Rileggendo Adriano Olivetti: che non era utopico ma oggi, forse, lo è

10 Novembre 2023

[Gianni Loy]

Che l’esperienza imprenditoriale di Adriano Olivetti sia da annoverare tra i successi più esemplari dell’industria italiana è fuor di dubbio.

Quella fabbrica, per altro verso, non è soltanto il luogo dove si esaltano l’innovazione, l’efficienza, l’organizzazione, ma è anche luogo di sperimentazione di un’idea, di una filosofia, direi persino di una religione, di cui egli è il fondatore.

Adriano Olivetti, sia chiaro sin dall’inizio – in quanto costituisce il presupposto di quanto mi accingo ad esporre – non elabora quella sua filosofia sulla base della propria esperienza imprenditoriale ma, proprio al contrario, prima elabora la sua teoria – altri hanno esposto il percorso e le fonti – e successivamente si trova a doverla applicare all’impresa che governa. La successione è più logica che temporale, visto che i due percorsi, in realtà, procedono in parallelo.

La fabbrica, infatti, a prima vista, potrebbe costituire un ostacolo all’affermarsi di quella filosofia che va predicando per tutto il paese, perché nella fabbrica, come sino a non troppo tempo prima predicavano i papi, la materia esce nobilitata ma l’uomo – e soprattutto la donna – possono uscirne corrotti. La fabbrica, sia che la si osservi attraverso la lente del liberismo – di quello ingentilito ed ossequioso ai comandamenti – dove il padrone, con fare paterno, dovrebbe prendersi cura filiale dei propri operai (su quello più rude non occorre spendere parole); sia che la si osservi attraverso il paradigma del marxismo, che esalta il conflitto di classe proponendosi il rovesciamento dell’ordine costituito, quella fabbrica non sembra proprio il luogo dove possano prosperare “libertà e bellezza”, la libertà e la bellezza che dovrebbero insegnarci ad essere felici.

La fabbrica, quindi, è il luogo dove sarà più difficile dimostrare la fattibilità di quell’ordine, armonico e solidale, immaginato da Adriano Olivetti.

Solo che Adriano Olivetti, da una parte è un intellettuale, un filosofo, un sacerdote che predica l’instaurazione di un nuovo mondo dove regnino l’armonia e il bene ma, per altro verso, è il padrone di un’organizzazione che, secondo i principi dell’economia capitalista, ha quale unico ideale quello di massimizzare il profitto. All’interno della fabbrica si incontrano individui, e non persone, che altro non sono che fattori della produzione, da trattare e da retribuire, in ossequio al comandamento del liberismo, con una salario di pura sussistenza. Sia Pio XII che Adriano Olivetti, in quegli anni, avanzeranno l’auspicio di riconoscere ai lavoratori un salario almeno un po’ più elevato di quanto strettamente necessario alla sopravvivenza, seppure le motivazioni che ispirano quell’auspicio non coincidano del tutto. 

Nel porgere gli auguri di Natale ai propri dipendenti, nel dicembre del 1955, – ricordando e annunciando misure che oggi verrebbero rubricate con il nome di welfare aziendale – Adriano Olivetti riconosceva che tali misure, “seppur importanti, non sostituiscono né il pane, né il vino, né il combustibile e non ci sottraggono al dovere di lottare strenuamente alla ricerca di un livello salariale più alto, quello che concederà finalmente ad ognuno la propria libertà, che consiste nel poter spendere qualcosa di più del minimo di sussistenza vitale”. 

Ma non del solo salario minimo si tratta: Adriano Olivetti scava più a fondo e si chiede – in occasione dell’inaugurazione del nuovo stabilimento di Pozzuoli – se la finalità dell’impresa debba essere esclusivamente la massimizzazione del profitto o se l’impresa non debba avere qualche altra funzione sociale. «Può l’industria darsi dei fini? – egli scrive – Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinate, una destinazione, una vocazione anche nella vita della fabbrica? La nostra società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina e nella sua possibilità di elevazione e riscatto».

È evidente che, per chi va predicando l’avvento di un mondo dove regnino “Armonia, ordine, bellezza, pace”, dirigere un’impresa in coerenza con quei principi costituisca una grande sfida.

