Sulle regioni, la Corte Costituzionale e le lingue minoritarie

10 Novembre 2023

[Marinella Lőrinczi]

Giustamente, in un articolo recente si lamenta in apertura che “la Repubblica Italiana non abbia mai ratificato la Carta Europea delle Lingue [regionali o minoritarie]”. L’Italia non è l’unica e si trova – aggiungiamolo – in ‘buona’ compagnia.

L’adesione ratificata non è stata portata a termine né dalla Francia, né dal Portogallo, né dall’Islanda, insieme con qualche altro stato di dimensioni meno estese. Per chi non conoscesse la Carta, emanata nel 1992, la relativa wikivoce contiene molte informazioni interessanti.

Come momento preparatorio importante dei concetti fondanti racchiusi successivamente nella Carta, si devono ricordare alcune clausole dei Trattati di Parigi (1947) concludenti la II Guerra mondiale, secondo le quali “Le nazioni sconfitte si impegnarono a prendere tutte le misure necessarie per garantire alle persone al di sotto della loro giurisdizione, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione, il godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali, compresa la libertà di espressione, di stampa e  pubblicazione, di culto, di opinione politica e di pubblica riunione …”. E vale la pena di rileggere, nella fonte indicata (par.  sulle Clausole politiche), anche le frasi successive, per ravvivare la memoria storica ed applicarla al presente molto travagliato.

Al contrario, ad un’altra frase dell’articolo che indicavo in apertura è difficile assentire: “…  che fine ha fatto la modifica dello Statuto Speciale [della Regione Autonoma della Sardegna] per assicurare l’insegnamento del sardo a scuola, consigliata dalla stessa Corte Costituzionale?” Di quale modifica dello Statuto si tratterebbe, anzitutto, oppure si vorrebbe auspicare una tale modifica? Ah, ecco, ci siamo, dobbiamo probabilmente rivolgerci alla Legge Regionale del 3 luglio 2018, n. 22, in materia di Disciplina della politica linguistica regionale.

Una malformulazione inutilmente criptica, o allusiva, non migliora la compresione, anzi, la confonde e rallenta, dal momento che non tutti sono tenuti ad avere costantemente in mente questo riferimento legislativo nonché il testo dello Statuto. Per cui è opportuno verificare.

Cosa afferma la legge 22/2018 riguardo all’insegnamento scolastico degli idiomi minoritari parlati in Sardegna? Anzitutto le parole scuola/scolastico, al singolare e al plurale, occorrono 47 volte nel testo della legge (la prima 16 volte). L’alta frequenza di un sostantivo o di un aggettivo (e del suo significato), cioè la sua ripetizione, è sempre indicativa di una rilevanza non solo semantica ed euristica, ma anche politica (trattandosi di un testo legislativo), quasi inutile dirlo.

La questione generale della frequenza lessicale è, in verità, più complicata di questo, ma fermiamoci qui. Per essere più corretti occorrerebbe stabilire la frequenza di tutte le parole di un testo (o di un cosiddetto corpus), e di conseguenza il loro rango nella lista finale. Comunque sia, e per fare un altro esempio, le parole derivate dalla radice insegn- (insegnamento, insegnare, insegnanti) sono utilizzati 28 volte, quasi sempre in relazione all’insegnamento degli/negli idiomi di minoranza.

Ma il testo vigente dello Statuto della Regione Sardegna è stato “coordinato, aggiornato al 30 dicembre 2013” (questo è dichiarato anche recentemente, il 04/05/2023). Quindi lo Statuto aggiornato è anteriore alla L.R. n. 22 emanata nel 2018.

Lo Statuto così recita, all’articolo 5: “…  la Regione ha facoltà di adattare alle sue particolari esigenze le disposizioni delle leggi della Repubblica, emanando norme di integrazione ed attuazione, sulle seguenti materie: a) istruzione di ogni ordine e grado, ordinamento degli studi; …”. E questo è infatti avvenuto nel 2018, come descritto.

Quindi la L.R. è in qualche modo complementare o integrativa rispetto allo Statuto, che però rimane un testo a se stante. Tutto qui. Non è modifica ma integrazione. Sufficiente dirla in questo modo.

E’ altrettanto fuorviante la formulazione “insegnamento del sardo a scuola, [in una modifica di Statuto] consigliata dalla stessa Corte Costituzionale”. Tale materia costituisce terreno d’intervento della Corte Costituzionale? e a quando risalirebbe la relativa discussione e decisione? Anzitutto “In base all’articolo 134 della costituzione … la corte giudica sulla legittimità delle leggi e degli atti aventi forza di legge emanati dallo stato e dalle regioni. È competente poi anche nel dirimere i conflitti di attribuzione tra i poteri dello stato, tra lo stato e le regioni o tra le regioni. Etc.” (i neretti sono sempre di chi scrive).

Fatta questa precisazione, la Corte italiana è mai intervenuta in materia di insegnamento scolastico di un idioma minoritario? La risposta è: Sì.

Vediamo perché e come, nella massima sintesi. Per illustrare e concludere è quindi sufficiente presentare il caso di una legge della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Legge 18 dicembre 2007, n. 29: Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana, con rilievi della Corte Costituzionale (sentenza del 2009). Nel testo linkato della legge basta, semplicemente, cercare con la parola “costituzionale”, per individuare i punti d’intervento. Ad esempio al Capo III (Interventi nel settore dell’istruzione), art. 12  (Lingua friulana ed educazione plurilingue), per il comma 3 ne è stata “Dichiarata, con sentenza della Corte Costituzionale n. 159, depositata il 22 maggio 2009, l’illegittimità costituzionale …”. Detto comma prevedeva che “… al momento dell’iscrizione i genitori … comunicano alla [scuola] la propria volontà di non avvalersi dell’insegnamento della lingua friulana.” Cosa contestava la Corte? “La legge n. 482 del 1999 [Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche] …  stabilisce … che «al momento della preiscrizione i genitori comunicano alla istituzione scolastica interessata se intendono avvalersi per i propri figli dell’insegnamento della lingua della minoranza»”, esprimendo, quindi, esplicitamente e apertamente il loro assenso per iscritto, o negandolo (magari lasciando la casella in bianco); invece secondo la legge regionale, al contrario, si doveva leggere un implicito  all’insegnamento del friulano, un assenso quindi, se non si rispondeva affatto (il cosiddetto silenzio assenso); ciò creava evidente imbarazzo a chi non voleva avvalersi dell’insegnamento linguistico ma doveva dichiararlo esplicitamente, mentre quelli del potevano tranquillamente tacere. In altre parole, si configurava “un regime di obbligatorietà che può interrompersi solo con la richiesta [dichiarata] di esonero.” Quell’articolo di legge generava, quindi, discriminazione, oltre che un prevedibile forte disagio individuale.

Questo è un caso relativamente noto, ma valeva la pena di riepilogarlo in relazione all’insegnamento del sardo a scuola, presentato come presunto consiglio della stessa Corte Costituzionale.

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Della stessa autrice Identità e politica linguistica in Sardegna (16 Ottobre 2019)

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