Ilva sotto il materasso del Riva

1 Ottobre 2013
Ilva-le-responsabilita-dei-Riva
Loris Campetti

Secondo la magistratura di Taranto, nel corso della gestione privata dell’Ilva svenduta dallo Stato al “rottamaio” Emilio Riva meno di vent’anni fa, il nuovo padrone della siderurgia italiana ha fatto utili a palate. Almeno 8,2 miliardi di euro Riva li ha intascati grazie al mancato rispetto di decreti, aia (autorizzazioni integrate ambientali), sentenze e ordinanze della magistratura che imponevano l’ambientalizzazione degli impianti per ridurre l’inquinamento provocato dal più grande stabilimento siderurgico d’Europa. Il principio che ha mosso la genia dei Riva è molto semplice: aumentare la produzione e con essa gli utili, costi quel che costi agli operai e ai cittadini tarantini. Oliare la politica, l’informazione, le istituzioni, la Chiesa, i sindacati, i periti, isolando così l’odiata magistratura. E’ un principio a prova di bomba, anzi di diossina: “qualche tumore in cambio del lavoro è una minchiata”, come diceva il figlio pluri intercetto di Emilio, Fabio Riva, finito latitante sulle rive del Tamigi. L’Ilva di Taranto è la fabbrica dei primati: un’espansione territoriale maggiore della stessa città di Taranto, una produzione annua di acciaio pari a 10,5 milioni di tonnellate a pieno regime e a vuoto di controlli e vincoli, una produzione di diossina pari al 92% di tutta la diossina industriale che avvelena l’Italia.
Siccome Riva è molto furbo, ha capito per tempo che la festa prima o poi sarebbe finita e si è mosso con professionalità finanziaria, spostando il plusvalore accumulato sulla pelle – la salute – dei lavoratori e dei tartantini fuori dall’Ilva di Taranto, trasferendolo in altre società dell’universo Riva e mettendolo sotto protezione in un sistema di scatole cinesi nei paradisi fiscali di quattro continenti, dalla Nuova Zelanda al Lussemburgo, dalle isole del Canale della Manica alle Antille olandesi. Così, si è detto, nessuno può metterci le mani. Ora che il pentolone dell’”Ilva Connection” è stato scoperchiato dalla magistratura il problema, a rigor di logica, sarebbe di trovare il modo di riprendersi e restituire alla comunità il maltolto, il bottino di Emilio Riva&figli. Certo, ci vorrebbe la volontà politica, di una politica finora complice, subalterna e prezzolata dai Riva per una lunghissima stagione e pronta invece a guardare di traverso la magistratura che ha bloccato alcuni conti del padrone delle ferriere. Colpa, ci fanno sapere, delle toghe “anticapitaliste” se oggi 1.400 operai sono a casa, nelle fabbriche Riva non Ilva. Mentre scriviamo è in atto un balletto indecente nel governo, che invece di rispondere immediatamente ai ricatti di Riva con il commissariamento dell’impero del rottamaio prende tempo, cincischia, aumentando così i rischi di perdite di commesse e clienti lasciati senza acciaio. Del resto, questo governo non ha forse seguito le tracce di chi l’ha preceduto, lasciando presidente dell’Ilva commissariata lo stesso Ferrante nominato dalla famiglia proprietaria (il lupo a guardia del gregge), e come commissario Enrico Bondi, l’uomo che ha passato la Lucchini ai russi e la Montedison ai francesi?
L’economia italiana non può farcela senza l’acciaio, una delle poche voci attive della nostra dissestata bilancia dei pagamenti, ma non è pensabile continuare a produrre acciaio come si fa a Taranto. Gli esempi di produzione virtuosa, socialmente e ambientalmente compatibili non mancano: a Linz in Austria, a Duisenberg in Germania, addirittura in India. Certo, servono investimenti, tecnologie, regole, controlli, sanzioni. Servono soldi, ma quelli basterebbe prenderli dove stanno: sotto i materassi di Riva. Subito l’estensione del commissariamento a tutto l’universo Riva, poi la nazionalizzazione che non è una bestemmia ma l’unica strada per risanare produzione e ambiente. Per risanare, oltre all’ambiente tarantino, anche le coscienze, ci vorrà più tempo. Bisogna ricostruire un’autonomia (dal padrone) di classe, indebolita da decenni di Partecipazioni statali e frantumata dagli anni di Riva. E’ la strada, difficile, avviata dalla Fiom, purtroppo in solitudine. Si scopre, più dalle indagini affidate dalla magistratura alle Fiamme gialle, che tutti all’Ilva di Taranto vengono “omaggiati” di un premio in caso di mancanza di infortuni: decine di migliaia di euro ai fiduciari di Riva (finiti da un mese in manette) che sono il potere occulto della famiglia, un centinaio di euro al mese agli operai con un tesserino per fare la spesa al supermercato. Ovvio che, a parte i morti che non si possono nascondere, gli infortuni meno gravi non vengano denunciati per non ridurre la capacità di spesa. Quando una tromba d’aria, lo scorso inverno, ha colpito Taranto abbattendo una gru precipitata a mare insieme al dipendente che stava lavorandoci, i Riva pretendevano che gli operai riprendessero immediatamente a operare sulle altre gru prima ancora che il corpo del loro compagno venisse ripescato. “La catena non si ferma, non c’è ragione”, cantava Giovanna Marini negli anni Settanta.
Di strada ce n’è molta da fare, ma se non ci si muove subito Taranto e l’Italia perderanno, dopo la salute, anche il lavoro.

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