Contorni: Il senso comune, l’antropologia e l’archeologia (1)

1 Luglio 2016
francesca_corona
Giulio Angioni

C’è un assunto di base, comune a ogni archeologia e a ogni antropologia: la varianza e l’invarianza delle culture, cioè tanto il coincidere in un tutto omogeneo quanto il diversificarsi illimitato dei modi di vivere umani. Modi vari di vivere da studiare a da considerare nelle loro peculiarità non gerarchizzate.

Uno scopo etico e civile principale e sempre più urgente, comune a tutte le specializzazioni che diciamo umanistiche ma particolarmente in evidenza per archeologi e antropologi, è contribuire a elaborare, rispetto alla vicenda umana complessiva e ai vari modi dell’umano vivere, un atteggiamento non etnocentrico, tanto meno eurocentrico, non chiuso in se stesso e non ostile verso altri modi di vivere.

I massimi temi di ogni archeologia e di ogni antropologia si possono forse ridurre, come ho fatto di recente, in triade schematica ai termini fare, dire, sentire, e non per notare il ‘privilegio’ dell’antropologo di poterne trattare senza le limitazioni dell’archeologo, troppo costretto a residui del fare e al troppo poco, fino al nulla più lontano, del dire e del sentire delle forme di vita passate.

L’archeologia quanto l’antropologia devono continuamente fare i conti con l’abitudine millenaria occidentale a vedere il fare, il dire e il sentire in ambiti separati e in gerarchie d’importanza. Devono continuamente ricalibrare il senso comune, sia colto che popolare a vari livelli e circolarità. È del senso comune di molti luoghi e tempi e strati sociali affermare, per esempio in italiano, che tutto il mondo è paese, ma anche che paese che vai usanza che trovi, e persino imporre moglie e buoi dei paesi tuoi. Forse il maggiore compito conoscitivo e pratico di ogni antropologia e di ogni archeologia è riuscire a tener connessi alla pari, facendoli così diventare utili ‘verità’, sia che tutto il mondo è paese e sia che paese che vai usanza che trovi, per capire e usare il positivo ed evitare il negativo di prescrizioni che vogliono moglie e buoi dei paesi tuoi, o che wright or wrong, my country. Attenersi solo all’essere e al dover essere tutto il mondo paese, cioè all’umana invarianza o identità, o attenersi solo al fatto e al diritto che paese che vai usanza che trovi, cioè solo alla varietà dei modi di vivere, è causa di grandi sviste e di più fatali guai (Angioni 2011). Archeologi e antropologi dovrebbero sapere meglio di altri che se gli uomini sono sempre identici e sempre diversi, non sono mai riducibili né alla loro identità né alla loro diversità.

Il senso comune e altre forme di riflessione sull’esperienza perenne e ubiqua della variazione e della coincidenza dei modi di vivere, da circa due secoli hanno prodotto in Occidente anche gli studi specialistici di antropologia e archeologia, che hanno assunto a proprio oggetto di ricerca e di riflessione la vita umana nelle sue varie forme, arrivando a una concezione generale abbastanza condivisa, che appunto vede l’uomo sempre uguale e sempre diverso, sempre diverso in tutto e in tutto sempre lo stesso in ciò che lo fa uomo, cioè essere vivente della nostra specie homo sapiens che emerge da altre specie precedenti nei milioni di anni da che uomo è uomo. L’umanità a cui apparteniamo è diversa nel fare, nel dire, nel sentire, ed è uguale sempre se non altro perché sempre nel fare, nel dire e nel sentire deve produrre e riprodurre la sua vita producendo e riproducendo beni, regole, senso e agio di vivere.

Il punto di partenza di ogni antropologia e di ogni archeologia non pare oggi possa essere altro dal riconoscere che l’umanità si identifica nella sua diversità, nel suo essere sempre diversa nei singoli individui e nelle varie culture di appartenenza: che l’uomo nasce pronto a vivere mille vite diverse, ma diventa uomo quale i tempi e i luoghi comandano, africano di quattro milioni di anni fa, cinese o egizio di cinquemila anni fa, romano di duemila anni fa, romano di oggi, sempre anche col rammarico che avrebbe potuto essere altrimenti e quindi con la certezza, il sospetto, la speranza che altri mondi sono sempre possibili. Perché appunto l’uomo nasce secondo la sua natura di essere vivente formatosi a essere capace, e forse sempre più capace, di imparare, cioè capace e pronto e bisognoso di completarsi nella cultura, perché alla natura umana è necessario elaborare socialmente e imparare individualmente un modo, una forma di vita particolare in un tempo, in un luogo e in una raggruppamento umano storicamente dato. Se, come afferma il senso comune, nessuno nasce imparato, forse diversamente da tutti gli altri esseri viventi che forse nascono più ‘imparati’, l’uomo nasce bisognoso di imparare, di compiersi o completarsi, di diventare uomo, è ancora anche il senso comune ad affermare che si diventa sempre un particolare tipo di uomo; e bisogna però articolare il senso comune quando afferma che chi nasce tondo non muore quadrato, perché nessuno nasce tondo ma eventualmente lo diventa: nasce senza forma ma tutto pronto ad assumere la forma disponibile dove nasce; e sebbene non sia da trascurare la nostalgica consapevolezza, il salvifico rammarico di aver potuto essere altro, altrove e in altri tempi, che da uomini si può essere diversi e migliori, che anzi lo si sta diventando, diversi e magari migliori da ciò che intanto si è. La nostra specie si è specificata nel non specificarsi come specie, ma come capace di specificarsi nella cultura, nelle varie culture, e dunque la natura dell’uomo è la cultura, cioè il sapere e poter essere sempre qualcosa di nuovo e di diverso continuando a essere se stesso proprio in questa possibilità e necessità di realizzarsi solo in una forma di vita, in una cultura.

Temi eterni della pratica, della riflessione e del sentimento, nella cultura occidentale e in tutte le altre. Spesso espliciti, spesso impliciti. Spesso anche negati, interdetti, in nome della pretesa che il particolare tipo di uomo, che si è diventati in un particolare luogo e tempo e società, realizzi il tipo d’uomo migliore possibile, o l’uomo ottimale, persino l’unico possibile uomo in assoluto.

La cultura però è anche uno strumento concettuale che l’Occidente si è dato per guardare ai propri e agli altrui modi di vivere, in un confronto anche ambiguo che da due secoli coinvolge discipline specialistiche come l’antropologia culturale e l’archeologia. Sto cercando di trattare questi grandi temi in un libro da cui li riprendo anche perché mi si impongono, con problemi e dubbi, in un secolo e in un millennio che succedono ai precedenti che ci lasciano eredi di ‘princìpi’ come la relatività, l’indeterminazione, l’incompletezza, la probabilità, le sfumature, la complessità, che hanno investito in pieno l’uomo stesso, forse in un Occidente ancora troppo abituato all’assoluto, al determinato, al compiuto, alla gerarchia delle idee chiare e distinte, oppure, in reazione all’irrompere continuo della casualità, a miti come quello di una natura umana benigna o invece maligna, preesistente e regolatrice dei nostri comportamenti, Rispetto a ciò, lo studio della varianza e dell’invarianza dei modi di vivere ha da tempo indicato la prospettiva di una ‘natura umana’ come divenire socialmente costruito e appreso.

Foto Francesca Corona

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