrre quanto necessario a soddisfare i “desideri” della moltitudine, occorre fare affidamento sull’”accesso condiviso alle risorse” e alle forme di di “cooperazione comuni”, per cui quello che si produce “tende (almeno potenzialmente) a essere comune, vale a dire condiviso e gestito socialmente”.

Il tema dell’appropriazione del comune è il campo in cui l’ideologia dei “movimenti” di scontra con quella del capitalismo. Quest’ultima, notoriamente, afferma il diritto di appropriazione del comune sulla base dell’istituto della proprietà privata, in virtù del quale l’accumulazione avviene attraverso l’appropriazione delle risorse naturali (estrazione), ma anche del “valore prodotto nelle forme sociali del comune (produzione di conoscenze, cooperazione sociale e prodotti culturali). Il potere dei mercati finanziari regole e governa i processi di “estrazione”, distruggendo risorse naturali, ma anche limitando lo sviluppo delle forme sociali di produzione del comune.

Al contrario di quella capitalista, l’ideologia che ispira i movimenti spontanei di protesta e opposizione afferma la necessità di tenere “aperto l’accesso al comune e [di] gestire in modo democratico la distribuzione della ricchezza, mostrando non solo come la moltitudine sia già relativamente autonoma ma anche come possa diventarlo sempre di più”; ciò perché, secondo Hardt e Negri, quando la moltitudine è organizzata in assemblea, “riesce meglio a determinare le modalità di cooperazione sociale, a organizzare le proprie relazioni reciproche e quelle con il mondo esterno”, creando “nuove combinazioni di forze umane e non umane, di macchine sociali e digitali, di elementi materiali e immateriali”. Ciò starebbe a significare, a parere di Hardt e Negri, che la trasformazione del comune in proprietà privata, limitandone l’accesso e imponendovi un monopolio della decisone a scapito del suo libero uso e del suo sviluppo, non può che “diventare un ostacolo della produttività futura”.

Per evitare l’uso sociale del comune, l’ideologia del capitalismo, nella sua coniugazione più esclusiva, quella neoliberista attualmente egemone, non solo ha imposto una riorganizzazione della produzione per incrementare i processi di estrazione del comune a scopi privati, ma ha anche organizzato una struttura del potere finalizzandolo a salvaguardare lo status quo; il potere, – osservano Hardt e Negri – è però ”sempre una relazione di forza”, il cui mantenimento richiede “un costante impegno” per una sua negoziazione. Il conflitto però è, per i due autori, parte del nostro “essere sociale”, in quanto caratterizzato dalla contrapposizione tra la resistenza dei subordinati e l’”infinita minoranza che governa le vite dei molti”, estorcendo “il valore sociale creato da coloro che producono e riproducono la società”.

L’essere sociale appare, quindi, o “come figura totalitaria del comando o come forza di resistenza e liberazione”: la prima esprime la “capacità di assoggettamento” e la seconda la “soggettivazione” della moltitudine, rispetto alla quale la leadership, sostengono Hardt e Negri, deve “esercitare una funzione imprenditoriale”, nel senso che deve agire come operatore di un’assemblea di una moltitudine “che si autorganizza e coopera in piena libertà”, per produrre ricchezza finalizzata a soddisfare i suoi “desideri” di uguaglianza, libertà e democrazia.

Gli autori di “Assemblea” ritengono che solo così possa aprirsi, per i movimenti di resistenza e opposizione, la strada da percorrere, al fine di condurre la moltitudine ad appropriarsi della ricchezza sociale: “un cammino che radica il potere nel comune”. Per compiere questo cammino, occorre un “Principe”, inteso, non come individuo e neppure come partito, ma come leadership interna alla moltitudine, per tracciarne il cammino verso l’uguaglianza e la libertà, “mettendo il comune nelle mani di tutti, per farlo gestire democraticamente da tutti”. Questo principio, cioè la leadership espressa dal basso, dovrà manifestarsi “come sciame: una moltitudine che si muove in formazione compatta e capace di minacciare il potere”; ovvero il potere dominante contestato dal contropotere degli espropriati, riuniti in assemblea per decidere di agire politicamente di concerto per la liberazione della società.

Quali sono i limiti dell’analisi di Hardt e Negri? Il limite maggiore è costituito dal riferimento alla logica auto-organizzativa posta a fondamento delle modalità operative delle quali dovrebbe avvalersi la moltitudine organizzata in assemblea; l’idea che l’assemblea sia costituita solo da “angeli”, e non anche da “diavoli”, non tiene in alcuna considerazione le possibili cause degenerative del processo di produzione e riproduzione del comune, riconducibili a comportamenti opportunisti di alcuni componenti l’assemblea stessa.

Come hanno dimostrato molti pensatori di diverso orientamento culturale, i comportamenti opportunisti, trovano l’ambiente ideale nel quale fare valere i loro “animal spirit” proprio all’interno di strutture spontanee dotate di automatismi auto-regolatori (quale può essere, ad esempio, qualsiasi struttura identica a quella del mercato competitivo); ciò può determinare l’impossibilità di soddisfare i “desideri” cui tende l’azione spontanea e cooperativa della moltitudine, rendendo impossibile l’eliminazione degli esiti di comportamenti disfunzionali, connessi direttamente alla logica auto-organizzativa dell’assemblea nella quale è raccolta la moltitudine. Inoltre, l’analisi di Hardt e Negri, negando a priori l’esistenza di ogni possibile “sfera del privato”, esclude che i membri della moltitudine possano formulare, da posizioni autonome, una qualsiasi critica del malfunzionamento dell’organizzazione dell’assemblea, solo perché la logica auto-organizzativa di questa renderebbe superflua qualsiasi critica.

In conclusione, l’ipotesi organizzativa avanzata da Hardt e Negri, per rendere rilevante sul piano politico l’azione dei movimenti spontanei, non manca di presentare limiti tali che, nel caso in cui la proposta fosse accolta e istituzionalizzata, essa potrebbe causare “mali” identici a quelli che caratterizzano la società capitalista; la contestazione di quest’ultima non può essere una funzione il cui esercizio sia lasciato alle presunte “virtù taumaturgiche” delle assemblee spontanee delle moltitudini.

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