Per meglio capire, occorre tener conto di alcuni aspetti dell’esperienza di Adriano Olivetti, non sempre sufficientemente evidenziati che tracciano uno scenario utile per gli approfondimenti. scenario che consente di per il successivo dibattito.

Innanzitutto, occorre ribadire che la sua esperienza non nasce dal nulla. Essa si muove nel solco di una tradizione familiare e di una formazione giovanile. Il padre, ebreo convertitosi da adulto ad una confessione cristiana, appassionato anticlericale, si era dedicato con cura al percorso formativo del giovane Adriano, che non includeva la formazione religiosa. E la madre, figlia di un pastore valdese. E poi i suo interessi giovanili, a cominciare dalla lettura de “I punti essenziali della questioni sociale”, di Rudolf Steiner, autore che avrebbe poi riempito gli scaffali della sua biblioteca, senza trascurare Freud.

Il padre Camillo, oltretutto, aveva un’idea precisa del rapporto da tenere con gli operai. Viene descritto come un uomo che “assumeva povera gente, facendola lavorare al mattino e insegnandole a leggere e scrivere nel pomeriggio”. Padre prodigo di consigli e di raccomandazioni per un figlio destinato alla sua successione. Padre al quale Adriano muove, però, un rimprovero: quella di averlo costretto ad intraprendere studi tecnici, mentre lo scalpitante Adriano avrebbe preferito seguire gli studi classici ed imparare il latino, a conferma di qual fosse, sin da giovane, la sua vocazione, una propensione che i suoi interessi confermeranno più avanti.

Il secondo aspetto è il rapporto con la fabbrica. Secondo un diffuso costume dell’imprenditoria familiare, anche Adriano fu mandato a fare esperienza di fabbrica ancora adolescente. Egli così descrive quell’esperienza: “Imparai così, ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai”.

Dopo quella prima impressione, che conferma che il lavoro in fabbrica, come comunemente praticato, non coincideva con i sui istinti, ha approfondito la le proprie conoscenze nelle fabbriche degli Stati Uniti. Ha conosciuto il fordismo e il taylorismo. Da imprenditore non ha potuto che apprezzare i vantaggi derivanti dall’efficienza di quei modelli ritenendo che quella cultura potesse portare, secondo quanto aveva osservato in America, ad una situazione di piena occupazione.

Tuttavia, riteneva che, nell’importarli in Italia, andassero adattati. Occorreva conciliarli con quella sua visione, che qualcuno ancora definisce utopica, per poterli adattare alla propria visione illuministica. Per un certo verso illuministica, ma non troppo, se è vero, come spiega Geno Pampaloni, che la natura di quel pensiero era anche di carattere profetico e religioso.

Pertanto, la fabbrica, per potere essere inserita nella sua visione, per alcuni versi neo-platonica, dovrà essere capace di svolgere un ruolo funzionale all’avverarsi della visone, tutta spirituale, della società: l’armonia, l’ordine la bellezza…

Da qui, per un verso, la ricerca di una funzione della fabbrica diversa dal solo profitto, di cui ho già detto, e, per altro verso, l’introduzione di azioni concrete finalizzate ad una trasformazione della fabbrica che risulti sintonica con il suo iperuranio, nel quale la finalità della fabbrica è, anche, quello di perseguire il bene dei dipendenti e non soltanto il profitto. Fabbrica che dovrà produrre “il bene” e non semplicemente “i beni”.

Una cosa, quindi, sono le idee che stanno nell’altro mondo, altro la dura e faticosa realtà di tutti i giorni, rappresentata delle condizioni penose della classe operaia e dalle regole spietate del profitto.

