I limiti del Sistema Sanitario Nazionale e la necessità di una sua riforma

16 Aprile 2019

Walter Ricciardi

[Gianfranco Sabattini]

Walter Ricciardi, già Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, in “La battaglia per la salute”, dopo un breve excursus sui “trionfi” che la scienza medica ha conseguito nel corso del XIX secolo e sui suoi apporti alla cura di gravi e diffuse malattie che affliggevano l’umanità, illustra puntualmente il processo attraverso il quale è stato organizzato nei Paesi economicamente avanzati il sistema di offerta dei servizi sanitari; Però egli osserva come, nel tempo, tale sistema sia divenuto complesso, costoso e largamente insufficiente, non solo rispetto alle esigenze del mondo contemporaneo, ma anche all’evoluzione in atto di alcune variabili economiche e sociali, i cui effetti impongono sin d’ora, in particolare in Italia, la necessità di una riforma.

Fino al XX secolo, afferma Ricciardi, “la medicina poteva fare veramente poco per i propri pazienti”: non erano disponili strumenti diagnostici adeguati, i farmaci erano poco efficaci, le tecniche chirurgiche largamente arretrate e la formazione del personale medico eterogeneo e poco appropriato. E’ stato il XX secolo quello durante il quale sono state compiute le “prime grandi conquiste”, registrate “nel settore delle diagnostica, nella capacità di identificare alterazioni prima macroscopiche degli organi e poi microscopiche a carico di cellule e tessuti”. Dalla radiologia basata esclusivamente sui raggi X, scoperti alla fine del XIX secolo, si è passati, prima alla più sofisticata “tomografia assiale computerizzata” (TAC) e, successivamente, alla “risonanza magnetica computerizzata” (RMN), cui si sono associati anche altri strumenti diagnostici importanti. Parallelamente a tali progressi tecnico-scientifici, anche le tecniche chirurgiche si sono sempre più affinate, mentre la scoperta di nuovi farmaci ha reso possibile l’allungamento e io miglioramento delle vita di milioni di persone

Oggi si hanno a disposizione attrezzature sofisticate che, se per un verso hanno reso possibili preziose prestazioni mediche per i pazienti, per un altro verso possono essere utilizzate solo attraverso l’organizzazione di un sistema sanitario altamente complesso sul piano gestionale. Per questo motivo, nel mondo contemporaneo la sanità è divenuta uno dei settori più costosi da governare; complessità e gestione che, a parere di Ricciardi, in Italia sono affrontate in modo inadeguato, dando origine a difficoltà strutturali, consistenti “nel ritardo culturale, organizzativo e gestionale che caratterizza oggi nel nostro Paese le strutture sanitarie”, causando un aumento continuo dei costi e la crisi del nostro Sistema Sanitario Nazionale (SSN).

Le difficoltà strutturali sono emerse soprattutto dopo l’inizio della grande crisi finanziaria che ha colpito il Paese a partire dal 2007/2008, non solo per quelle interne afferenti la debolezza intrinseca al sistema economico nazionale, ma anche per le difficoltà causate dal ridimensionamento delle prestazioni sanitarie, a causa della politica di austerità imposta al Paese dalla cosiddetta “Troika” (Commissione Europea, Banca Centrale europea e Fondo Monetario internazionale). L’austerità ha comportato, infatti, tagli al Fondo Sanitario Nazionale, rendendo insufficiente l’attività del SSN. L’Italia, ricorda Ricciardi, è tra i Paesi che, nel campo della sanità, “hanno pagato a più caro prezzo gli effetti della crisi”; come nel Regno Unito, il nostro Paese ha “registrato il tasso di mortalità più rilevante del secondo dopoguerra e la mancanza di personale ha prodotto situazioni di disagio inaudite”, sia nella gestione dell’emergenza, che nell’attuazione degli interventi gia programmati. Inoltre, a causa proprio dell’assetto del SSN, con le regioni responsabili della gestione dei propri servizi sanitari, la diminuzione della spesa sanitaria ha determinato in Italia una pluralità di deficit dal lato dell’offerta delle prestazioni mediche. A parte l’aumento dei costi di gestione, in alcune regioni il deficit organizzativo dell’offerta dei servizi “ha creato una crescente difficoltà da parte di migliaia di cittadini ad accedere a prestazioni anche essenziali”, il cui risultato è stato un “progressivo aumento delle morti evitabili e una diminuzione dell’aspettativa di vita alla nascita dei cittadini”; quest’ultima, in particolare, è divenuta in molte regioni meridionali notevolmente inferiore rispetto a quella delle regioni centro-settentrionali. Lo Stato sociale welfarista, elaborato nella prima metà del XX secolo ed attuato all’inizio della seconda metà, e che era basato su un meccanismo di solidarietà reso operante da una politica di ridistribuzione del prodotto sociale (dai ceti “ricchi” a quelli “poveri”, dalle classi “giovani” a quelle “vecchie”, dagli occupati ai disoccupati e dai soggetti “sani” a quelli “malati”), “è entrato in una profonda crisi”, da cui il Paese ha difficoltà ad uscire, a meno che non si reagisca “in modo rapido ed efficace”. Ma come? Prima di rispondere all’interrogativo, Ricciardi traccia brevemente la storia della nascita del SSN italiano, delle riforme e dei correttivi sbagliati che vi sono stati apportati dopo la sua costituzione, nonché delle conseguenze negative prodotte ai danni dell’unità socio-politica del Paese.

