El baño de Frida

1 Gennaio 2008

El baño de Frida
Antonio Mannu

Villasor, centro del Campidano poco distante da Cagliari, é il luogo in cui, nel 1985, nasce la cooperativa teatrale Fueddu e Gestu. Dal 92 il gruppo ha un suo teatro, dove gli attori svolgono le loro attività e in cui si organizzano spettacoli e rassegne. Recentemente il Centro Teatrale Fueddu e Gestu ha ospitato una serie di spettacoli di musica, danza e teatro dedicati alla figura di Frida Kalho, la pittrice messicana che fu tra le protagoniste di una vivace stagione intellettuale ed artistica, vissuta in Messico tra le due guerre mondiali. La rassegna dedicata a Frida Kalho si è conclusa con uno spettacolo del gruppo organizzatore, intitolato “Frida che nacque due volte”. Ma oltre che con il teatro, la musica e la danza, Villasor ha ricordato Frida Kalho anche attraverso la fotografia, precisamente con la mostra della fotografa messicana Graciela Iturbide, che alla pittrice del suo paese ha dedicato un lavoro intenso e delicato, interamente realizzato all’interno della stanza da bagno di Casa Azul a Coyoacan, la residenza privata di Frida Kalho.
Oggi Casa Azul è diventata un museo, consacrato all’artista e alla sua opera pittorica “El baño de Frida”, questo è il titolo della mostra della Iturbide, è stato riaperto per la prima volta nel 2005, a 51 anni dalla morte della pittrice. Non ne abbiamo certezza ma, anche dalle immagini, ci è parso che sia stata aperto proprio ad esclusivo beneficio dello sguardo, tenero e visionario insieme, della fotografa. Lei, durante due distinte settimane di lavoro, ha prodotto due versioni del “baño de Frida”: una a colori, a suo tempo proposta alla National Gallery of Art di Washington, e la versione in bianco e nero, presentata a Villasor in anteprima europea, presso il foyer del teatro Fueddu e Gestu. L’incontro tra la fotografia di Gabriella Iturbide e quello spazio particolare, intimo e personale, di Frida Kalho che, affetta dalla poliomielite sin dall’età di cinque anni, poi coinvolta in un disastroso incidente stradale nel 1925, trascorreva nella stanza da bagno lunghe ore, particolarmente al mattino, da vita ad un racconto che attraversa il mondo di due donne: quello privato e doloroso di Frida Kalho, che si dipana nelle sedici fotografie di piccole dimensioni, circondate dal bianco spazio del passe-partout; una scelta che invita a guardare attentamente, avvicinandosi alle immagini in cui sono ritratti gli oggetti quotidiani della vita di Frida: la protesi di una gamba, i suoi corpetti, busti e corsetti, una borsa calda, stampelle, alcuni animali impagliati e dei camici ospedalieri che, in questa versione in bianco e nero del lavoro, sono segnati da macchie scure, probabili tracce dei colori usati dall’artista. E il mondo interiore di Graciela Iturbide, la cui vita è stata segnata anch’essa dal dolore per la perdita di un figlio. Durante la visita alla mostra abbiamo incontrato Antonia, un’amica che ha avuto il piacere di accompagnare la fotografa messicana durante un suo recente passaggio in Sardegna. Antonia ha raccontato un episodio che dice tanto sulla natura della sensibilità della fotografa messicana, così palese nei risultati. Esiste un autoritratto di Graciela Iturbide di forte impatto, barocco ed inquietante, in cui la fotografa, il viso aperto alla luce, rivolto al cielo, appoggia sui suoi occhi due uccelli impagliati, resti morti e conservati per un tempo finito, più lungo di quello in cui si sarebbero dissolti e trasformati naturalmente. Antonia ha chiesto a Graciela il perché di quell’immagine: “Ho perso un figlio, era la luce dei miei occhi. Con la sua morte la luce é andata via, in certo senso son diventata cieca: quell’immagine è stata il mio modo di dirlo alla maniera in cui io racconto, con la fotografia”. La morte, cercata e fotografata al lungo esplicitamente, è stata ed è uno dei temi centrali della ricerca fotografica della Iturbide. In un’intervista racconta: “C’é stato un tempo in cui avevo l’ossessione di fotografare dei bambini morti. Una volta mi trovavo in un luogo, Dolores Hidalgo, al seguito di una famiglia che andava a seppellire una bambina. All’ingresso del cimitero trovammo un cadavere abbandonato, in mezzo al viale che attraversava il cimitero. Fu come se la morte mi dicesse: “smettila con questa ossessione, sono