La peculiarità di Adriano Olivetti è che intende provarci, con juicio, alternato a slanci volontaristici, se si vuole, ma sempre con tenacia e con perseveranza. Quindi Adriano Olivetti non è un utopista, come spesso si racconta; non lo è affatto, per la semplice ragione che di fatto ha trasformato la fabbrica in un laboratorio dove sperimentare – ed effettivamente ha sperimentato – pratiche e modelli indirizzati al superamento degli aspetti più brutali dell’organizzazione aziendale, e lo ha fatto in coerenza con i principi spirituali della verità, della giustizia, dell’amore e della bellezza. E lo ha fatto a tutto tondo, curando anche aspetti come quelli relativi all’estetica, all’architettura, al bello. Non tutti gli hanno creduto sino in fondo, se è vero, come racconta Giuseppe Lupo, che tra i “chierici”, gli intellettuali di cui si era circondato ed aveva accolto nella fabbrica, covava qualche scetticismo. 

Le relazioni industriali partivano da una premessa ideologica, ovverossia dal rifiuto dei due modelli contrapposti che si contendevano la scena, quello capitalista e quello marxista, ed esploravano una terza via, collaborativa e non conflittuale. Quella scelta intaccava i territori ipotecati dalle due fazioni che si contendevano il campo, Così Adriano Olivetti si faceva nemici a destra e a manca, e si inimicava persino la Chiesa, per quanto fosse l’organizzazione più in sintonia con la sua visione. Al modello di gestione delle relazioni sindacali, si aggiungono le azioni realizzate all’interno della fabbrica e nelle sue periferie. Istruzione, edilizia, trasporti, tempo libero, conciliazione con la vita familiare e tanto altro. Alcune di queste si sono poi diffuse nella più o meno recente pratica di molte imprese, per libera scelta datoriale, o a seguito della contrattazione o perché introdotte dal legislatore.

Con riguardo a questi temi, occorre tener conto che facciamo riferimento ad un periodo assai lontano nel tempo, caratterizzato da un contesto culturale profondamente diverso. Facile, ad esempio, parlare oggi di cultura diffusa, ma quando la fabbrica di Olivetti si apriva alle biblioteche e si organizzavano eventi culturali, in Italia esisteva ancora l’avviamento professionale secondo il modello disegnato da Gentile, nella scuola si insegnava (solo alle ragazze) l’economia domestica, e l’ingresso delle donne in fabbrica non era guardato con favore. Il diritto al lavoro delle donne, proclamato nella formula costituzionale, era temperato dal richiamo al ruolo già esaltato dal regime fascista. Erano state superate (e neppure tutte) le formule giuridiche, ma quel modello era ancora radicato nella mentalità. Ciò consente di comprendere la portata delle “innovazioni” introdotte da Adriano Olivetti nella sua Fabbrica.

La puntuale ricostruzione del prof. Mastinu ha richiamato, con estrema chiarezza, le condizioni che hanno consentito “l’esperimento” di Adriano Olivetti. Ha ricordato che solo sinché la fabbrica produce profitti è consentito scongiurare i licenziamenti per riduzione di personale, mantenendo fede all’impegno che Adriano aveva ereditato dal padre Camillo. Allo stesso tempo, ha ricordato come le innovazioni in materia di welfare aziendale vengono meno via via che lo Stato sociale le fa proprie, riducendo, o annullando, quel differenziale che nella fabbrica di Adriano Olivetti era tanto evidente, per qualità e quantità, da suscitare preoccupazione presso altri imprenditori non altrettanto “illuminati”.

La successiva evoluzione della fabbrica Olivetti e l’evolversi della situazione economica del paese, in conclusione, non consentono di immaginare che quel modello, maturato in un contesto profondamente differente e in presenza di contingenze oggi non attuali, possa essere riproposto. Le circostante sono cambiate radicalmente. Non siamo più in presenza di due modelli contrapposti da superare attraverso una terza via – soluzione che, al tempo della guerra fredda, molti vagheggiavano -. Oggi governa un solo modello, che non è quello uscito vincente dal confronto con il socialismo reale, bensì una forma di capitalismo, più estremo, privo di quei temperamenti che lo avevano caratterizzato per buona parte della seconda metà del secolo scorso, probabilmente funzionali a reggere il confronto con l’altra campana. Un potere costruito sulla base di un liberismo sempre più sfrenato capace di prevalere sul potere statuale.

