Contorni – Identità (3)

16 Gennaio 2015
8_pitture-rupestri
Giulio Angioni

Siamo testimoni della tendenza a considerare sempre giuste e sacrosante le proprie appartenenze, più o meno problematiche dentro un’entità geo-politica che le implica. Ma le recenti mattanze interetniche jugoslave gridano che non sempre i sentimenti identitari sono accettabili, sul piano dei diritti umani di base, o di una generica base culturale dell’Occidente odierno. Oggi si è costretti a misurare ciò che i sentimenti di appartenenza suggeriscono alla stregua di valori che non siano solo quelli della mera appartenenza.
I torti dei conculcatori generano sempre ragioni e diritti dei conculcati. Curdi o palestinesi non hanno ragione solo perché rivendicano l’essere curdi o palestinesi, ma in quanto si rifanno a diritti umani oggi proclamati universali, anche dalle costituzioni degli stati in cui sono implicati. Difficile pensare che possano chiedere più di ciò che qualunque altro popolo chiede per sé. Storia e antropologia insegnano che i sentimenti di appartenenza a una collettività comunque individuata (dall’umanità planetaria al campanilismo) è qualcosa che gli uomini creano perché in gruppo, e il senso di appartenenza è qualcosa di elementare che suggerisce azioni e reazioni varie, auto-legittimanti solo in quanto identitarie. La situazione dei piccoli popoli in convivenza politico-territoriale con grandi popoli è problematica, anche quando il grande non tenda a conculcare il piccolo, per il fatto stesso che il grande ha più forze del piccolo. Da cui la nozione ambigua di tutela.
Non è abbastanza senso comune che l’appartenenza etnica produca valori e disvalori. E che dunque i comportamenti etnici debbano valutarsi sulla base di criteri esterni alla pura appartenenza. Che acquista valore o disvalore a seconda di come, di chi, di quando agisce nel nome della propria appartenenza. Che obbedendo a sentimenti e a risentimenti di appartenenza etnica si alzano bandiere e parole d’ordine in situazioni sempre in movimento, in un’incertezza dove il sentire etnocentrico esclude la ragione confrontante.
Anche gli antropologi, come il senso comune, si concentrano nel considerare i problemi dell’identità etnica quasi come esclusivi di minoranze a disagio, trascurando le grandi appartenenze, come l’appartenenza all’umanità e quindi, anche, o alla parte ricca o alla parte povera dell’umanità. Le appartenenze che più contano restano nell’ovvio, inosservate, come l’essere europei, o italiani o inglesi o parigini: nozioni identitarie potenti, tranquille e ovvie, così com’è potente e ovvia l’identità occidentale, pur con tutte le sue vaghezze geoantropiche immaginarie, ma efficaci come poli di attrazione identitaria, come mostra, per esempio, la celebre denuncia, alla fine degli anni settanta del Novecento, dell’eurocentrismo orientalista di Edward Said.
Le identità che contano di più, anche all’interno della grande e forte identità occidentale, sono quelle che non pongono problemi, non hanno crisi acute o croniche di identità, a cominciare dal sentirsi più o meno tranquillamente occidentali ricchi superiori e dominanti. Nessuno meglio degli antropologi sa e ha mostrato che le appartenenze, sempre multiple e complesse, a scatole cinesi, giocano in modo vario i loro ruoli. Se oggi c’è il problema di un’identità europea, che non è ancora ovvia e quindi è problematica, ci sono anche all’interno dell’Unione Europea delle identità che continuano a funzionare, implicite e ovvie, e forti in quanto ovvie. Così forti che ricercatori più quantitativi, come i sociologi e gli psicologi sociali. di solito le danno anch’essi per scontate e le lasciano in uno sfondo indistinto quando raccolgono dati contabili sui sentimenti e gli atteggiamenti di appartenenza etnica o culturale minore o locale, come quella di essere tirolesi in Italia o corsi in Francia.
I nazionalismi europei del passato non sono più di moda. Gli italiani non usano più nemmeno la parola patria, così come i tedeschi politicamente corretti con la parola Vaterland o espressioni come quella nell’inno nazionale Deutschland über alles. Ma pare senso comune considerare veri e degni problemi identitari quelli delle minoranze. E sembra che solo quelle pongano problemi. Ma le identità minoritarie hanno problemi perché ci sono le identità maggioritarie, e che perciò hanno difficoltà a raggiungere lo stato di ovvietà non problematica, mentre le identità ovvie e forti sono tali anche perché riescono a fare bene i conti con le proprie identità e anche con le altre identità interne alla compagine di appartenenza. Le identità ovvie godono del tranquillo oblio dell’ovvio, specie se maggioritarie, e non sono identità minoritarie conculcatrici di maggioranze come, nel vecchio Sudafrica pre-Mandela, l’agguerrita minoranza di origine europea .
Per le appartenenze minori pare difficile notare che le rivendicazioni, gli orgogli e le proclamazioni identitarie sono manifestazioni di un fenomeno che merita o demerita a seconda delle circostanze e rispetto ad altri valori. Che si tratta in fondo e in origine della stessa cosa sia in chi domina e discrimina o uccide in nome della propria identità, sia in chi in nome della propria identità viene discriminato o subordinato o ucciso. Bisogna forse scandalizzare, proponendo di analizzare che cosa c’è di comune negli atteggiamenti dei discriminatori e dei violenti in nome della loro etnia e negli atteggiamenti dei maltrattati a causa della propria etnia, fino alla bestemmia di chiedersi quanto c’è all’origine di comune tra il sentimento di appartenenza germanico che sfociava negli orrori del nazismo e il sentimento di appartenenza del popolo ebraico così spesso condannato all’emarginazione e alla persecuzione. E ritenere che non è accettabile (dall’attuale consensus gentium, ovvero dal senso comune internazionale, dalla morale pubblica espressa anche in istituzioni internazionali, in dichiarazioni di diritti individuali e dei popoli, con una giurisprudenza di tribunali internazionali) che right or wrong, my country, cioè che quando è per la patria anche il male è bene, perché invece, alla luce di quel consenso e di quel senso comune, il male è male anche se fatto per la patria.
Non è inutile nemmeno in luoghi come la Sardegna considerare che ciò che l’appartenenza etnica suggerisce non è più positivo quando entra in contrasto con appartenenze e solidarietà più vaste, via via fino all’appartenenza di tutti all’umanità, in un pianeta sempre più piccolo, interrelato e minacciato da egocentrismi e da etnocentrismi. Non sono infatti né un bene né un male di per sé né l’assimilazione né l’omologazione culturale, così come non è sempre e dappertutto un bene la preservazione e la valorizzazione di caratteristiche locali. Non è difficile vedere che la diversità quanto la convergenza culturale sono spesso un bene quanto un male.
La varietà e l’omologazione culturale sono ambedue causa di bene e di male. In quanto meri dinamismi il differenziarsi e l’omologarsi sono neutri. Il Mediterraneo è un grande testimone storico ed etnografico sia dei guai sia dei benefici del contatto omologante, sia dei guai sia dei benefici della differenziazione, della persistenza quanto della mutazione culturale. Non ci sarebbero stati gli orrori di cinque secoli di colonialismo europeo se non ci fossero state così grandi differenze culturali, che risultano differenze di potere tecnologico, economico, politico, militare, ideologico, religioso, linguistico, mass-mediatico eccetera.

*Pitture rupestri, Patagonia (da E. Anati: La religione delle origini)

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