Il linguaggio dell’economia ha perso contatto con la realtà

16 Gennaio 2020

Jean-Paul Fitoussi

[Gianfranco Sabattini]

Jean-Paul Fitoussi, economista dell’Università di Sciences Po di Parigi, in “La neolingua dell’economia, Ovvero come dire a un malato che è in buona salute”, denuncia il fatto che il linguaggio della scienza economica abbia perso contatto con la realtà, a causa dei vincoli ideologici che hanno portato all’impotenza della politica e alla restrizione della possibilità di formulare correttamente i problemi economici propri delle società industriali contemporanee. Si tratta di limitazioni che – a parere di Fitoussi – “hanno un’origine comune raramente ammessa: la volontà di ridurre il peso della politica e della sua influenza sull’economia”.

L’esempio che Fitoussi formula a sostegno della sua tesi fa riferimento al termine “keynesismo” (dominante fra gli economisti ed i politici nella seconda metà del secolo scorso); un termine che, contrariamente al passato, ha assunto nella “neolingua dell’economia” una connotazione negativa. Nel suo significato corrente, esso veniva usato per indicare che la migliore politica possibile per contrastare le fasi negative del ciclo economico consisteva, quali che fossero le circostanze, nel “rilanciare la domanda e aumentare i redditi”.

Quando questo termine era usuale nel linguaggio economico, la sua giustificazione era riconducibile al fatto che esso originasse da una teoria (formulata negli anni Trenta e applicata negli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale) perfettamente rispondente alle circostanze del momento. Se questa teoria fosse stata “congelata” al momento in cui è stata concepita ed applicata, sarebbe stata destinata a perire ed i termini in cui essa è stata spiegata avrebbero di sicuro perso di significato. La ricerca economica, però, è valsa a fare evolvere la teoria, adattandola alle nuove esperienze, concorrendo così a conservarla come “oggetto vivo e non fissato una volta per tutte, a un momento preciso”.

Ciò che è successo con l’avvento della neolingua dell’economia – afferma Fitoussi – è che la teoria keynesiana aggionata, “nonostante sia l’unica teoria a poter spiegare come va il mondo”, è stata archiviata come forma di pensiero arcaico, al punto da meritare d’essere espunto dal linguaggio moderno dell’economia. Dopo un suo timido recupero nei primi momenti successivi alla crisi dei mercati finanziari del 2007-2008, la neolingua economica ha ripreso forza, sostenendo acriticamente “che quello che era successo o che stava succedendo in realtà non poteva succedere davvero, perché semplicemente ‘non era possibile che succedesse’”.

Coaì, sul revival dei termini della teoria keynesiana è calato di nuovo il “sipario”, fino ad essere “banditi” definitivamente dal vocabolario della teoria economica. Ciò è accaduto perché i neoeconomisti hanno giudicato importante evitare l’uso di termini che, secondo loro, avevano perso ogni relazione con la realtà, con l’obiettivo però di “far sparire” questa realtà e le situazioni che quei termini designavano.

Questa pratica si è diffusa nell’attività di ricerca universitaria, il cui effetto è stato quello di mutilare la lingua ufficiale della teoria economica ereditata dal passato, per definire il pensiero unico attalmente dominante. L’impoverimento del linguaggio economico è oggi, secondo Fitoussi, condiviso da tutti (oltre che dagli economisti, dai media, dalle élite dominanti e dai politici), col pretesto di rendere il discorso economico più facilmente comprensibile, semplificando (anche se complessi) i problemi da risolvere. Evitando di considerare la complessità dei problemi, le popolazioni sono “invitate” ad affrontarne la soluzione, non “chiedendosi ciò che il Paese può fare per loro”, ma “limitandosi ad indicare ciò che loro possono fare per il Paese”; una parafrasi di un discorso che, estratto dal contesto in cui è stato pronunciato da John Fitzgerald Kennedy in occasione del suo insediamento come Presidente degli Stati Uniti, risulta privo di significato. L’”invito”, infatti, osserva Fitoussi, avrebbe senso se esso fosse rivolto a popolazioni per le quali fosse già stato fatto quanto possibile sul piano della loro sicurezza economica, così da poterle chiamare a partecipare alla soluzione dei problemi con l’assunzione dei necessari sacrifici.

