Deu Ci Seu, un film politico che vuole unire la Sardegna

14 Ottobre 2023

[Roberto Loddo]

Deu Ci Seu, docufilm sullo spareggio tra Cagliari e Piacenza del 15 giugno 1997 a Napoli firmato dai tre giovani autori cagliaritani, Michele Badas, Michele De Murtas e Nicolò Falchi non è un film che parla di calcio.

Un film politico. Prodotto da Il Circolo della Confusione e dall’Istituto Etnografico Sardo con il contributo della Regione Sardegna, il supporto della Sardegna Film Commission e la collaborazione del Cagliari Calcio, il docufilm racconta la storia della madre di tutte le trasferte per il mondo del tifo rossoblù. Il racconto di un viaggio di coraggio e speranza per sostenere la squadra all’epoca guidata da Carlo Mazzone, che per non retrocedere in serie B aveva disperatamente bisogno della vittoria. Una vicenda appassionante che fa parte della nostra storia, e che attraverso le voci dei ventimila tifosi sardi verso Napoli ci ricorda le condizioni culturali e sociali che la nostra isola vive ancora oggi. Deu Ci Seu è un film squisitamente politico. Che racconta, certo, la storia dell’esodo di un pezzo di società sarda che si mobilita per sostenere uno dei simboli della propria identità. Ma analizza, riflette, evidenzia le contraddizioni violente e autoritarie di un’isola delle disuguaglianze.

Che cosa rappresentava quel 15 giugno? Alcune personalità intervistate lo spiegano molo bene nel docufilm. Se guardi la Sardegna dalla tua quotidiana dimensione sociale interna, non ti accorgi del processo di neo-colonizzazione in atto. Agli occhi più attenti osservatori, forse sì. Se la guardi da fuori, da un occhio esterno, come ricorda il cantante e attivista Michele Atzori, ti sembra una situazione disastrosa e surreale. La criminale assenza di collegamenti interni, di continuità territoriale verso l’Italia e l’Europa, la mercificazione crudele ai danni delle cittadine e dei cittadini sardi delle tariffe navali ed aeree, l’assenza di tratte decenti.

Liberos, rispettados, uguales. Se poi a questo si aggiunge la percezione di ogni persona che in Sardegna vive sulla propria pelle la violenza di un modello di sviluppo economico sbagliato, selvaggio e velenoso, è facile rimanere in silenzio, ma è impossibile non accorgersene. A meno che si non faccia parte della ristretta oligarchia politica e imprenditoriale che gode dello sfruttamento e dei benefici di uno scambio storicamente disuguale di industrie inquinanti, sfruttamento e occupazione militare. I giorni precedenti al 15 giugno del 1997 hanno rappresentato una rottura della percezione di cittadini trattati come gli altri. Quella rabbia, quel coraggio, quel senso di unità che sbarcò a Napoli nel 1997 non nasce a caso, non nasce solo dalla voglia di stare in seria A. Nasce dalla consapevolezza che siamo una collettività nazionale che voleva le rose della serie A ma pretendeva anche il pane dell’uguaglianza, o, per dirla con le parole del poeta Peppino Mereu: “senza distinziones curiales devimus esser, fizzos de un’insigna, liberos, rispettados, uguales”.

Quindi tifo e sovranismo? No grazie. Per collettività nazionale non intendo la visione etno-nazionalista, razzista e suprematista (che purtroppo esiste anche a casa nostra) legata al destino magico di un popolo in relazione alla terra e al sangue. No. Nulla di tutto questo. Si può riconoscere la propria identità anche allargando l’orizzonte dei punti di vista e misurandolo con nuove contaminazioni, anche di matrice femminista, meridionalista e post-colonialista in grado di decostruire le produzioni identitarie legate ai meccanismi di potere e rapporti di dominio. Penso a Filosofia de Logu, all’ANS, l’Assemblea Natzionale Sarda e per andare fuori dalla nostra isola la femminista siciliana Claudia Fauzia, la storica Carla Panico e lo scrittore Christian Raimo.

La curiosa condizione del non poter essere italiani. Nell’atteso giorno di rientro a Cagliari le 20 mila persone della trasferta rossoblù non sono rimaste sole. Nel porto di Cagliari c’era una marea umana in festa ad accogliere il ritorno delle navi. Ecco, è proprio questa marea umana ad aver rotto uno storico tabù. L’incontro tra coloro che sono andati fuori dalla Sardegna e coloro che sono rimasti a sperare la salvezza, a sperare che vada tutto bene per i propri cari trattati come cittadini di serie B, come non italiani. Le condizioni di vita indegne su quelle navi e la qualità della repressione violenta utilizzata dai manganelli della polizia e da una parte dei tifosi napoletani, ci racconta un’altra storia. Una storia di solidarietà tra persone costrette a vivere la negazione dell’identità.

Aprire gli occhi con una partita di calcio. La rottura del tabù dell’identità negata poteva arrivare in qualsiasi momento. Lo stato italiano decise di romperlo attraverso la mala organizzazione di una partita di calcio. Ci siamo accorti, come al risveglio da un brutto incubo, che noi persone della Sardegna possiamo praticare il cambiamento dell’ordine delle cose esistenti solo se apriamo gli occhi sul nostro non essere italiani. O meglio, sul nostro non poter essere italiani a causa delle condizioni di un processo, mai concluso, di lento ma soffocante processo di centralismo politico e culturale.

Perché siamo tutte e tutti Marco Moi. Al racconto collettivo dell’esodo sardo si interseca la vicenda personale di un ragazzo all’epoca disoccupato di Seui. Marco Moi non poteva permettersi il costo del viaggio e così si offre di portare a Napoli lo striscione del Cagliari Club del suo paese in cambio di un biglietto. Marco, come spiegano gli autori del film “sarà il protagonista dell’evento principale che scatenerà i disordini in cui verranno poi coinvolti i tifosi sardi”. La sua storia personale riassume l’intera epopea dei tifosi sardi e questo fa di lui la migliore sintesi ed espressione del deu ci seu.

Deu ci seu, oggi. L’espressione e il significato politico del deu ci seu dovrebbe valere ancora oggi a fronte di una rinnovata consapevolezza delle nostre condizioni sociali, politiche e culturali. Deu ci seu, oggi, significa rivendicare strumenti di autogoverno e autodeterminazione, significa rivendicare un nuovo patto costituzionale che lega la Regione Autonoma della Sardegna allo Stato italiano sulla base delle nostre condizioni che peggiorano di giorno in giorno considerando un indice di povertà relativa passato dal 13,9% del 2020 al 16,1%. Il 2,2% in più. Circa 110mila famiglie sarde sono in grande difficoltà e il resto delle dimensioni della nostra società non se la passa meglio. Per questo motivo, deu ci seu, dovrebbe unire i conflitti sociali esistenti in Sardegna per rivendicare un patto costituzionale che possa accogliere un nuovo modello di sviluppo basato sull’uguaglianza.

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