In più emergono fenomeni nuovi, come la tendenziale scomparsa della classe media e l’allargamento del divario tra ricchi e poveri; l’acuirsi del fenomeno migratorio che compensa il divario tra le economie ricche, con elevata percentuale di tecnologia e di lavoratori altamente qualificati, e quelle povere a livello di sussistenza. 

Oggi, ripensare ad Adriano Olivetti è utile ed opportuno. Ma non può significare, sia ben chiaro, la riproposizione del modello all’epoca sperimentato nella fabbrica e nella società; un modello che, oltretutto, quando si misurò nella dimensione nazionale, non ottenne – salvo che nel proprio territorio – il successo sperato.

Ripensare, oggi, al pensiero di Adriano Olivetti, significa, piuttosto, tornare a porsi le stesse domande che egli si poneva, e che proponeva alla società tutta. Domande che, nonostante l’apparenza, non riguardavano essenzialmente la fabbrica, bensì, l’intera società ed il sistema delle relazioni umane. La fabbrica è il luogo dove Adriano Olivetti concepisce e sperimenta la propria filosofia, perché la sorte lo ha chiamato vivere tale esperienza, È per questo che si chiede, ripetutamente, se l’industria non possa darsi dei fini, se questi fini possano trovarsi semplicemente nell’indice dei profitti, se non vi sia, al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una vocazione anche nella vita della fabbrica. Ma non se lo chiede per soddisfare un’esigenza di filantropia, o di mecenatismo – esperienze che nella storia dell’impresa non è difficile incontrare – né per differenziarsi dal resto del mondo imprenditoriale. Quel clima che sperimenta all’interno propria fabbrica, con il suo welfare, con le sue relazioni sindacali, egli lo propone, quale modello all’intera società.

Il suo modello non è la trasformazione della fabbrica. Tale obiettivo è strumentale e necessario per il raggiungimento dell’obiettivo; ma il modello, “l’utopia”, è quella di una “nuova e autentica civiltà indirizzata a una più libera, felice, consapevole esplicazione della persona umana (Olivetti 2001, p. 102). È all’interno di tale visione che egli si impegna per “rendere la fabbrica e l’ambiente circostante economicamente solidali” (Olivetti 1952, p. 11).

Un progetto per la società, quindi, non espressione di mero volontarismo. Un progetto che richiede l’intervento dello Stato, per il raggiungimento del benessere materiale e spirituale della società, improntato all’umanesimo e alla solidarietà e finalizzato alla ricerca della felicità.

Non è facile immaginare come un tale obiettivo possa essere perseguito all’interno della fabbrica . Soprattutto se si tiene conto di quanto sia labile il collante – etico – che dovrebbe tenere assieme tutti gli elementi. Se è vero che “le forze materiali non sono mai intese da Olivetti come fini a sé stesse, ma sempre come strumento al servizio di mete spirituali” e che “l’impresa può vivere e crescere solo attraverso il proprio trascendimento spirituale indotto da una costante tensione religiosa”. (A. Peretti, in FabbricaFuturo, 25.12. 2012).

Le sue realizzazioni, il suo welfare, altro non sono che anticipazioni di un modello che dovrebbe estendersi all’intera società e quindi destinate ad essere superate. Ciò è avvenuto solo in parte. Il liberismo economico – seppure imbellettato dall’ambigua lusinga della responsabilità sociale dell’impresa – non tollera altri Dei se non il profitto, unico vero oggetto di devozione.

La comunità, piuttosto che esprimere solidarietà, si dissolve nell’individualismo.

La fabbrica, ritornando al programma di Adriano Olivetti, dovrebbe essere posta al servizio della verità, della giustizia, della bellezza, dell’amoreVerità intesa come libertà di ricerca e di progresso scientifico; giustizia, concepita come equa ridistribuzione a chi lavora della ricchezza da lui prodotta; bellezza, espressione visibile della raggiunta armonia tra esigenze materiali e spirituali; amore, rivolto all’essere umano, [alla] sua fiamma divina, [alla] sua possibilità di elevazione e di riscatto. (Olivetti 2001, p. 28).

A guardarsi intorno, oggi, rimane un dubbio: se si tratti di un reperto di archeologia rinascimentale o dell’ordito di una novella di fantascienza.

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