La parola compagno

16 Luglio 2021

[Roberto Loddo]

Uno dei ricordi più significativi delle mie chiacchierate polemiche con Marco Ligas spesso verteva sull’utilizzo della parola “compagno”. Mi prendeva in giro perché suggerivo di non utilizzarla nelle aperture dei confronti pubblici o nelle presentazioni dei nuovi numeri del manifesto sardo.

La leggerezza dell’utilizzo mi evocava e mi evoca tutt’ora la necessità dell’obbligo sociale di un rito da chiesa dei santi degli ultimi giorni. E poi non ho mai creduto che nelle nostre realtà politiche siamo sempre tuttə compagnə.

Chi a sinistra difende i diritti sociali della classe lavoratrice e poi sostiene un partito che vota in parlamento il rifinanziamento della missione di cooperazione con la Guardia costiera libica, può essere consideratə compagnə? Chi partecipa alle manifestazioni e alle assemblee femministe, ma è contro il ddl zan, contro l’identità di genere e contro una visione intersezionale delle lotte, può essere consideratə compagnə?

Possiamo batterci per costruire una società più giusta e contemporaneamente discriminare le persone non binarie o le persone rifugiate e richiedenti asilo? No. Per questo non siamo tuttə compagnə. E non perché non creda nel valore potente e straordinario della parola “compagno”. Penso che oggi non sia più la parola giusta che possa definire una categoria di persone connesse dalla sola appartenenza a una comunità che condivide idee, orientamenti e battaglie politiche.

La violenza delle disuguaglianze del sistema neoliberista è interconnessa con tutte le dimensioni della società. Non ci può essere nessuna forma possibile di liberazione umana se nelle nostre lotte non consideriamo l’opportunità di connettere le classi, le identità di genere, le etnie, la disabilità, la cultura, la cittadinanza e ogni categoria umana che produce disuguaglianza. Se non consideriamo l’intersezionalità come motore della trasformazione sociale del pianeta non ci potrà mai essere nessun elemento di liberazione umana valido per ogni essere umano. Al contrario ci saranno sempre cause di serie A e di serie B, perché a seconda del contesto sociale possiamo essere considerate persone oppresse e contemporaneamente oppressori.

Nella lettera a Marìa Rosario Guevara, Ernesto Che Guevara, così definisce il termine compagno: “se lei è capace di tremare di indignazione ogni volta che viene commessa un’ingiustizia nel mondo, allora siamo compagni”. Per questo penso esista una dimensione molto più profonda, intima e familiare del condividere letteralmente il pane, dello spezzarlo insieme. Penso che se vogliamo considerarci veramente compagnə e non profeti sconfitti del ‘900 è necessario fare una rivoluzione, a partire dai rapporti tra le persone, nella società, dentro noi stessi. facciamo un passo indietro per farne due avanti e sostenere la crescita, l’autonomia e la formazione culturale e politica delle persone militanti e attiviste più giovani. Mettiamo a loro disposizione i saperi, le conoscenze per renderle protagoniste di un progetto di alternativa di società.

Sarei favorevole a riprendere l’abitudine a chiamarci compagnə, a considerarci persone che cercano di superare l’individualità determinata da una società contaminata da un sistema che vorrebbe costringerci a stare in solitudine e senza diritti. Per questo è urgente sostenere le persone più giovani e tutte le persone che non hanno conosciuto la forza dei partiti e dei sindacati di massa e si trovano in un limbo di disorientamento, privati di ogni possibilità di organizzazione. Un tempo si sarebbe detto di organizzare i non organizzati.

Sono state queste le premesse del rapporto di condivisione di idee e di crescita politica che ho avuto Marco Ligas e con tantə compagnə più grandi di me nel manifesto sardo a cui sarò per sempre grato. Vorrei essere chiamato e considerato un compagno, ma solo a queste condizioni.

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