La ricerca di un nuovo equilibrio tra le grandi potenze del mondo

16 Giugno 2018

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[Gianfranco Sabattini]

Il numero 4/2018 di “Limes” è dedicato ad un’analisi dello stato attuale del mondo, caratterizzato dalle tensioni globali causate dalla ricerca di una nuova configurazione dell’equilibrio dei rapporti di forza tra gli Stati. I termini della questione sono riassunti nell’editoriale del periodico, secondo il quale la situazione attuale è rappresentata dalla posizione dominante degli Stati Uniti; sebbene tale posizione risulti ridimensionata rispetto al passato, è possibile che, considerate le condizioni interne e internazionali riguardanti i loro competitori, gli USA riescano a conservarla anche per il futuro, che è plausibile prevedere possa risultare piuttosto lungo. L’ipotesi dell’editoriale è corroborata da una serie di articoli di autori, specialisti nel trattare le relazioni internazionali; in essi sono evidenziate le problematiche riguardanti le altre potenze che aspirano, se non proprio a sostituire, ad indebolire ulteriormente, la superpotenza americana.
La posizione attuale degli Stati Uniti – afferma l’editoriale – “è presupposto geopolitico per eccellenza”. Tutti gli altri Stati, alleati o meno, “ne accettano l’esistenza come evidente, incontestabile. Tutti, o quasi, ne celebrano ovvero ne dannano l’iperpotenza materiale e immateriale”; alcuni Paesi alleati, addirittura, li detestano, mentre altri Paesi avversari “anelano ad essere ammessi a corte”. Ciò che stupisce è il fatto, che, malgrado l’universale riconoscimento della primazia globale della quale godono gli Stati Uniti, fra coloro che si oppongono al loro imperialismo vi siano “diversi fieri cittadini” americani, convinti che la conservazione dell’”impero non sia un affare. Stanchi di sopportarne i costi veri o presunti. Insensibili alla gloria”. Se la posizione dominante degli USA è presupposto geopolitico, come possono essere spiegate, malgrado la presidenza di Donald Trump, le ragioni della sua conservazione, “pur se oggi [quel presupposto è] meno splendente e più contestato?”
Dopo il crollo dell’ex URSS, gli USA si sono imposti nell’immaginario collettivo mondiale come unica superpotenza, perseguendo, attraverso la globalizzazione, l’unificazione del pianeta, con la proposta, da parte di due scienziati americani, di “abolire i fusi orari virando verso un tempo universale atto a istituire un calendario permanente. Valido per tutti per sempre”.
Rifacendosi al Tucidide della “Guerra del Peloponneso”, l’editoriale di “Limes” ricorda che per qualsiasi potenza, che persegua la conservazione di una posizione dominante nel mondo, non possa “esistere logica diversa da quella dell’utile”; ciò perché nessun legame di solidarietà e di vicinanza può conservarsi nel tempo se “non vi corrispondono sicurezza e fiducia”; concetto, questo, che sarà formalizzato sul piano politico dal marxista Antonio Gramsci, con la formulazione del concetto di “egemonia”, adottato per esprimere una posizione dominante di un gruppo sociale o di uno Stato, destinata a divenire impensabile “senza il consenso” e impraticabile “senza la forza”, non solo militare, ma anche e soprattutto culturale. Ma ogni potenza globale ed egemone, pur sorretta dal consenso, osserva l’editoriale, è costretta ad agire all’interno di un contesto di relazioni interstatali che ne condizionano la strategia.
Sulla base di questo assunto, l’editoriale di “Limes” ipotizza, all’interno del precario equilibrio globale ora esistente, la presenza di alcuni Stati o realtà politiche che, con la loro azione, potrebbero prefigurare possibili conflitti, tali da implicare “un grado minimo o massimo di impegno americano”. I soggetti, nel ruolo dei quattro “cavalieri dell’Apocalisse” assegnato dall’editoriale, sono principalmente la Cina, la Russia, la Corea del Nord, cui può essere aggiunta l’Unione Europea; viene pertanto da chiedersi se tali realtà politiche possano e vogliano davvero subentrare agli Stati Uniti nel rango di primo attore e, se lo potessero e volessero, di quali argomenti e strumenti dispongano per coronare col successo la loro aspirazione.
A parere dell’editoriale, se gli americani eviteranno “di farsi del male da soli, e malgrado la torrenziale letteratura apocalittica di propria produzione, in questo mondo di Stati, gli Stati Uniti possono aspirare a restare il Numero Uno. A lungo”. Questa conclusione è supportata da varie considerazioni e riflessioni, tutte attinenti alla “debolezza” degli Stati o delle realtà politiche che possono svolgere il ruolo di competitori e che, con la loro azione, possono destabilizzare la posizione egemone degli USA, per sostituirsi ad essi, o quantomeno per ridurne il “peso” globale.
