Non ce la faccio più

16 Dicembre 2018

Foto di Valentina S.

[Amedeo Spagnuolo]

“Non ce la faccio più”, questa frase breve, essenziale, perentoria da qualche giorno continua a girovagare in maniera fastidiosa nella mia testa, all’inizio non riuscivo a capire da dove provenisse, non mi apparteneva, questo era sicuro poiché pur dovendo affrontare le mille difficoltà del quotidiano, come la stragrande maggioranza dei miei simili, più che dei miei coetanei, non sentivo di essere giunto a quella fase definita dagli psicologi burnout, patologia mentale che sta diventando il male del secolo. Burnout ovvero sentirsi bruciato nella mente e incapace di andare avanti. Allora ho fatto una piccola ricerca nella mia memoria e dai e dai, mi sono ricordato di una notizia dell’ANSA letta in maniera frettolosa qualche settimane fa sul mio smartphone che riguardava una donna di 48 anni, Marisa Charrere, residente in provincia di Aosta che aveva ucciso i suoi due bambini con una dose letale di potassio e che subito dopo si era suicidata. Nella sua casa era stata trovata una lettera nella quale, tra le altre cose, c’era scritto proprio “non ce la faccio più”. Evidentemente quei terribili fatti erano stati da me derubricati velocemente a causa dei ritmi forsennati che molto spesso ci costringono a spazzare via dalla nostra anima, in maniera cinica e superficiale, tristi emozioni che ci farebbero perdere tempo prezioso, prezioso soprattutto per chi ci utilizza come contenitori in cui scaricare merci per trarne profitto.

Ricordo che in quell’articolo si affermava che la piccola comunità nella quale viveva la donna era rimasta sconvolta nell’apprendere quella notizia poiché la famiglia di Marisa dava l’impressione di condurre una vita apparentemente serena e caratterizzata da una discreta gratificazione sociale. Appariva, appunto, la nostra società ci costringe a fermarci all’apparenza, non abbiamo più il tempo di soffermarci qualche minuto in più sulle situazioni esistenziali dei nostri simili che in tantissimi casi nascondono dietro una falsa serenità angosce e drammi personali inimmaginabili. Probabilmente quella piccola frase continua a insinuarsi fastidiosamente nel mio cervello perché purtroppo trova conferma nell’osservazione della realtà che mi circonda e, nello specifico, di alcuni casi umani che proprio in questi giorni ho, casualmente, avuto modo di scoprire. Persone apparentemente serene che invece nascondono drammi esistenziali che mi procurano una profonda tristezza e un frustrante senso d’impotenza.  In un caso si tratta di due fratelli ultracinquantenni che dopo aver perso entrambi il lavoro sono caduti in una situazione di estrema povertà al punto che sono costretti a vivere nel vecchio appartamentino dei genitori che non ci sono più, senza energia elettrica, si proprio così, entrambi vagano in quella povera casa con l’ausilio di qualche candela. Eppure quando li vedi hai l’impressione che tutto vada bene, certo lo sguardo tradisce una tristezza autentica, ma non così dissimile da quella esperita dalla maggioranza degli esseri umani. Eppure molte delle persone che li conoscono, me compreso, continuano la loro folle corsa rincorrendo l’illusione di una vita che abbia senso, mentre loro due, quando tornano a casa, accendono le candele e chissà, forse per non pensare troppo alla loro condizione, vanno a coricarsi ognuno nella propria stanza in compagnia delle loro rispettive solitudini. Conosco poi il dramma di un trentacinquenne laureato da otto anni con il massimo dei voti che dopo decine di lavoretti saltuari, centinaia di concorsi sostenuti e curriculum spediti, da qualche mese torna a casa, ogni sera, sbronzo, fortunatamente le sue non sono sbronze cattive però quando bussa al portoncino decorato con gli addobbi natalizi, si abbandona, esausto, a un pianto disperato tra le braccia amorevoli della madre. È la disperazione tipica di chi appare, per dignità, sereno ma che vive ogni giorno con l’angoscia nel cuore a causa di una vita senza prospettive.

A questo punto, mi scuso in anticipo per l’autocitazione, mi sembra utile, considerando il tema trattato, richiamare un mio testo pubblicato su questa rivista. In un numero precedente avevo citato dei dati inquietanti che credo possano servire a capire meglio il fenomeno di cui si sta parlando: “secondo uno degli ultimi rapporti dell’Istituto Superiore di Sanità, i sardi sono tra i più depressi d’Italia e, nello specifico, i territori maggiormente interessati sono quelli del nuorese e più in generale delle zone interne della Sardegna. I più colpiti sono coloro che hanno superato i 65 anni e i ragazzi tra i 15 e i 24 anni. Gli indicatori del disagio psicologico scelto da importanti istituzioni (Istituto Superiore della Sanità; Regione Sardegna, Assessorato alla Sanità) sono stati il suicidio e il consumo di psicofarmaci. L’Italia ha un tasso basso di suicidi rispetto ad altri paesi europei, in Sardegna, invece, la lettura dell’andamento del fenomeno ha dimostrato che in 20 anni il tasso si è mantenuto su numeri tre volte superiori a quelli nazionali. Sulle malattie mentali: sono più diffuse in altri paesi europei, l’Italia ha un tasso complessivo del 3 per cento (basso), la Sardegna in un’indagine epidemiologica condotta su un’area significativa ha mostrato un tasso del 6,5 per cento. Sul consumo dei farmaci: l’Italia è al 9º posto in Europa per l’uso di antidepressivi e all’ultimo posto nella spesa per gli antipsicotici. In Sardegna, invece, si registra dal 10 al 30 per cento in più di interventi medici nel settore psichiatrico, un ruolo importante lo svolge il medico di medicina generale che sempre più di frequente prescrive psicofarmaci. Questi dati, risalenti al 2014, sono stati confermati di recente dall’Osservatorio Nazionale Salute che in un suo interessante report ha affermato, tra le altre cose, che i sardi consumano più antidepressivi rispetto ai connazionali delle altre regioni d’Italia. Il rapporto è di 44 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti della Sardegna, a fronte di 39/1000 a livello nazionale”.

Insomma ciò che ha causato il dramma della signora Marisa, pare che nella nostra regione assuma caratteristiche allarmanti per cui possiamo ben dire che qui da noi quel fenomeno dell’apparenza che nasconde drammi profondi e devastanti è forse anche più diffuso. Vogliamo veramente continuare in questo modo? Vogliamo continuare a illuderci che in fin dei conti non stiamo così male solo perché le tantissime persone che vivono nel disagio preferiscono oggi nascondere il loro male di vivere e non condividerlo poiché sentono che là fuori il mondo è cambiato, è diventato più egoista e molto meno solidale. Non so bene come dire, ma mi sembra che il compito principale che una nuova sinistra deve imporsi è proprio quello d’invertire questa tendenza. Bisogna tornare tra quelli che hanno meno, non solo dal punto di vista materiale ma anche per ciò che riguarda la povertà delle relazioni sociali; bisogna vivere i quartieri e i territori più disagiati della nostra regione e dell’Italia intera e provare a convincere le tante persone che oggi sostengono la filosofia dell’odio di matrice salviniana che un modello alternativo alla paura, alla chiusura, all’armarsi c’è ed è quello che è stato vincente, non solo in Italia, dal secondo dopoguerra fino almeno all’età preberlusconiana ovvero il modello della solidarietà e della partecipazione politico – sociale che, tra le altre cose, aiuta a sentirsi meno soli.

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