Solitudini

16 Aprile 2019

Manicomio di Volterra, foto Marco Belardi

[Amedeo Spagnuolo]

Periodicamente rientro a Napoli, la mia città natale, e puntualmente mi ritrovo a discutere con persone curiose e intelligenti che però dimostrano, quasi sempre, di non conoscere assolutamente la realtà sarda anche perché, come ben sappiamo noi che ci viviamo, arrivare e ripartire dalla Sardegna costa un occhio della testa, ma questa è un’altra storia. Le discussioni si sviluppano, in genere, sempre intorno a delle opinioni stereotipate che si trasformano in domande che mi vengono rivolte costantemente e che si possono sintetizzare più o meno in questo modo: “certo la Sardegna è molto bella, ma troppo isolata, non la senti la solitudine? io impazzirei!”

Eccoci dunque al tema, la solitudine. Prima che arrivassi in Sardegna anche io la pensavo più o meno così e in effetti nei primi mesi del mio arrivo nell’isola dovetti faticare non poco per abituarmi alla scarsa antropizzazione dell’isola, soprattutto se confrontata con quella eccessiva della mia regione d’origine, la Campania, nella quale, in alcune aree geografiche, si vive ammassati come formiche brulicanti all’interno di un formicaio. Piano piano però, con il trascorrere degli anni, grazie all’esperienza esistenziale in questa terra dura e meravigliosa, ho cominciato a sperimentare concretamente che il concetto di solitudine è molto relativo e può essere declinato almeno in tre maniere del tutto differenti.

La prima e più nota, indagata da filosofi e letterati, è quella che riguarda la solitudine dell’”uomo – massa” cioè quel tipo d’individuo inconsapevole che subisce passivamente le dinamiche del sistema produttivo capitalistico che per sopravvivere e prosperare deve necessariamente annientare qualsiasi possibilità di socializzazione poiché la socializzazione è il primo passo verso la ribellione, mentre invece il capitale, per sua natura, tende a imprigionare gli uomini – massa nell’ossessiva dinamica efficientista e produttivista. Pensiamo, ad esempio, ai meccanismi produttivi della moderna società tecnologica, estremamente razionalizzati, come la catena di montaggio (oggi supportata da sofisticati robot che riducono i posti di lavoro e contribuiscono ad amplificare l’alienazione dei lavoratori “massificati”) delle fabbriche automobilistiche o le catene di assemblaggio di Amazon (ancora più robotizzate), nelle quali le possibilità di relazione tra i lavoratori vengono cinicamente annientate. Oppure pensiamo agli enormi condomini delle grandi metropoli occidentali nei quali pur vivendo in spazi ristretti, gli abitanti di quegli enormi alveari di cemento armato, quasi non si conoscono. Nella società di massa esistono dunque, quasi esclusivamente, non – persone che vivono in non – spazi, terribilmente sole e che trascorrono la loro vita inseguendo forsennatamente l’ideologia produttivistica, causa principale del consumo compulsivo dell’uomo – massa.

Il secondo tipo di solitudine è quello che sperimenta invece “l’individuo autentico” cioè quel tipo di uomo che è pienamente consapevole dei disastri provocati sulla sfera relazionale dell’uomo dal sistema della produzione capitalistica. Costui rifiuta tale sistema e proprio per questo viene da esso isolato in modo da indurre in lui un angosciante sentimento di solitudine che col tempo lo costringe a rientrare nei ranghi e ad “adeguarsi”. Fortunatamente, quando l’individuo autentico è dotato di qualche abilità particolare, denuncia le nefaste conseguenze del sistema capitalista, pensiamo, ad esempio, a La nausea di Sarte o a La noia di Albero Moravia, solo per citarne alcuni.