Le difficoltà che si parano davanti all’azione dei competitori dell’America derivano innanzitutto dal fatto che, come osserva Dario Fabbri (“L’America conservatrice”), nel mondo instabile di oggi gli americani sono diventati conservatori. A differenza di quanto erano propensi ad intraprendere nel passato, essi “non pensano più di stravolgere la congiuntura internazionale. Confermano lo status quo, ne accettano il dipanarsi. Non solo perché maneggiano i gangli del primato – dal controllo delle vie marittime alla funzione di compratore di ultima istanza, dall’emissione del dollaro all’avanguardia tecnologica”; ma anche perché le sofferenze patite a causa del loro avventurismo, vissuto nella prospettiva di poter “rimodellare il creato, intendono scongiurare il ripetersi della storia”. Soffrendo per l’impulsiva voglia di isolarsi e di ritirarsi dalla gestione degli affari internazionali, anche per gli sforzi che sono chiamati a compiere per via del loro status egemonico nel mondo, gli Usa hanno scelto “la manutenzione ordinaria del sistema che presiedono”.
Pur scegliendo l’opzione meno impegnativa per la conservazione della loro posizione egemone, gli Stati Uniti hanno conservato intatte le finalità della loro politica estera, salvo l’apporto di alcuni adattamenti al mutamento delle condizioni attinenti il resto del mondo; gli USA, infatti, continuano a curare gli aspetti della loro politica estera, avendo di mira l’obbiettivo prioritario del contenimento marittimo della Cina e di quello terrestre della Russia; quindi, senza temere una possibile convergenza tra i propri competitori, hanno maturato una crescente opposizione nei confronti dell’aumento delle pretese tedesche, nella consapevolezza – secondo Fabbri – “che è impossibile rinnegare la propria dimensione imperiale”. Ciò, nel timore che le dinamiche interne alla società americana possano vanificare quanto sinora realizzato.
L’attuale strategia internazionale degli Stati Uniti è stata elaborata al termine della Guerra fredda, allorché, dopo il crollo dell’URSS, gli USA hanno vissuto l’illusione d’essere divenuti una superpotenza solitaria; da allora, via via che l’illusione si è dissolta, essi hanno adattato la loro politica internazionale al mutare delle condizioni globali, cumulando “un massiccio deficit commerciale per creare dipendenza tra sé e i [loro] satelliti e mantenere globale la [propria] moneta”, riuscendo così a contenere le sfide dei concorrenti più insidiosi, fornendo aiuti militari ai loro alleati, senza però agire per distruggere l’equilibrio esistente, al fine di favorire l’avvento di una nuova configurazione dello stato del mondo. Così facendo, gli USA hanno teso a lasciare agli altri l’onere di alterare lo status quo, a condizione che i mutamenti risultassero aderenti ai loro interessi.
Una prova di tale atteggiamento sul piano della politica estera degli Stati Uniti può essere rinvenuto, ad esempio, nel proposito di coinvolgere i propri alleati nelle “campagne” di contenimento dei propri concorrenti, come è avvenuto nel caso della Russia, contro la quale l’opposizione è stata appaltata – afferma Fabbri – “ai Paesi dell’Europa centro-orientale”, attraverso il collocamento al loro interno di sistemi d’armi puntati contro Mosca e l’assegnazione di un ruolo cruciale ai paesi baltici.
Anche sul fronte estremo-orientale, l’impegno degli USA è volto a coinvolgere gli alleati nel contenere le ambizioni della Cina, determinata a divenire il principale concorrente commerciale di Washington attraverso la realizzazione del progetto infrastrutturale delle vie della seta. Eppure, anche da questo fronte, secondo Giorgio Cuscito (“I nemici delle nuove vie della seta”), gli Stati Uniti hanno poco da temere, sia per i timori che la realizzazione di tale progetto sta suscitando in diverse aree politiche del mondo, sia per ragioni politiche interne della Cina.
Sul Piano internazionale, diversi sono i fattori che rendono le rotte delle vie della seta fonte di preoccupazioni, non solo per gli Stati Uniti, ma anche per altre realtà politiche; in Asia, ad esempio, India e Giappone, congiuntamente ad altri Paesi minori del Sud-Est asiatico, “stanno prendendo contromisure per ostacolare l’iniziativa, percepita come uno strumento per espandere la sfera d’influenza cinese a livello globale”; anche perché alcuni progetti promossi da Pechino non hanno una valenza esclusivamente economica.
