Ritorno alla scuola del tempo che fu

1 Ottobre 2008

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Mario Cubeddu

Si torna a scuola. Mai come quest’anno in mezzo al frastuono di proposte strampalate, di discorsi a vanvera. Come se anche la scuola italiana fosse stata presa nel frullatore della chiacchiera calcistica da bar sul giocatore che messo in formazione  cambierebbe tutto e su quell’altro disgraziato da cui invece dipendono tutte le sconfitte. E quindi, per tornare a vincere sul terreno della competizione scolastica internazionale, forse è il caso di far mettere i grembiulini a bambini e bambine, ragazze e ragazzi; forse è il caso di ricorrere a un unico mister/ maestro, tre sono troppi, la tattica di gioco si fa confusa; e poi bisogna tornare alla severità di una volta con voti in condotta veri, 5 e non 7 (“Con il 7 in condotta- ha detto il Ministro- si viene promossi, mentre l’insufficienza fa media…”), che incombono su bambini e ragazzi ribelli e riottosi. Cartellino rosso ed espulsione, quando ci vuole ci vuole. Il quadro ideologico che giustifica l’attivismo frenetico del gabinetto Berlusconi e del ministro Gelmini è quello del ritorno al merito: premiare chi si impegna, fatica, rispetta le regole, lavora duro per ottenere il meritato premio.  Ma chi ha esperienza decennale di scuola, di alunni e delle loro facce, non può fare a meno di nutrire dei sospetti. Il mondo di Berlusconi richiama istintivamente alla memoria dell’insegnante di consumata, diciamo anche logorata, esperienza, quegli alunni e alunne, generalmente di buona famiglia, pluriripetenti, che facevano brevi comparse per qualche giorno all’inizio dell’anno e sparivano dopo poche settimane di frequenza saltuaria. L’insegnante scopriva col tempo che questi giovani erano passati  alle scuole private di recupero anni, riuscivano bene o male a diplomarsi da privatisti e trovavano subito una degna sistemazione lavorativa, non solo nel settore privato, ma anche in quello pubblico attraverso misteriosi percorsi di assunzione.  A queste vicende di scuola e di vita fa pensare il ministro Gelmini, severa fustigatrice dei vizi scolastici italiani, nostalgica della scuola del tempo che fu e furbetta che va a sostenere l’esame da procuratore legale dove i candidati  sono quasi tutti promossi, evidentemente senza tenere molto conto di impegno e merito.  L’aspetto invece più serio di questa ondata di proposte di cambiamento per la scuola italiana riguarda le conseguenze della “razionalizzazione delle spese” nel campo dell’istruzione: nuovi criteri per la formazione delle classi e aumento del numero degli alunni, revisione dei programmi di studio e del quadro orario. Col risultato di tagliare circa 110.000 posti, 67.341 docenti e 42.500 appartenenti al personale Ata. Ma gli insegnanti che resteranno a scuola non debbono illudersi su un adeguamento dei loro stipendi ai livelli dei loro colleghi europei. I 7,8 miliardi risparmiati in 4 anni non andranno in busta paga, ma in una non ben definita “formazione permanente” e in “premi” ai meritevoli. Se un sistema scolastico è destinato a rispecchiare i caratteri culturali e antropologici della classe dirigente che gli dà l’impronta, non c’è da stare allegri. Tanto più che manca un discorso alternativo credibile. La scuola italiana ha certamente bisogno di cambiamenti coraggiosi, di “innovazione” e non di “conservazione”. Alla sinistra sono mancati coraggio e lungimiranza e oggi si presenta debole su un fronte in cui aveva conquistato una indubbia egemonia. Una pura e semplice “restaurazione” nella scuola pubblica italiana realizzata dal governo Berlusconi senza una seria opposizione sarebbe sul piano simbolico il segno di una sconfitta irrecuperabile. Per questo le sue migliori energie sono chiamate a una risposta urgente.  Intanto l’anno scolastico è ricominciato. Pietro, il ragazzo di Seneghe che compirà 16 anni a dicembre, dovrà frequentare sino alla scadenza dell’età. Invidia il suo amico che compie gli anni il 14 settembre e che si trova quindi liberato dall’incombere di assistenti sociali e carabinieri. A dar retta ai genitori, Pietro ama gli animali, accudisce con amore conigli e galline, è già più pastore che studente, aspetta di compiere i 18 anni per richiedere il contributo di 50.000 euro che farà di lui un “giovane imprenditore agricolo”, merce ben più rara e preziosa di un ragioniere disoccupato. Pietro potrebbe fare il pastore e allo stesso tempo leggere, imparare, capire sempre meglio il mondo in cui vive. Ma la scuola, il sistema dell’istruzione, non si occuperà più di lui. Sarà condannato all’analfabetismo di ritorno in cui si dice che vivano milioni di italiani? O non potrebbe esserci anche per lui uno spazio educativo comunitario che lo accompagni in un percorso continuo di apprendimento? Con bravi insegnanti, naturalmente, non funzionali alla trasmissione delle ideologie di stato, ma capaci di interagire con la vita e le esperienze delle donne e degli uomini del proprio tempo.  E dirigenti scolastici che rendano anzitutto conto alle stesse comunità, alle famiglie e ai lavoratori della scuola; diversi da quello che nei giorni scorsi in una riunione di dirigenti delle scuole della Sardegna centrale, quelle con maggiori difficoltà,  a chi gli chiedeva un parere sulla situazione attuale e sui provvedimenti della Gelmini rispondeva: “ Come funzionario dello Stato devo applicare le norme, quindi non esprimo giudizi.” Persone con tali complesse funzioni sociali, culturali, educative, con il governo della scuola nelle loro mani, si ritengono puri e semplici funzionari dello Stato, in attesa dell’arrivo di norme da applicare. E gli occhi stanno ben chiusi di fronte alla spreco quotidiano di umanità e cultura che si consuma sui banchi delle loro scuole.

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