Infine, abbiamo quella che potremmo definire la solitudine “geografica” cioè quel tipo di solitudine provocata da un ambiente suggestivo e affascinante ma allo stesso tempo caratterizzato da una natura aspra e selvatica che almeno a primo acchito non risulta essere accogliente per l’uomo “civilizzato”. L’uomo moderno e tecnologicamente evoluto, abituato a vivere nelle megalopoli occidentali, posto di fronte al dilemma di dover scegliere, per una ragione oscura, una di queste solitudini, di sicuro non sceglierebbe quella causata dalla presunta ostilità della natura e dell’ambiente e, infatti, nel nostro paese, fino a non poco tempo fa, quando un superiore autoritario voleva incutere timore in un suo sottoposto gli diceva “ti sbatto in Sardegna”. Anche io, prima che il destino decidesse di traghettarmi sull’isola sarda, vivevo con angoscia le situazioni in cui mi trovavo, per qualsiasi motivo, ad attraversare ambienti naturali poco frequentati dal genere umano. Poi però, come spesso accade nelle vicende umane, l’esperienza vissuta e concreta ti porta a spazzare via certi pregiudizi e a comprendere la realtà in maniera più profonda. Nello specifico, a me accadde ciò durante la mia esperienza didattica a Orroli, paesino di 2200 anime, noto per essere la patria del superbo nuraghe Arrubiu. Nei primi giorni trascorsi in quella piccola comunità ero convinto di essere approdato in uno di quegli ambienti in cui è possibile sperimentare la “solitudine assoluta”. Voglio spiegare ciò che mi successe durante quell’esperienza “illuminante” facendo ciò che non si dovrebbe mai fare, autocitarsi, ma in questo contesto voglio tentare l’azzardo e lo voglio fare perché ritengo che ciò che scrissi qualche anno fa su quel periodo della mia vita, in una pubblicazione dedicata alla mia esperienza scolastica, fu scritta con sincerità e onestà intellettuale.

“A Orroli invece, il caso volle che le mie classi fossero formate da ragazzi straordinari, provvisti di una sensibilità fuori dal comune. Essi compresero subito il mio disagio anche perché in classe, nonostante il mio impegno e la mia passione, venivo assalito da un pensiero angosciante che mi portava a pensare con terrore al momento in cui sarebbe suonata la campana dell’ultima ora (incredibile!) e mi sarei dovuto immergere di nuovo nell’assordante silenzio del mio lugubre appartamentino, arredato con vecchissimi mobili che erano appartenuti a persone che non c’erano più. Le ore peggiori erano quelle immediatamente successive al pasto. Disperatamente cercavo di tenermi impegnato con ciò che avevo amato sempre: lo studio, la scrittura, la musica, ma dopo alcuni minuti le parole che leggevo non le comprendevo, la musica che ascoltavo diventava un sordido rumore di fondo e la penna balbettava in maniera ridicola su di un foglio terribilmente bianco. A quel punto, in tutta fretta, mi mettevo qualcosa addosso e mi scaraventavo fuori dalla porta in preda all’angoscia.

Durante uno dei miei solitari pomeriggi, mentre cercavo di occupare il tempo in qualche modo, d’improvviso, fatto stranissimo per me in quel periodo, sento bussare alla mia porta. Felice come un bambino saltai dalla poltrona per questa piacevole novità: qualcuno che viene a cercarmi? Spalancai la porta con una veemenza tale da spaventare chi mi trovai di fronte con mia grande sorpresa, cioè quasi tutta la 3ªA dell’ITC di Orroli. I ragazzi, coerentemente con la spontaneità e la naturalezza che in genere contraddistingue quella fascia d’età, si fiondarono in casa senza che io avessi nemmeno il tempo di dire “accomodatevi”. È inutile dire che il “cromatismo” del mio umore subì una vera e propria rivoluzione copernicana: passai dal grigiore più intenso ai colori sfavillanti che inondarono la mia triste casetta. I miei alunni avevano compreso il difficile momento di adattamento che stavo attraversando e avevano deciso, molto naturalmente, che dovevano fare qualcosa per il loro insegnante, al quale probabilmente si erano già affezionati. Da quel momento le cose cambiarono radicalmente. Quegli splendidi ragazzi riuscirono a farmi entrare in relazione praticamente con tutti gli abitanti del paese, che mi adottarono e contribuirono a ridurre a livelli accettabili quella fastidiosissima sensazione di solitudine che mi aveva attanagliato fino a quel momento.”

L’esperienza di Orroli dunque m’insegnò che la solitudine la si combatte con la relazione e il calore dell’uomo tra gli uomini, non con i costosi smartphone ipertecnologici, non con le ipocrisie vaste e varie e le volgari invettive pseudopolitiche di Facebook. E m’insegnò anche che la solitudine geografica è la meno temibile.

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