Quale sardo?

1 Luglio 2023

[Francesco Casula]

Ritorna in modo ossessivo, quando si parla di lingua sarda, segnatamente in relazione al possibile insegnamento nelle scuole, un interrogativo: quale Sardo?

   Domanda che spesso viene posta in genere dai nemici della lingua sarda in modo strumentale: la cui risposta sottesa è, per loro, che non esisterebbe un solo sardo ma molti. E’ però anche una domanda legittima fatta da molti che lo amano invece il sardo, ma che sono frastornati e confusi, in modo particolare dai Media, in genere su questa problematica pressapochisti e poco informati.

    Occorre rispondere con nettezza che il Sardo è uno e uno solo: consta di due fondamentali varianti o parlate: il logudorese e il campidanese. Se vogliamo semplificare: perché in realtà ci sono tante parlate, quanti sono in paesi e le città sarde.

   Ma il fatto che esistano tante parlate non mette minimamente in discussione l’esistenza di una lingua sarda sostanzialmente unitaria, in quanto la lingua, per la linguistica scientifica è considerata un sistema o un insieme di sistemi linguistici. Inoltre, la struttura del campidanese e del logudorese è sostanzialmente identica: quando vi sono delle differenziazioni di tratta di differenziazioni o lessicali (dovuta alla diversa penetrazione delle lingue dei popoli dominatori, soprattutto spagnolo e italiano) o differenze fonetiche, di pronuncia. Cioè differenze minime. Peraltro, presenti anche nei diversi paesi della stessa “zona linguistica”. Ma non differenze sostanziali a livello grammaticale o sintattico.

   Del resto, qualcuno può affermare che l’Italiano non sia una lingua unitaria perchè viene parlata con una pronuncia che varia – e molto! – da regione a regione, da paese a paese, da città e città? Qualcuno può pensare che la lingua sarda non sia unitaria perché “adesso” in campidano risulta “immoi” e nel logudoro “como”? Che dire allora dell’italiano “unitario” a fronte di: adesso, ora, mo’, per indicare lo stesso termine? Il fatto che in sardo per indicare asino si utilizzino molti lessemi (ainu, molente/i, poleddu, burricu, bestiolu, burriolu, urragliu, chidolu, cocitu, unconchinu) non è forse segno di ricchezza lessicale piuttosto che di disunità del Sardo? Una lingua fatta di somme e di accumuli in virtù delle influenze plurime indotte dalla presenza nei secoli, di svariati popoli, ognuno dei quali ha influenzato e contaminato la lingua sarda?

   Ma poi, dopo essere stata riconosciuta anche giuridicamente e politicamente come lingua, chi impedisce al Sardo di assurgere al piano e al ruolo anche pratico, di lingua unificata? Così come è successo storicamente a molte lingue, antiche e moderne, nel mondo e in Europa, prima pluralizzate in molte parlate e dialetti e in seguito unificate?

   Negli ultimi 150 anni della nostra storia è successo nell’800 e nel primo ‘900, tanto per fare qualche esempio, al rumeno, all’ungherese, al finlandese, all’estone; e recentemente al catalano, le cui varietà (il barcellonese, il valenzano, il maiorchino per non parlare del rossiglionese, del leridano e dell’algherese) erano assai diverse fra loro e assai più numerose delle varietà del Sardo di oggi.

   Dopo l’incerto procedere, fra molte incomprensioni e non pochi pregiudizi, che accompagnò una prima proposta di standardizzazione della lingua, dal 2006 la Regione si è dotata di Sa limba sarda comuna, uno standard linguistico per i documenti in uscita dall’Amministrazione e di riferimento per le decine di varietà del sardo. Si tratta non di un cocktail di varianti ma di una lingua effettivamente parlata nel centro dell’Isola, qualcosa che sta al sardo come il lucchese stava all’italiano nascente. È un primo incoraggiante inizio: occorrerà proseguire in tale direzione.

   Si potrà ancora obiettare che tra logudorese e campidanese potrebbero esserci differenze poco sostanziali, ma come la mettiamo con il Catalano di Alghero, il Tabarchino di Carloforte e Calasetta, e lo stesso Gallurese e Sassarese?

   I linguisti rispondono a questa obiezione con chiarezza e scientificità: si tratta di Isole alloglotte. Ovvero di lingue diverse dalla lingua sarda, pur presenti nello stesso territorio sardo. Un fenomeno del resto presente in tutto il territorio italiano – e non solo – dove vi sono molte isole alloglotte in cui si parla: albanese, catalano, greco, sloveno e croato oltre che francese, franco-provenzale, friulano, ladino e occitano.

   Questo fenomeno ha radici storiche precise: per quanto attiene al catalano di Alghero è da ricondurre al fatto che nel 1354 Alghero fu conquistata dai catalani che cacciarono i Sardi e da quella data si parlò il catalano, appunto.

   Il Tabarchino parlato a Carloforte (Isola di San Pietro) e a Calasetta (Isola di Sant’Antioco) è ugualmente da ricondurre a motivazioni storiche: alcuni pescatori di corallo provenienti dalla Liguria e in particolare dalla città di Pegli (a ovest di Genova, ora quartiere del comune capoluogo) intorno al 1540 andarono a colonizzare Tabarca (un’isoletta di fronte a Tunisi) assegnata dall’imperatore Carlo V alla famiglia Lomellini. Nel 1738 una parte della popolazione si trasferì nell’Isola di San Pietro. Nel 1741 Tabarca fu occupata dal bey di Tunisi. La popolazione rimasta fu fatta schiava, Carlo Emmanuele di Savoia, re di Sardegna, ne riscattò una parte portandola ad accrescere la comunità di Carloforte. Di qui il tabarchino.

   Diverso è invece il discorso che riguarda il sassarese, considerato dai linguisti un sardo-italiano e il gallurese ritenuto un corso-toscano. E da ricondurre ugualmente a motivazioni storiche.

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