Piccoli Comuni

1 Settembre 2011

Marcello Madau

La norma che avrebbe eliminato i comuni sotto i mille abitanti pare abbandonata. Anche se in questo susseguirsi di finanziarie febbrili – la politica ha proprio la febbre alta – nulla pare escluso definitivamente. La proposta è comunque avvenuta, e credo sia utile cercare di capire come mai, osservare la natura del processo che si è innescato. Che dimostra un aspetto speciale della riduzione a merce di ogni realtà, nella forma dell’ingresso indifferenziato entro il ‘debito pubblico’ da portare in pareggio. Tutto ciò che comporta una spesa pubblica e sociale può essere oggetto di riduzione e compressione, al di là della sua natura e della sua funzione. E’ l’essere portatori di spesa che omologa. Utili e speculazione di pochi, con i relativi gruppi di potere, gli obiettivi verso i quali trasferire, con scelte classiste, i soldi di tali ‘portatori’.

Però si tratta di un processo – con misure talora sgangherate – a suo modo coerente: una volta posto a caposaldo il pareggio del debito pubblico e quindi il suo (presunto) annullamento, tutto il resto a tale assunto va riportato. Ridotto a merce equivalente, come detto pocanzi. Tentativo di semplificazione notevole per un comando politico unificato dalle potenze economiche europee, che si spinge a proporre tale ‘pareggio’ liberista come dettato costituzionale per tutti i paesi dell’Unione Europea.
Non pochi, anche a sinistra, sembrano subalterni a tale concezione, non vedendo tale formidabile strategia e partecipando di un’ondata qualunquista che – nell’attacco agli sprechi e alla casta – non differenzia valori, gerarchie di problemi e di bisogni, funzioni sociali. La difficoltà se non l’assenza di coscienza di classe è un fatto culturale rilevante.
Quella in corso non è un’operazione di semplice attacco alla democrazia, o ai lavoratori e ai vari ceti e gruppi colpiti.
E’ piuttosto il tentativo generale – quindi un attacco speciale – da parte delle rappresentanze dominanti del capitalismo europeo per la costruzione di basi di potere mediante nuovi margini di utile per i soggetti produttivi e finanziari di riferimento. Come? Attraverso l’indebolimento dei diritti dei lavoratori, il passaggio di servizi basilari per l’esistenza dal pubblico al privato (ad esempio la compressione delle pensioni guadagnate nella vita di ognuno consegna alle assicurazioni facili e ampi guadagni), la riorganizzazione del governo del territorio, naturalmente finalizzato alla realizzazione o all’apertura di nuovi spazi di profitto e potere.

E’ in tale contesto che è più facile leggere e comprendere l’idea di eliminare i piccoli comuni, il tentativo di realizzare una sorta di sinecismo assai autoritario degli attuali insediamenti antropici più piccoli, anche lontani o molto lontani fra di loro. Io trovo che sia (stata?) un’insidia alla democrazia molto seria e radicale. Un tentativo esplicito di indebolire la rete territoriale e le sue rappresentanze per governare su un piano diverso e più agevole la creazione degli utili e la speculazione.
L’isola delle reti e l’Italia delle diversità andrebbero verso una nuova sintesi assai centralista, perdendo la capacità di impiegare l’identità, ovvero il patrimonio culturale e paesaggistico, come strumento di partecipazione e di governo dal basso.

Pensate alla modificazione nel governo del territorio e delle attività speculative (in primis quelle edilizie e vari insediamenti produttivi) nell’ipotesi esemplare dell’accorpamento di cinque comuni sotto i mille abitanti lontani fra di loro, svuotati dei consigli comunali e nella parallela eliminazione della provincia di riferimento.
Ci troveremo, mettiamo, ad organizzare un Piano Urbanistico Comunale molto centralizzato, che non sarebbe più espressione – o almeno, possibile espressione – di una realtà storica minimamente coerente e ancora più dominato dall’indice di edificabilità. Un PUC di fatto a fortissimo comando regionale e statale. L’idea grave di eliminare i consigli comunali dei comuni più piccoli mantenendone però i sindaci equivale a fare tanti piccoli prefetti senza comunità, funzionari del centro. In questo senso, una storia molto antica.
Tale progetto, per ora forse accantonato, rivela perciò la natura pesantemente centralista di questo governo.
(E dimostra che la cosiddetta ‘anima federalista’ impersonificata dalla Lega Nord è in realtà un grumo di interessi locali, traccia autoritaria e spesso razzista che ha nella realtà fallito, soprattutto per chi lo credeva possibile pur non condividendone le posizioni, il compito storico di apportare oggettivamente una nuova sensibilità federalista e identitaria. La normale evoluzione di tale visione etnosovranista, interessata solo alla propria identità ed al proprio tornaconto. Che su questo ha illuso ceti popolari che iniziano ad accorgersene anche in ‘Padania’).

Conseguenza per i beni culturali e paesaggistici? Un colpo mortale, perché risulterebbe tagliata alla radice l’unica reale possibilità di tutela del nostro bellissimo e assai vasto patrimonio, ovvero l’organizzazione territoriale di reti di autogoverno, assieme agli enti di tutela e ricerca, a partire dalle cittadinanze.
Gli attuali comuni, e con suggestivo processo storico i piccoli comuni, sono frutto di una storia della formazione della presenza umana nei luoghi legata alle risorse primarie. Si è certo delineata in maniera complessa e articolata, ma con una generale coerenza.
Oggi le tensioni e i mutamenti attuali di questa storia sono assai forti. E se Marc Augè ci ha indicato la divisione fra luoghi e non luoghi, il racconto dei luoghi sta modificando la sua composizione: anche perché ci sono continue ondate migratorie, e le identità dei nuovi migranti e dei vecchi residenti si giocano spesso relativamente non soltanto nei ‘nuovi luoghi’, ma in quelli digitali dello spazio web e della riscrittura del ricordo, negli immaginari del capitalismo del tempo libero.

A maggior ragione la vita dei piccoli luoghi così carichi di storie, che non può essere misurata dalle soglie del numero degli abitanti, che troviamo talora drammaticamente isolata e comunque a dimensione più umana, è – pur nella inevitabile riscrittura storica dei soggetti – aspetto assolutamente centrale da difendere.
I nostri luoghi sono attraversati da culture e biodiversità che per essere tutelate e sviluppate richiedono un presidio attento e appassionato. E’ in tale ‘protezione’ che può svilupparsi quell’economia della qualità ambientale che sarebbe fondamentale proprio per il nostro territorio.
Sono gli stessi presidi nei quali riaprire i discorsi dell’agricoltura intensiva e delle sue conseguenze con severe scelte qualitative e rispettose dell’ambiente, come accennato in questo numero da Piero Careddu.

Le spinte verso la globalizzazione conducono alla necessità che le esigenze di ‘democrazia sostenibile’ si ricompongano in piani comuni e unifichino in fronti ben più ampi di quelli attuali.
Ma i rischi di un mondo nuovamente ad una dimensione portato da un capitalismo potente nelle sue élites ma globalmente disperato, e perciò più pericoloso, vanno bilanciati anche con una forte difesa dei territori, dalla costruzione di un mosaico riccamente ‘biodiverso’, entro il quale la forma comunale relativa ad un corrispondente territorio storico, soprattutto quella che non corrisponde ai grandi centri urbani, è ancora molto importante.

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