qui”. Mentre la famiglia proseguiva il rito della sepoltura cominciarono ad arrivare degli uccelli. Fu un momento speciale (…). Ho continuato a fotografare la morte, però camuffata nei teschi di zucchero, nelle feste popolari dove appare imbarazzata, infantile e giocherellona. La morte ludica”. “El baño de Frida” è in effetti un lavoro sulla morte, mascherata nei ricordi di una stanza da bagno, che si trasforma in un deposito di segni e sogni arcaici, dove i corsetti si trasfigurano in scheletri di volatili preistorici, e preistorici sembrano i piedi di Iturbide dentro la vasca di Frida, in un autoritratto-rifacimento fotografico di un’ opera celebre della pittrice. Così almeno ci sono sembrate le cose della vita di Frida nelle fotografie di Graciela. La mostra, ospitata a Villasor sino al 30 di dicembre, verrà riproposta a Roma nella primavera del 2008.
** Fino al 10 di gennaio sarà invece possibile visitare, all’interno della casa forte di Villasor, “The Villasor Factory”, una proposta del sardo Salvatore Ligios. Si tratta di un lavoro molto diverso da quello di Graciela Iturbide, ma che nasce anch’esso da un’intreccio con il percorso del gruppo teatrale Fueddu e Gestu, pur se in questo caso si tratta di un episodio casuale e quasi marginale: tutto comincia dal dono di una maschera realizzata da Giampietro Orrù, regista della compagnia, una maschera di scena con fattezze equine che desta la curiosità di Salvatore Ligios. Un’ispezione all’interno del deposito di materiali del gruppo teatrale gli fa scoprire molte altre maschere, tutte realizzate da Orrù. Nasce così l’idea di realizzare un gioco fotografico, che strizza l’occhio alla pittura, alla letteratura e al teatro. E difatti i titoli delle fotografie richiamano, alcuni in modo esplicito, altri in maniera più criptica, opere ed autori: così “Ulysses” è un’ omaggio a James Joyce, e “Xantisceddu” è un pensiero rivolto ad un amico, appassionato di cultura e letteratura classica greca, e trasversalmente ad Omero, attraverso la creazione del diminutivo di Xantos, cavallo di Achille. Mentre “Dal Grand Tour: festa campestre a Las Plassas” è una citazione di un’ opera pittorica di Giuseppe Biasi. Le maschere e il mascheramento sono però anche una sorta di metafora della fotografia, mescola anch’essa, come le maschere, di vero e di falso, rappresentazione di porzioni del reale, di ciò che si vede davvero, attraverso il velo trasparente delle lenti, attraverso il velo, non sempre trasparente, delle idee di chi fotografa. Nel breve testo introduttivo del catalogo realizzato per l’occasione, Ligios parla del progetto e dice, tra le altre cose, che: “la produzione delle immagini segue il cammino dei precedenti lavori fotografici: mettere insieme e far circolare suggestioni raccolte nel mondo che mi circonda. Tra passato e presente, tradizione locale e immaginario contemporaneo, lo sviluppo del racconto segue le passioni personali: dalle frequentazioni letterarie agli incontri occasionali, dai flash ricavati da amori per l’arte agli scarti di lavorazione da ozio creativo, dall’ex impegno politico alla voglia di contrastare il buco nero della teledipendenza. Insomma un normale procedere quotidiano da homo sapiens. Con il solo obiettivo di parlare di fotografia.” C’è di tutto e di più nel calderone in cui l’autore cucina i suoi menu fotografici, qualsiasi tema è utile alla bisogna, e difatti Ligios negli anni ha effettuato incursioni in territori molto diversi, dal ritratto al paesaggio, dal simil reportage alla fotografia equestre Tra le dodici immagini costruite da Ligios per questo suo racconto in maschera, sono i ritratti di personaggi singoli, con tagli stretti sui soggetti, che ci sono sembrate più riuscite e convincenti, come i citati “Ulysses” e Xantisceddu” e l’ambiguo e intenso “Il suonatore di canna”. Tra le immagini ambientate, è interessante una fotografia notturna, realizzata tra le strade e i lampioni di un paese , Bitti, e intitolata “Cuenteras” (chiacchierone, narratrici). Si tratta di un gruppo di notturne femmine rapaci dedicato al paese dove un ramo della famiglia di Ligios ha le radici.
“The Villasor Factory” potrà essere visitata sino al 10 di gennaio. L’ingresso è gratuito; apertura tutti i giorni, escluso il lunedì, dalle ore 16.30 alle 20.30.

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