Come fronteggiare la crisi

16 Gennaio 2015
theglobalpanorama.com
Gianfranco Sabattini

E’ uscito, edito dal “Manifesto, a cura di Massimo Loche e Valentino Parlato, il volume “Una crisi mai vista. Suggerimenti per una sinistra cieca”. Esso raccoglie una serie di interventi che trattano diversi aspetti della crisi che ha coinvolto la quasi totalità delle economie capitalistiche. Lo scopo del volume è quello di stimolare la nascita di un dibattito sullo stato attuale della nostra società, al fine di “uscire dalla palude mortale nella quale vanamente ci agitiamo”; ma soprattutto, al fine di ricostruire il pensiero della sinistra perché, dopo aver perso i suoi originari punti di riferimento, possa tornare ad essere vitale, attraverso una riflessione critica sulle cause che hanno originato lo stato in cui attualmente versa il nostro sistema dal punto vista economico e sociale.
A tal fine, sebbene la precaria situazione economica renda urgente fare immediatamente qualcosa per lenire gli esiti negativi della crisi sul piano sociale, occorre un’analisi critica della realtà, non solo per evitare di dover accettare le “ricette” di politica economica di chi sostiene le doti taumaturgiche del liberismo, ma anche per andare ben al di là delle politiche pubbliche usuali, continuamente riproposte come se nulla fosse cambiato. A questa mancanza di analisi della situazione reale, sottolineano i curatori del volume, “corrispondono atteggiamenti politici che variano da quelli di chi si limita a timide proposte riformiste, palliativi che non toccano la sostanza del problema, a quelli di chi tuona in modo poco credibile frasi falsamente rivoluzionarie, passando per tante forme di populismo e ribellismo incoerente”.
Secondo Loche e Parlato, l’intervento di Giovanni Mazzetti, docente di politica economica, è un apporto originale alla comprensione del perché e del come è nata la crisi; l’originalità consisterebbe nel fatto che l’economista dell’Università della Calabria rovescia l’affermazione dei conservatori “secondo i quali tutto il male viene dal Welfare State che andrebbe superato mentre è stata proprio la mancata comprensione degli ulteriori radicali cambiamenti che la sua stessa crisi imponeva a provocarne il definitivo disastro”. Secondo Mazzetti, infatti, la crisi che si dimostra difficile da superare scaturirebbe proprio dal fatto che la politica economica welfarista ha raggiunto il proprio obiettivo che “era quello di far affacciare la società su un mondo non più dominato dalla penuria”; proprio per questo, il welfarismo avrebbe prodotto “un insieme di problemi nuovi, la cui natura i conservatori non riescono neppure a immaginare”. Tra le vittime dell’incomprensione vi è la sinistra, perchè, non sarebbe riuscita a far fronte alle pratiche conservatrici con cui è stata indebolita, se non rimossa, la posizione di forza che i lavoratori avevano acquisito col welfare.
Mazzetti ricorda che la classe operaia aveva conquistato la sua posizione di forza dopo che i keynesiani erano riusciti, nel secondo dopoguerra, a far prevalere l’idea che non fosse possibile superare il problema della disoccupazione strutturale attraverso le sole libere e spontanee forze di marcato; essi erano riusciti a far accettare la proposta che il problema della disoccupazione potesse essere risolto attraverso un crescente intervento della spesa pubblica, “per creare un lavoro che sostituisse quello che le imprese eliminavano con l’innovazione tecnologica e l’abbattimento dei costi di produzione, ma che poi […] non sapevano più riprodurre”. Sennonché, dopo i “gloriosi trent’anni” 1945-1975”, la dinamica economica ha incominciato a cambiare e le politiche welfariste, che avevano concorso a migliorare le condizioni distributive all’interno delle economie di mercato, hanno incominciato ad affievolire i loro effetti.
Di fronte alla nuova situazione, le classi politiche dei Paesi capitalistici sono sprofondati in uno “stato confusionale” che si è accompagnato alla crescente propensione, sostenuta dal “ritorno” di una cultura neoliberista, al contenimento della precedente espansione della spesa pubblica; ciò perché il crescente aumento di quest’ultima aveva fatto “precipitare – afferma Mazzetti – la società in un vero e proprio stato di narcosi”, dimenticando che il nucleo delle rivoluzione sottostante all’affermarsi del welfare “stava nel riconoscimento del fatto che l’atto sociale per eccellenza nella società capitalista è la spesa”.
Dopo la prima metà degli anni Settanta, secondo Mazzetti, è andato in crisi il principio del moltiplicatore keynesiano, a causa del riproporsi del problema che aveva creato instabilità per le economie capitaliste tra le due guerre del secolo scorso, ovvero della tendenza alla sovrapproduzione strutturale; ciò perché, per quanto la spesa pubblica continuasse ad aumentare, gli effetti sul settore privato di sono affievoliti, per cui l’aumento del PIL ha preso a diminuire. A seguito di ciò, lo Stato si è trovato nella difficoltà crescente di reperire le risorse per finanziare il livello necessario della spesa pubblica; sarebbe così iniziata la crisi perché “non si è saputo affrontare questo problema e la soluzione adottata, con buona pace di gran parte della sinistra, è stata di natura regressiva”.
La crescita della spesa, cui non corrispondeva più l’aumento multiplo del reddito, ha provocato la formazione di crescenti deficit correnti nel bilancio pubblico. Poiché lo Stato è stato costretto a tagliare le sue uscite, senza che i tagli fossero compensati dalla spesa del settore privato, è stato inevitabile che l’attività produttiva si contraesse e aumentasse la disoccupazione. Tutto ciò, secondo Mazzetti, sarebbe accaduto, non perché mancassero le risorse da destinare al finanziamento della spesa pubblica, ma perché i soggetti economici hanno interiorizzato una limitazione della propensione a cooperare; limitazione che si è tradotta in ultima analisi in una riduzione della spesa pubblica, dalla quale è derivata la mancanza di risorse.