A parere di Ricciardi, la costituzione del SSN nel 1878 “è forse il provvedimento legislativo che ha cambiato più in profondità e in meglio la vita degli italiani”; gli indici confermano realmente l’affermazione dell’ex Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità; prima del 1978, in Italia morivano più di 20 neonati su 1.000 nati vivi, contro i 9 o poco più della Francia e della Svezia; inoltre, 30 bambini su 1.000 morivano prima del compimento del primo anno di vita, contro i dieci della Svezia e i 15 della Francia. Attualmente, la mortalità neonatale italiana è di 2,1 su 1.000, contro l’1,3 della Finlandia, e quella infantile di 2,8, su mille contro l’1,9 degli scandinavi. Ma la vera cesura rispetto al passato è stata realizzata dall’Italia nella crescita dell’aspettativa di vita dei propri cittadini: “un cittadino italiano che nasce oggi – afferma Ricciardi – può aspirare di vivere 81 anni se maschio e 85 se femmina”; prima del 1974, l’Italia occupava, nella graduatoria rispetto all’aspettativa di vita nei Paesi industrializzati, l’ultimo posto, mentre oggi è tra i primi al mondo.

Tuttavia, rispetto agli indici sopra ricordati, l’Italia accusa al proprio interno marcate differenze; sebbene queste siano state in parte ereditate dalla situazione precedente l’unificazione politica, e tradottesi poi nella “Questione meridionale” (con le regioni del Nord “ricche” e sviluppate e le regioni del Sud “povere” ed arretrate), in campo sanitario la differenza non era profonda, nel senso che, per alcune regioni meridionali, gli “indicatori di salute” erano migliori di quelli delle regioni settentrionali. Dal 2001, però, le differenze in campo sanitario tra le regioni del Nord e quelle del Sud si sono approfondite, perché mentre “i fattori di rischio che portano gli italiani ad ammalarsi, e a morire, sono aumentati in tutte le regioni italiane in modo abbastanza simile, la capacità di risposta sia preventiva che curativa si è differenziata in modo abissale”. Il peggioramento è avvenuto anche in seguito alla modifica del Titolo V della Costituzione, a seguito della quale è stato affidato alle regioni il compito “di organizzare e gestire il proprio sistema sanitario, lasciando alle strutture centrali – in primis il Ministero della salute – esclusivamente tre compiti: effettuare la programmazione, determinare le prestazioni da garantire a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro residenza […] e finanziare i servizi con un meccanismo di quota capitarla, cioè un importo predefinito per ciascun cittadino”.

Se il risultato è stato positivo per i cittadini delle regioni le cui amministrazioni hanno gestito in modo adeguato la risposta alla sfida delle complessità del settore sanitario, per i residenti delle regioni meridionali, “gestite in modo inefficace e inefficiente le conseguenze sono state drammatiche”. Ricordando che oggi quasi il 90% degli italiani si ammala per patologie causate prevalentemente da quattro fattori di rischio, quali sono l’eccessiva e cattiva alimentazione, la scarsa o nulla attività fisica, l’eccessivo consumo di alcool e l’ancora diffuso consumo di tabacco, Ricciardi sottolinea come questi fattori di rischio siano aumentati in modo rilevante in tutte le regioni; ma l’incremento è stato superiore, con l’eccezione del consumo di alcool, nelle regioni del Sud, dove ha provocato un aumento delle malattie (in particolare, quelle cronico-degenerative), a cui le “strutture sanitarie meridionali non sono state in grado di dare risposte adeguate, né per quanto concerne la prevenzione, né la cura”. Tutto ciò ha determinato che, nel nostro Paese, alle tradizionali differenze economiche tra regioni del Nord e regioni del Sud si affiancassero quelle sanitarie, che hanno concorso a peggiorare il tradizionale divario territoriale del Paese.