E’ ben diverso chiedere a delle popolazioni che subiscono gli effetti di una disoccupazione diffusa, di una “precarietà” crescente, di una diminuzione dei redditi e di una costante preoccupazione per il futuro, di provvedere a proteggersi da sole. Per quanto possa essere contraddittorio e controindicativo, un tale modo di affrontare la soluzione dei problemi economici e sociali delle società industriali contemporanee è proprio quello che, per Fitoussi, è oggi iscritto nel linguaggio della neolingua dell’economia.

Per radicare nelle popolazioni il convincimento della razionalità di questo nuovo modo di risolvere i problemi economici e sociali, la neolingua ricorre alla ripetizione delle richieste loro rivolte; ma con l’uso di parole sganciate dalle circostanze che sono all’origine dei problemi, esse (le parole) finiscono col perdere di senso e di significato. Gli esempi più calzanti sono, per Fitoussi, le frasi “la disoccupazione è inaccettabile”, oppure “la precarizzazione è intollerabile”; quando la ripetizione è protratta nel tempo, nonostante che la disoccupazione e la precarizzazione continuino ad aumentare, essa logora il significato della parole, convincendo le popolazioni che i problemi dei quali si sostiene l’inaccettabilità e l’intollerabilità sono in realtà problemi “normali”, quindi spingendole a rassegnarsi al disagio provocato dalla mancata adozione di soluzioni adeguate.

Un’altra espressione tipica della neolingua economica è la locuzione “riforma strutturale”; economisti e politici affermano la necessità di effettuare riforme strutturali, senza però specificare l’obiettivo per il quale esse vengono proposte. Nella neolingua, sono di solito proposte per trasformare in “fatto normale” la disoccupazione e il precariato; nella lingua scomparsa, disoccupazione e precariato rappresentavano il “male” da rimuovere, mentre nella neolingua la loro conservazione è diventata l’unica via di uscita. Nel passato sono state realizzate riforme strutturali positive, come, ad esempio, la costruzione del welfare State o la protezione del lavoro; oggi esse sono attuate, non per il rafforzamento dei diritti sociali o per la protezione del lavoro, ma per radicare ulteriormente nelle popolazioni l’dea che con il disagio occorre convivere, perché nelle società del futuro sono destinate a diminuire le possibilità di trovare un’occupazione.

Qualsiasi riforma strutturale, se positiva, cioè se risponde agli effettivi stati di bisogno delle popolazioni, oppure è resa necessaria da un aumento della produttività, comporta una ristrutturazione del lavoro; oggi, l’ideologia neoliberista prevalente impone che la riforma strutturale più conveniente sia quella di un adattamento della struttura del consumo a quello della domanda, mentre dovrebbe essere il contrario. La “tesi triste della fine del lavoro” – afferma Fitoussi – è che la neolingua economica ha oscurato il problema del governo della domanda, che è alla base delle politiche economiche necessarie al perseguimento dell’obiettivo del pieno impiego. In conseguenza di ciò, i governi ad economia di mercato non si preoccupano più della “politica della domanda”, ma soltanto della “politica dell’offerta”, trascurando la circostanza che, se a causa dell’aumento della produttività si producono, ad esempio, sempre più automobili (parallelamente all’espulsione dalla stabilità occupazionale di una certa quantità di forza lavoro) sarà inevitabile la riduzione della platea di compratori di automobili in quanto, a causa dell’aumento della disoccupazione, ci saranno minori possibilità per comprarle.

Inoltre – continua Fitoussi – la politica dell’offerta trascura il limite ad essa intrinseco, ovvero il fatto che un sistema economico non può funzionare in condizioni di stabilità nella prospettiva di una crescita illimitata della produzione materiale; prima o poi, questo tipo di crescita concorrerà a creare una situazione in cui le popolazioni non domanderanno più automobili, ma maggiori servizi (salute, sicurezza, ambiente), coi quali rimediare ai disagi creati dal sostegno continuo dell’offerta.

L’idea, corrente nel neolinguaggio dell’economia, che l’aumento della produttività possa portare inevitabilmente alla “fine del lavoro” trae origine dalla falsa interpretazione di una previsione che John Maynard Keynes ha formulato alla fine degli anni Venti del secolo scorso, in un pamphlet il cui titolo accattivante era: “Le possibilità economiche dei nostri nipoti”. Il grande economista di Cambridge, tenendo conto dell’aumento della produttività, prevedeva che, dopo un secolo (quindi, circa alla fine del 2030), le popolazioni non sarebbero più state nella condizione di dover lavorare, per cui il problema economico del lavoro in tutte le società avrebbe cessato d’essere fonte di preoccupazioni. Al riguardo, Keynes considerava la propensione degli imprenditori all’accumulazione continua di capitale come una forma di “squilibrio mentale e non un segno di forza”; il problema reale, invece, sarebbe consistito “nell’insegnare alla gente a vivere senza lavorare, visto che i bisogni fondamentali sarebbero stati soddisfatti”. Secondo Fitoussi, nella visione di Keynes, la “fine del lavoro non era quindi il dramma” che incombe oggi sulla stragrande maggioranza delle moderne società industriali ad economia di mercato.

La previsione di Keynes – osserva Fitoussi – era direttamente collegata all’ipotesi di un possibile aumento della ricchezza conseguente alla crescita della produttività, cui implicitamente si accompagnasse una diminuzione delle disuguaglianze distributive; Keynes, quindi, prevedeva la fine del lavoro, ma in termini del tutto diversi dal come essa è oggi percepita: “per lui era una magnifica notizia, una liberazione e non una sciagura”. Come è possibile – si chiede Fitoussi – fare fronte ai disagi sociali e all’instabilità economica indotti dalla previsione che il continuo aumento della produttività posa creare la fine del lavoro associata a un a diffusa disuguaglianza distributiva?

Nel rispondere alla domanda egli sostiene la necessità di abbandonare la politica dell’offerta della quale si è affermata la prevalenza su quella della domanda, gestendo ques’ultima in modo da conformarla alla dinamica propria dei moderni sistemi economici: il forte aumento della produttività, determinato dalle continue innovazioni tecnologiche, consentirà “di produrre di più con meno lavoro, di diminuire i prezzi e di aumentare i salari”, permettendo agli occupati “di ridurre il tempo di lavoro e di soddisfare altri bisogni”, ai quali potrà provvedere il settore dei servizi; si instaurerà così un circolo virtuoso che porterà quest’ultimo settore ad spandersi, occupando la forza lavoro “risparmiata” in altri settori.

Tuttavia, l’ipotesi della fine del lavoro non manca di caratterizzare pure il settore dei servizi, in quanto le nuove tecnologie consentiranno di risparmiare lavoro anche all’interno delle attività che li producono; ma un “aumento della produttività nel settore dei servizi, conseguenza della rivoluzione tecnologica, provoca – afferma Fitoussi – un aumento dei salari che a sua volta aumenta la domanda dei servizi, in quantità e in qualità”.

Ciò che Fitoussi trasura, nelle sua prospettiva di analisi critica dello smarrimento del linguaggio tradizionale dell’economia, è che la gestione della domanda (come da lui proposta, per rimuovere i problemi connessi all’ipotesi della fine del lavoro), per conformarla alla dinamica dei moderni sistemi economici, non assicura l’eliminazione delle disuguaglianze distributive e della povertà, condizione necessaria perché possa aumentare la domanda dei servizi in quantità e qualità.

In conclusione, anche nella prospettiva di analisi di Fitoussì è difficile immaginare l’attivazione di un circolo virtuoso per la realizzazione del pieno impiego della forza lavoro, a meno della possibilità di considerare la propensione delle classi sociali ricche ad accettare una ridistribuzione della loro ricchezza, a vantaggio di una capacità di acquisto conforme allo stabile funzionamento del sistema economico e ad una maggior capacità di tenuta della coesione del sistema sociale.

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