Ultimamente, ai dubbi e ai timori dei Paesi asiatici si sono aggiunti anche quelli dell’Unione Europea; negli ultimi tempi, le istituzioni europee, sollecitate da Germania, Francia e Italia, hanno evidenziato una maggiore attenzione rivolta alle attività cinesi in Europa e nel Mediterraneo. Ciò ha spinto le istituzioni comunitarie “a prendere provvedimenti per monitorare più accuratamente le attività della Repubblica Popolare nel Vecchio Continente”, sino a decidere di dotarsi di un quadro normativo atto “a prevenire le acquisizioni d’interesse strategico da parte di aziende statali ubicate fuori dall’UE”.
Sotto l’aspetto politici interno, invece, la Cina avrà a che fare con i numerosi problemi che da sempre la assillano, quali sono i profondi squilibri economici esistenti sul piano territoriale e su quello personale, le aspirazioni ad una maggiore autonomia delle minoranze etniche e culturali e l’unificazione alla Repubblica Popolare di Taiwan; aspirazione, quest’ultima, destinata a sollevare le incertezze sul come conciliare le diversità del credo politico e delle istituzioni, oggi esistenti all’interno delle due realtà statuali asiatiche.
Oltre che dal fronte del Sud-Est asiatico, gli Stati Uniti hanno poco di che temere da quello Europeo, in particolare dall’Unione Europea, soprattutto per le divisioni esistenti tra gli Stati che la compongono, causate oltre che dalle differenze economiche esistenti, anche dal “peso” che la Geramania sta assumendo all’interno della comunità. In “I tabù di Berlino fanno male all’Europa”, Heribert Dieter afferma che in Europa, secondo un’inchiesta condotta nel 2017 dal Pew Research Center, “la Germania è vista bene: il 71% dei cittadini europei ne ha una percezione positiva”; ma le cose cambiano “quando le stesse persone vengono intervistate a proposito di una leadership tedesca in Europa. Poco meno della metà (49%) è dell’opinione che la Germania sia già adesso sin troppo forte, solo un’esigua minoranza (5%) dichiara che Berlino ha un’influenza troppo debole”.
L’inchiesta ha messo in evidenza una frattura tra i Paesi del Nord e quelli del Sud dell’Unione europea, palesando che “né gli altri europei, né la maggioranza dei tedeschi desiderano una più marcata leadership tedesca all’interno della UE”. Ciò è sufficiente a garantire agli USA che l’Europa, almeno per il momento, non può rappresentare alcuna seria contestazione alla loro posizione egemone globale e che l’ambizione dell’establishment tedesco ad elevare il livello di contrapposizione con l’iperpotenza d’oltre Atlantico è più che annullata dalle contrapposizioni a Berlino da parte degli altri partner europei.
Resta il problema dell’opposizione russa all’egemonia americana; dopo l’esperienza negativa dell’ex URSS nel condurre una concorrenza attiva nei confronti degli USA, gli obiettivi della nuova Russia di Putin, secondo Vitalij Tret’jakov, preside delle scuola superiore per la televisione dell’Università statale di Mosca (“La dottrina Putin”), gli obiettivi di Mosca consisteranno nel preservare e rafforzare la Russia come grande potenza e come civiltà a sé stante e autosufficiente, salvaguardando la pace, soprattutto nelle regioni immediatamente vicine ai confini russi, e difendendo la civiltà russa in senso politico ed etnico.
Nei confronti degli USA, tali obiettivi saranno perseguiti, a parere di Tret’jakov, nel rispetto di tre linee di condotta: in primo luogo, la promozione dell’emancipazione, in modo graduale e, se possibile, non conflittuale dal predominio americano in campo economico e finanziario; in secondo luogo, il mantenimento di un equilibrio strategico-militare con gli USA; infine, l’opposizione a Washington laddove vada a toccare esplicitamente gli interessi della Russia. Nell’attenersi a questi tre criteri strategici, Mosca non “avrebbe interesse a minare intenzionalmente le posizioni degli Stati Uniti nel mondo attuale”, in quanto basterà aspettare che queste posizioni si indeboliscano naturalmente: Putin non avrebbe che da attendere, in quanto “sa e capisce che prima o poi l’Occidente” commetterà degli errori. A quel punto, “non gli resterà che decidere, dopo aver valutato i pro e i contro”, se sfruttare gli errori oppure no.
Malgrado il semi-isolazionaismo della nuova Russia, l’azione politica internazionale indicata da Tret’jakov, non può certo dirsi positiva per il mondo; ciò in quanto non è auspicabile che una superpotenza di rilevanza globale, come la Russia, possa perseguire una politica egoistica; una politica cioè che, se può non impensierire l’egemonia statunitense, è però gravida di pericoli per il resto del mondo, a causa dell’esclusivismo (non solo sul piano degli interessi materiali, ma anche su quello etnico e culturale) col quale la Russia, anziché impegnarsi nel tentativo di governare la dinamica dello stato del mondi, si limiterebbe a difendere i suoi interessi “particulari”, sfruttando i possibili errori degli altri.

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