Monti Prama

16 Settembre 2007

GIGANTE DI MONTI PRAMA
Marcello Madau

Quale dovrà essere il luogo di conservazione ed esposizione di un manufatto eccezionale? La risposta più naturale per un archeologo – il contesto di provenienza – si indebolisce, laddove siano carenti le condizioni conservative, espositive e di fruizione, a favore di localizzazioni che per loro logica (un Museo Nazionale, oppure il nodo centrale di un determinato polo museale) formino un contesto protettivo e comunicativo dove il godimento del bene in questione sia vasto e all’interno di una sinossi ampia.
Da questo punto di vista, il destino di uno degli episodi più straordinari della grande statuaria del mondo antico, le trenta statue nuragiche di Monti Prama, appare segnato: nei suoi stessi manifesti programmatici il Museo del Betile, epicentro museografico e sperimentale per l’arte della Sardegna nuragica e contemporanea (che ha peraltro il grosso limite di unicizzare nel nuragico l’identità), prevede come nucleo e dotazione principale le prodigiose sculture, attualmente in lungo e difficile recupero nel Centro di Restauro Regionale di Li Punti, presso Sassari.
Non c’è dubbio che le gigantesche statue saranno una delle principali attrattive della museologia della Sardegna, capaci di calamitare interessi, passioni, visite, introiti. Ma non siamo sicuri che il ‘Museo del Betile’ sia la scelta giusta, e riteniamo che le ragioni per un ‘ritorno’ nei luoghi di origine dei grandiosi eroi nuragici siano davvero molto solide, non riducibili a meri episodi di municipalismo.
L’idea di concentrare in un ‘museo centrale’ i pezzi più importanti risponde ad un modello non sempre efficace, superato dalla maggiore definizione e personalità delle reti territoriali in Sardegna, e dallo stesso policentrismo che definisce la civiltà nuragica.
Come immaginare una visita nella Sardegna antica senza il territorio del Sinis, e una visita in questa penisola senza le statue di Monti Prama che ne raccontino una parte così importante? Né, a ben vedere, si può cogliere a pieno la luminosa esperienza dei fenici di Tharros senza vedere il segno e le relazioni con il mondo nuragico, senza le statue di quelle genti che contribuirono a far nascere una grande città multiculturale e multietnica.
Nella fruizione di un paesaggio culturale forte e intenso il nostro immaginario corre alla memoria dei luoghi mediante la fascinazione dei segni, ma l’assenza di quelli più importanti deprime la possibilità di una tale esperienza.
Se quindi vogliamo rispettare, e proporre, una percezione non solo intellettualistica del mondo nuragico, le statue di Monti Prama dovrebbero parlarne dal loro contesto di origine. Laddove mancano le condizioni, bisogna fare in modo di crearle.
E qua si apre un altro, grande problema: il contesto, intenso e paesaggisticamente di grande suggestione, è ben lungi dall’essere chiarito.
Monti Prama ha rischiato una prima volta di essere un’incredibile incompiuta dell’archeologia sarda, per più di trenta lunghissimi anni, e su questo la spinta incessante di Giovanni Lilliu, l’illuminata iniziativa di un grande archeologo restauratore come Francesco Nicosia e la decisione politica dell’Assessorato alla P.I. della Giunta Regionale, sotto la spinta delle proteste di circoli culturali (con particolare incisività quelli indipendentisti) le ha finalmente destinate al meritato e assai complesso recupero. Ma un’incompiuta molto più grave incombe per via dell’assoluta assenza di un’indagine archeologica approfondita su questo ‘cantone’ nuragico, in un areale che ha dato anche importanti ritrovamenti neolitici e fenicio-punici e rilevanti tracce sia romane sia medievali. Dico questo perché l’ipotesi più che legittima di un ritorno, quasi un doveroso nostos, delle statue, sarebbe solo estetica ed ideologica senza una grande iniziativa di ricerca e valorizzazione che lo rendesse operazione alta e non provinciale.
Il contesto delle statue va ripreso, indagato, ricostruito perché è un racconto decisivo per la comprensione della civiltà nuragica e delle sue relazioni con il ‘mondo ‘esterno’. Un intervento di alto livello su quel Sinis che ha come epicentro Monti Prama è irrinunciabile e decisamente più strategico dei fondi ipotizzati – vere sabbie mobili – per la ricerca di un’ipotetica età del fango. Non investire decisamente su questo sito sarebbe una delle colpe culturali più gravi e imperdonabili.
Il Museo del Betile, luogo di sperimentazione, potrebbe avere riproduzioni della statue di Monti Prama impostando un serissimo discorso sulle copie a ‘regola d’arte’ come previste dalle norme sulla riproduzione dei beni culturali (tramite calchi, ma temo per la delicatezza dell’arenaria e le tenui tracce di pittura rossa; oppure con studi digitali, curiosamente percorsi dalla provocazione dell’IRS, ologrammi e tutte le diavolerie nell’epoca della riproducibilità dell’opera d’arte).
Meglio che le statue tornino ‘a casa’ – ma solo se le garanzie conservative e di collocazione saranno elevate –, costruendo un’occasione eccezionale per ri-conoscere il paesaggio culturale Sinis, espandere la ricerca, promuovere un territorio davvero speciale sapendo che questo sarà un grande servizio per tutta l’isola, e non solo per l’oristanese.
Senza esibizioni pacchiane o inadeguate, evitando di chiudere le statue da qualche parte o farne improbabili vialetti; realizzando una ricostruzione narrativa seria nei pressi di quel mare e di quello stagno dove si volle celebrare un valore e rimandare ad un mito, riconquistando il più possibile il luogo del magico heroon.
Auguriamoci di poter vedere tutto ciò, almeno in costruzione, e comunque di non dover invocare per troppo tempo un altro ritorno.

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