Il ritorno dell’emigrato nel Paese d’origine e i problemi connessi al suo reinserimento

16 Gennaio 2018

Foto di Roberto Pili

[Gianfranco Sabattini]

Il problema del ritorno degli emigrati nei loro Paesi d’origine non è nuovo, ma dopo che i flussi migratori hanno assunto la consistenza degli ultimi anni, esso ha focalizzato l’attenzione delle classi politiche dei Paesi europei maggiomente colpiti dall’immigrazione, anche in considerazione della previsione che la pressione migratoria sia destinata a conservarsi nel prossimo futuro, a causa dei persistenti squilibri demografici ed economici esistenti fra i Paesi di provenienza e quelli di destinazione dei migranti.

Il ritorno è sempre dipeso da vari fattori, che di tempo in tempo hanno motivato i migranti a scegliere la via del rientro nel proprio Paese d’origine; il ritorno può essere definitivo o temporaneo, forzato o volontario; sinora, quello forzato è stato il più frequente, potendo ricorrere in seguito ad espulsione da parte dello Stato ospitante o a causa di altri fattori, molto residuali, che potevano motivare il migrante a decidere a tornare in Patria. Negli ultimi anni, come viene sottolineato dalla sociologa marocchina Meryem Lakhouite, del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, in “Migrazione e sviluppo: il migrante di ritorno può essere visto come un agente di sviluppo nel proprio Paese d’origine?” (Africa e Mediterraneo, n. 86/2017), “si assiste anche a un nuovo tipo di ritorno […], che prevede sì la volontarietà da parte dei migranti ma è forzato dalla crsi economica dell’Europa”; ciò obbliga il migrante, a parere della sociologa, a prendere la via del ritorno, cioè ad attivare una forma di migrazione inversa, come strategia per un possibile miglioramento, dopo il suo mancato inserimento lavorativo in Europa, delle proprie condizioni economiche e sociali; motivazione, questa, che, originariamente, aveva spinto il migrante ad abbandonare il Paese natio.

E’ utile considerarare questa distinzione per due ragioni significative: innanzitutto, come rileva la sociologa, perché essa consente di cogliere correttamente il significato della relazione esistente tra migrazione, ritorno e sviluppo dei Paesi arretrati; in secondo luogo, perché essa risulta oggi connessa alle consistenti risorse che molti Paesi donatori destinano allo sviluppo dei Paesi arretrati, proprio per impedire all’origine che la loro situazione economica e sociale motivi i propri cittadini ad alimentare i flussi migratori.

Tuttavia, se l’idea di supportare lo sviluppo economico dei Paesi arretrati anche con il coinvolgimento della migrazione di ritorno è auspicabile, non sempre però, afferma Meryem Lakhouite, sono presenti le condizioni necessarie affinché questo possa avvenire. E’ necessario perciò che i Paesi che finanziano gli aiuti allo sviluppo valutino razionalmente i possibili effetti che il ritorno dei migranti può provocare sulle condizioni economiche e sociali del loro Paese d’origine.

Per analizzare le complesse relazioni che legano l’aiuto allo sviluppo con i processi migratori, occorre tener presente che tradizionalmente la letteratura economica ha sempre sostenuto l’idea, fondata su numerose ricerche empiriche, che le rimesse dei migranti, rappresentando la maggiore contropartita economica dei processi d’emigrazione, potessero costituire un motore di sviluppo per i Paesi riceventi, riducendo il loro fabbisogno di risorse fornite dai Paesi donatori dell’aiuto.

Un consistente numero di studi svolti nei decenni scorsi ha affermato l’impatto positivo dell’emigrazione sullo sviluppo locale, in quanto i migranti, con le loro rimesse, venivano considerati operatori in grado di “apportare uno sviluppo positivo alla propria comunità di appartenenza”; anche la Banca Mondiale considerava il trasferimento di risorse finanziarie alimentato dagli emigranti un “fattore decisivo”, seppure eterogeneo, per l’economia di molti Paesi arretrati. In questo modo, per lungo tempo, le rimesse sono state considerate un sostituto dell’aiuto internazionale, con la tendenza a ritenere quest’ultimo tutt’al più come un complemento.