Dal punto di vista sanitario, il peggioramento del divario si è tradotto nel fatto che chi nasce nelle regioni meridionali ha un’aspettativa di vita inferiore rispetto a chi nasce nelle regioni centro-settentrionali; per cui, secondo Ricciardi, “nascere oggi nelle regioni meridionali significa nascere in un Paese diverso, più simile alla Romania o alla Bulgaria, fanalini di coda dell’Unione Europea […]. Viceversa, nascere al Nord significa avere indicatori sanitari simili a quelli di Svezia e Germania”. Benché le disuguaglianze di salute siano un problema crescente in tutto il mondo, non esiste nei Paesi dell’Unione europpea una situazione drammatica come quella che si è consolidata in Italia nell’ultimo ventennio, con le regioni meridionali costituenti l’unica area dell’Unione dove si verifica una “costante decrescita economica, sociale e sanitaria”. Si tratta di un dato che, secondo Ricciardi, dovrebbe indurre la classe politica nazionale a riflettere, sino a decidere, nell’immediato, di inaugurare un’efficace azione correttiva. In cosa dovrebbe consistere quest’azione?

Partendo dalla consapevolezza che la sanità pubblica moderna è un sistema complesso, l’azione politica correttiva non potrà non tener conto che le “malattie del benessere” richiedono interventi articolati che considerino, sia il carattere inedito della complessità della sanità pubblica moderna, sia le sfide che il SSN deve affrontare.

Negli ultimi decenni, in tutto il mondo, hanno preso corpo due “fenomeni contrapposti”: da un lato, l’aumento dell’aspettativa di vita della popolazione (un anno di vita in più ogni quattro anni); dall’altro lato, l’aumento delle malattie croniche, che in alcuni Paesi si sono configurate come “vere e proprie epidemie”. La conseguenza di tutto ciò sarà che il SSN avrà a che fare con una popolazione più longeva, ma più malata e bisognevole di cure e di assistenza. La domanda che viene spontaneo porsi è se l’Italia, in materia di sanità pubblica, sia attrezzata, o si stia dotando delle strutture necessarie, per fare fronte alla domanda di adeguati servizi sanitari, in una situazione di crescente complessità; ciò in conseguenza del fatto che l’aumento dell’aspettativa di vita comporta un aumento della popolazione anziana, cui non si contrappone un uguale aumento della popolazione giovane, per via della diminuzione della natalità, che ha interessato soprattutto le regioni meridionali.

Tutto ciò significa, osserva Ricciardi, che in Italia, non solo aumentano gli anziani, ma aumenta anche, da tutti i punti di vista, il loro “peso” sulla società; i soggetti più anziani sono quelli esposti al maggior rischio d’essere portatori di una malattia cronica, per cui l’invecchiamento della popolazione avrà come effetto negli anni a venire ci si ammalerà e si morirà più che nel passato, per malattie (quali, ad esempio, quelle cardiovascolari, osteoarticolari, nonché quelle connesse a demenze senili e tumorali) legate all’età avanzata della popolazione. Inoltre, essendo l’aumento del benessere degli individui legato all’armonia tra la salute fisica e quella mentale, è inevitabile che il peggioramento di entrambi gli aspetti sia un’ulteriore causa dell’aumento futuro della domanda di cura e di assistenza da parte della popolazione.

Sicuramente, di fronte al previsto aumento della domanda di servizi sanitari ed assistenziali, il SSN è largamente inadeguato, con responsabilità riconducibili, secondo Ricciardi, “in modo equanime” ai diversi protagonisti del sistema: i politici, i manager, professionisti sanitari e cittadini/pazienti. Di fronte all’inevitabile crescita della domanda sanitaria, ciò che appare oggi più urgente è la ristrutturazione dell’offerta dei servizi, sorretta però da un’attività riformatrice diretta a realizzare un più funzionale rapporto tra Stato e regioni; un rapporto che, liberato dai pesanti condizionamenti della politica, possa consentire un uso più razionale delle risorse. A tal fine, il nuovo rapporto tra Stato e regioni dovrebbe essere finalizzato, per un verso, a realizzare “un’unica cabina nazionale di regia” del SSN (per una sua gestione efficace ed efficiente) e, per un altro verso, a decentrare compiti e funzioni a istituzioni che risultino il più possibile vicine ai cittadini.

E’ plausibile pensare che una simile strategia di riforma del SSN non possa essere portata avanti con successo, se non si riuscirà a contenere (e, al limite, rimuovere) l’ingerenza della politica nella gestione della sanità; un’ingerenza, questa, che l’esperienza sinora vissuta è valsa a connotare come la causa principale degli sprechi e dei ritardi accusati dalla programmazione e dall’attuazione dell’adeguamento dal SSN alle condizioni proprie dei sistemi sociali industriali contemporanei. Senza un’adeguata correzione di tale ingerenza, si rischia un’”esplosione” della futura domanda di servizi sanitari e un conseguente aumento del costo di produzione richiesto per garantirne un adeguato soddisfacimento.

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