Distretto Kurdistan

8 Febbraio 2023

[Francesco Maria Costa]

La mia anima non è divisa in due, ma in tre.

Accanto al mio passaporto, vivono di loro vita due lasciapassare, rilasciati per i medesimi territori da due autorità non solo belligeranti, ma che addirittura si negano reciprocamente, con differenti portati di ragione, la legittimità all’esistenza.

Definire quella del sergente maggiore Lubkoff delle forze armate bulgare una colonna corazzata è forse un azzardo. Lui fa parte dell’equipaggio di un autoblindo pesante che apre la colonna, poi c’è il nostro pulmino da gita scolastica, ed infine due fuoristrada scoperti con armamento leggero.

Mi pare una banalità, ma trovo difficile comunque pensare che un uomo massiccio come il sergente maggiore possa stare nell’abitacolo minuscolo del mezzo. Sembra starci comunque perfettamente, e la sua  cordialità e cortesia lascia spiazzati.

Ci muoviamo, da una squallida periferia post operaia di Djabajnkir dov’è l’appuntamento, in una mattina gelida con un forte odore di diesel proveniente dai motori vibranti ed un po’ ansimanti. Lubkoff invita qualcuno di noi a stare nell’abitacolo, e mi guarda con pericolosa insistenza. Decido alla fine di declinare, ma non sembra offeso.

Subito fuori dalla città la strada si riduce da quattro a due corsie per poi procedere con numerose curve in salita  in una valle stretta che non posso fare a meno di  pensare ideale per un agguato. Peraltro ci rassicura e mi rassicura il pensiero che le forze di interposizione sono, o dovrebbero essere, al servizio di tutti.

Dopo  poco più di un’ora accade un fenomeno per certi versi enigmatico, di cui poi mi scorderò di chiedere spiegazioni.

Al villaggio di Karakoren (un toponimo che dalla Bosnia sino alla Cina significa Monte Scuro, e che qui è meritatissimo), il sottufficiale bulgaro decide di fare una sosta. Gli abitanti del Villaggio – certamente preventivamente avvisati –  lo attendono con mazzi di rose cinesi che depositano sopra l’autoblindo. Il comandante sembra sinceramente commosso, e gli abitanti del villaggio ci invitano a scendere dal pulmino per mangiare un dolce o un pezzo di frutta.

Qualunque cosa sia successa, il comandante bulgaro è sinceramente amato in questo piccolo villaggio che non è ancora apertamente Kurdistan, ma  sicuramente non è più Turchia.

Con la fine del Sultanato e del Califfato, Ataturk scambiò la grandezza imperiale con la coesione nazionale della Piccola Turchia.

I Curdi erano tollerati in quanto rozzi “Turchi delle Montagne”.

I Greci, quali poveri esponenti, da mostrare, di una debole e corrotta etnia sconfitta e scacciata. E così via.

Se davanti al Sultano tutti erano uguali, purchè obbedissero alla sua legge, il mostro nazionalista esigeva, ed esige, i suoi riti, i suoi sacrifici, le sue ipocrisie.

Ma i Curdi non sono e non si sentono così.

Incredibilmente, queste persone vivono di niente. O meglio, vivono del corroborante estremo della propria dignità.

Passare una notte in un loro campo è un’esperienza enciclopedica. Le grandi tende con dieci o venti  pagliericci, la fioca luce, il dawu e l’amicizia che scorre forte con le chiacchiere.

Ogni tanto una esplosione lontana, o una raffica più vicina. Fortunatamente solo ballons d’essai, che tengono viva una tensione che nessuno veramente, tantomeno i soldatini turchi smarriti e non motivati di fronte a una realtà di cui nessuno aveva loro parlato, vuole che esploda.

Ma la notte sei solo, ed allora anche le coraggiose donne e i coraggiosi uomini armati che ti dovrebbero proteggere, dormendo a pochi metri da te con il respiro lieve e regolare appaiono indifesi, rispetto ad un conflitto che ha assunto proporzioni globali ed incomprensibili.

Sotto gli occhi, sempre ciechi, dell’Occidente.

Lontano sento il piangere ansimante e rauco  di un neonato, affetto da una qualche broncopneumopatia. Lungo le ore sempre più debole e ansimante, sino al silenzio.

È il momento in cui prego con tutte le mie forze che si sia semplicemente addormentato.

In una terra sfortunata, al più basso grado dell’esistenza, trattati quasi peggio dei cani randagi, vi sono i profughi dei territori ex ISIS.

Bambini e donne vittime del nulla, respinti da tutti, persino presi in giro per gli abbigliamenti antiquati e la sporcizia , bambini di quattro, cinque  anni o anche meno  sono destinatari di un odio e di un disprezzo che non riescono a capire e che guardano con stupore o infantile rancore.

Laceri  e maltrattati,  sono costretti a vivere con le loro madri o sorelle (sulla sorte dei combattenti ISIS è meglio non indagare troppo), altrettanto maltrattate, in campi provvisori recintati ai margini delle strade e della storia,  dove la guardia armata è costituita dai guerrieri curdi che spesso hanno subito selvagge torture e stragi da parte dei  padri o mariti di chi custodiscono .

Si tratta di campi non censiti, dove gli aiuti internazionali non arrivano, e la unica fonte di sopravvivenza per gli occupanti sono gli avanzi delle razioni internazionali, la unica fonte di illuminazione è rappresentata da lampade a gas o fornelli spesso difettosi, che esplodono mandando a fuoco una o più tende.

Cosa ne sarà di questa umanità sofferente è impossibile capirlo. Cosa saranno una volta cresciuti, se pure cresceranno, questi poveri bambini è impossibile saperlo.

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