Ma perché – si chiede Mazzetti – è accaduto che alla mancanza di risorse non è stato possibile contrapporgli una politica pubblica che in qualche modo consentisse il suo superamento, sia pure finanziando la spesa pubblica in deficit del bilancio dello Stato? La risposta di Mazzetti è che il ritorno del pensiero neoliberista ha portato al ricupero del principio che lo Stato possa spendere per generare una domanda finale, ma possa farlo solo se le risorse erogate vengono ricuperate; questo principio però, sempre secondo Mazzetti, elude il problema che la società ha di fronte, “perché il fatto è che da un certo livello in poi lo Stato non rientra delle sue spese, e se vuole soddisfare i bisogni primari della società, o comunque evitare la disoccupazione, deve operare in deficit”. Tutto ciò, però, lo Stato può farlo, solo se lo strumento con cui è espresso il valore delle risorse, cioè il denaro, esprime un potere sociale sul prodotto; senza “sovvertire il mondo” – afferma Mazzetti – ciò può avvenire se tutti i gruppi di soggetti economici (capitalisti e non) accettano di cooperare, in considerazione del fatto che la natura del denaro è proprio “quella relativa all’instaurarsi di una cooperazione generale tra gli esseri umani”.
Quando questa cooperazione, per via del predicato dell’individualismo su cui è fondato il liberalismo in generale e, in particolare, il cosiddetto neoliberalismo, incontra l’ostacolo dell’interpretazione del ruolo e del significato individualistici del denaro, propria del libero mercato caratterizzato da una generalizzata competizione tra tutti gli operatori che in esso operano ed agiscono in funzione dei propri interessi, è inevitabile l’insorgere di una crisi dalla quale il sistema sociale non riesce a sottrarsi ricorrendo alle politiche pubbliche tradizionali. Per Mazzetti, perciò, è solo battendo l’individualismo sfrenato, per sostituirlo con la cooperazione tra tutti gli esseri umani che può essere ricuperata la possibilità di rilanciare la crescita e lo sviluppo. Ma tutte le parti sociali, inclusi i partiti della sinistra, mancando di capire le cause della crisi hanno scelto di percorrere sentieri diversi, che condurranno l’intera società verso un inevitabile impoverimento. Per questo – conclude Mazzetti – è essenziale che tutti si fermino per cercare di capire, prima che si troppo tardi, la reale natura della crisi.
L’analisi di Mazzetti, per quanto condivisibile sul piano degli intenti, si presta poco a consentire di fare immediatamente qualcosa per lenire gli esiti negativi della crisi sul piano sociale. Il principio della cooperazione, sorretto dall’accettazione dell’idea che il denaro rappresenti il mezzo attraverso cui esercitare il potere sociale sulla produzione, è del tutto estraneo alle regole di funzionamento dell’economia capitalistica; ciò significa che la fuoriuscita dalla crisi senza “sovvertire il mondo” capitalistico, facendo appello ad un’improbabile cooperazione tra i soggetti economici nel decidere il livello della spesa complessiva, si riduce solo ad un esercizio ideologico. E’ dubbio, tra l’altro, che la forma d’intervento dello Stato prefigurata da Keynes affermi implicitamente il potere sociale del denaro sulla produzione; il moltiplicatore keynesiano non era che lo strumento volto ad assicurare una configurazione di pieno impiego delle risorse disponibili inoccupate, con l’implicita assunzione che lo Stato potesse sempre ricuperare le risorse utilizzate per il finanziamento della sua spesa.
Semmai, l’affermazione è da ricondursi al pensiero keynesiano successivo, le cui logiche d’intervento pubblico hanno prodotto nel lungo periodo effetti che hanno dato fiato alle trombe dei conservatori neoliberisti; ciò in considerazione del fatto che quelle logiche, oltre ad essere contestate dai conservatori, lentamente hanno mostrato in modo crescente il limite di non riuscire a stabilizzare il funzionamento del sistema economico, in quanto, come ha evidenziato Wolfgang Streeck, sono servite solo a “comprare tempo”, cioè a rinviare il momento dello “scoppio della crisi”.
Tenuto conto delle considerazioni critiche appena svolte, l’anali proposta da Mazzetti non sembra suggerire una valida prospettiva di azione per fuoriuscire dalla crisi; ciò perché l’intera analisi fa riferimento ad un meccanismo di stabilizzazione del funzionamento del sistema economico, il welfare, che già alla fine della prima metà degli anni Settanta del secolo scorso avena esaurito la sua efficacia; per cui, non solo i lavoratori hanno perso la posizione di forza che avevano acquisito nei trent’anni precedenti, ma anche la sinistra ha smarrito l’orientamento della sua azione, limitandosi a difendere senza successo ciò che restava delle vecchie conquiste. Se così stanno le cose, la crisi può essere superata, non attraverso una riproposizione del vecchio welfare, fondata su improbabili rapporti collaborativi tra i soggetti economici, ma attraverso una sua riforma ab imis, realizzata in funzione del perseguimento di un’equità distributiva alternativa a quella realizzata col sistema dello Stato sociale tradizionale; rispetto a una simile riforma, la sinistra ha sempre mostrato il più totale disinteresse, riducendosi a “mosca cocchiera” dei conservatori e, perciò, a non contare più nulla nei processi decisionali collettivi.

Immagine da theglobalpanorama.com

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI