Il peso della cultura

16 Luglio 2009

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Marcello Madau

Si usa dire che il regalo sia rivelatore dell’animo di chi lo fa. Ho diffidenza di questi detti, che spesso costeggiano, quando non vi si addentrano, le melliflue regioni del luogo comune. E quindi anche di questo. Certo, dipende dalla personalizzazione del dono: il regalo a volte è un oggetto seriale, e perciò sembra nasconderci nell’anonimato. Però, intanto, rivela che ci siamo indirizzati verso un’azione seriale. E poi, se la serialità e la natura dell’oggetto si intrecciano con una personalità originale, può anche inserirsi nell’apparente anonimato del dono un sapore molto personale. Ma il sontuoso dono che Silvio Berlusconi ha fatto agli “Otto Grandi”  non può certo definirsi anonimo. Al contrario, esso è  davvero parlante, e molto personale: quando ognuno di essi lo guarderà, si ricorderà non che è un dono dell’Italia, ma di Silvio Berlusconi. Questo fatto, al di là della scarsa sobrietà istituzionale causata dalla nota e clinica megalomania del soggetto, potrebbe anche farci comodo perché ne verremmo almeno parzialmente scusati (di passaggio: il nostro presidente dice che il G8 è superato, che bisogna almeno andare verso il G14, ma evidentemente otto doni sono meglio di 14). Il libro su Antonio Canova, 70×45 cm,  del peso di 24 chili, intitolato ‘Antonio Canova, l’invenzione della bellezza’, ha la copertina in marmo di Carrara con  bassorilievo delle Tre Grazie, incastonato in broccato e fili d’oro, ricavato da un particolare di un dipinto del grande scultore. Insomma, neppure una copia a regola d’arte. E’ stato proposto entro una cassetta in mogano e frassino, con foglie d’oro applicate a mano, dal poco piacevole sapore funebre. Il sensazionale volume contiene anche tavole, incisioni e foto, gli inni nazionali di ogni paese, calligrafi e miniature, un segnalibro argentato ed una lente d’ingrandimento.
L’originalità non è da cercare, a dire il vero, nella tipologia dell’opera, e neppure nel titolo. L’editore – specializzato in libri preziosi – aveva già fatto nel 2008 un vernissage per presentare a New York un’opera su Michelangelo, ugualmente con copertina in marmo. Lo stesso titolo appare in una lezione-conferenza, pochi mesi fa, del cineasta Marco Ponti al Festival del Cinema Internazionale di Alba. Titolo probabilmente più appropriato che nel dono marmoreo (stile e pertinenza potrebbero anche pensare a un suggerimento, tra una poesia e l’altra, del Ministro  Bondi), poiché il pur eccezionale Canova non inventò, da buon neo-classico,  la bellezza e neppure le ‘Tre Grazie’, note da splendidi dipinti di Raffaello e Botticelli, a loro volta certamente ispirati a statue, pitture e gemme greche e romane.
L’originalità è da cercare piuttosto nell’insieme, nella straordinaria capacità di Silvio Berlusconi di essere affettato, grossolano, pacchiano, con insuperabile capacità di innovare lo stesso concetto del kitsch, che va al di là del semplice ‘cattivo gusto’. Guardate la dedica, con calligrafia svolazzante, fatta a Obama (e agli altri) “dall’Italia della bellezza”: che viene presentata tramite il suo più grande scultore moderno del quale però si seleziona un dipinto, arte nel quale Canova non fu eccellente! Ma non dimenticate il contesto, compresa la sfrontata volgarità della simulazione di terremoto fatta per le consorti dei grandi della terra dalla Protezione civile, e le risate delle stesse dentro i luoghi del dolore (Guido Bertolaso ha detto che il G8 a L’Aquila ha rappresentato il più grande evento storico dell’Italia. Io dico che dovrebbe vergognarsi, di questa frase e della irriguardosa prova da lunapark offerta alle illustri ospiti). Tutto è deliziosamente disgustoso, e forse è questo che piace, nei fatti (altrimenti non ci spieghiamo nulla) alla maggioranza degli italiani.
La dimensione del dono, come hanno spiegato da molto tempo antropologi come Mauss e Malinowski e orientalisti come Carlo Zaccagnini, la dice lunga sulle aspettative da esso presupposto: i comportamenti di Berlusconi ben si attagliano anche in questo agli aspetti storicamente ed archeologicamente noti da reucci  tribali o di tipo orientale, entro le quali  morfologie non disturba per coerenza la stessa logica dell’harem.
Infine, anche l’iconografia scelta appare illuminante: nel dipinto del grande scultore le Tre Grazie danzano davanti a Marte, dio romano della guerra. Ma i signori del G8 si vergognano di mostrarsi come signori della guerra, perciò la figura di Marte nel dono non c’è. Oppure è semplicemente presupposta. Mania di grandezza, cattivo gusto, cultura come peso, antropologie del dono. Tutto sembrerebbe chiaro, ma resta  una sola zona d’ombra. Il grande grecista John Boardman,  nel suo ‘Greek Art’ ricorda  che in Italia, nel Rinascimento, l’iconografia delle Tre Grazie si diceva servisse come insegna dei bordelli. Ovviamente non si riferiva a Palazzo Grazioli, ma è una zona d’ombra che il Presidente del Consiglio italiano, magari negli attesi chiarimenti alle Camere, vorrà diradare. Dica alle Camere riunite se i veri nomi delle Tre Grazie sono quelli riportati dal mito, o quelli riportati dai giornali di tutto il mondo.

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