Le rimesse hanno certamente rappresentato valide opportunità per i Paesi riceventi, ma l’evidenza empirica e l’analisi delle esperienze vissute dai singoli Paesi arretrati hanno evidenziato come non sempre sia possibile coglierne gli effetti utili. Per capire perché le rimesse possano non tradursi in un motivo di crescita e sviluppo e in un valido strumento per contrastare la disoccupazione dei Paesi arretrati, basta ricordare che spesso, com’è accaduto negli anni più recenti, l’emigrazione ha tratto origine dala situazione economica perennemente in crsi dei Paesi arretrati. Le stesse cause che erano alla base della propensione ad emigrare possono impedire che il potenziale sviluppo economico intrinseco alle rimesse possa realizzarsi.

Inoltre, alcune ricerche – afferma la Lakhouite – hanno dato alla relazione “migrazione-sviluppo”, fondata sul ruolo positivo delle rimesse, “un’accezione negativa, dal momento che queste creano disuguaglianza nelle comunità locali”, ma anche perché possono “contribuire alla creazione di disequilibri economici e sociali all’interno della popolazione, oltre a provocare forme di dipendenza nei membri della comunità o della famiglia dei migranti verso le rimesse, riducendo così il tasso di occupazione”. A ciò va anche aggiunto che le rimesse possono essere depotenziate del loro possibile contributo alla crescita e allo sviluppo dei Paesi arretrat,i quando in tali Paesi non esistono infrastrutture e servizi pubblici adeguati e sono diffuse corruzione e inficcienza del sistema giudiziario.

L’insieme delle osservazioni sin qui svolte suggerisce, non solo che le rimesse possono non essere di per sé strumento idoneo a promuovere la crescita e lo sviluppo dei Paesi riceventi, ma anche che esse, le rimesse, non sempre possono risultare un valido sostituto dell’aiuto internazionale. D’altra parte, posto che l’aiuto internazionale debba costituire lo strumento irrinunciabile, oltre che per compensare i limiti delle rimesse, anche per attuare, da parte dei Paesi maggiormente afflitti dai disagi determinati dai recenti flussi migratori, una politica che stimoli il ritorno dei migranti nel loro Paese d’origine, occorrerà che i Paesi donatori tengano conto dei motivi di fallimento cui sono andate incontro spesso le aspettative di crescita e sviluppo fondarte sulle rimesse.

Una connotazione postiva della relazione “migrazione-sviluppo” potrà però essere assicurata dalle politiche di aiuto internazionale, a patto che siano rimossi tutti quei fattori economici, istituzionali e infrastrutturali che hanno normalmente limitato l’impatto delle rimesse. A tal fine, sarà necessaria una stretta collaborazione tra i Paesi d’origine dell’emigrazione e i Paesi finanziatori dell’aiuto. Inoltre, considerato che i fattori che possono ostacolare le ricadute positive degli aiuti sono specifici per ogni area, non sarà possibile agire sulla base di modelli generali di intervento, per cui nella formulazione delle politiche di crescita e sviluppo sarà necessario il coinvolgimento degli immigrati che “ritornano”, oltre che nella fase di progettazione, anche in quella di realizzazione degli interventi. Ciò, perché gli immigrati, con la loro conoscenza del contesto locale di provenienza, possono contribuire a limitare i deficit informativi che possono ostacolare il successo dei progetti d’investimento, individuando gli ostacoli che possono frapporsi ad un pieno dispiegamento del potenziale di crescita e sviluppo della migrazione di ritorno.

Occorrerà ancora che i Paesi finanziatori degli aiuti, finalizzati a promuovere e a sostenere il ritorno degli immigrati nel loro Paese d’origine, tengano conto del fatto – sottolineato dalla Lakhouite – che “un impatto positivo del ritorno è vincolato alle circostanze vissute all’estero dai migranti: se essi hanno subito un certo tipo di sfruttamento basato su esperienze precarie a livello lavorativo ed abitativo, e su discriminazioni di vario genere, raramente possono influenzare in maniera positiva l’ambiente circostante in patria”. Ciò significa che i migranti di ritorno non potranno essere considerati come un unica platea di soggetti omogenei, ma al contrario come un gruppo eterogeneo; per questo motivo, l’impatto sulla società dei Paesi di origine può essere differente, al punto da escludere che le politiche d’intervento considerate potenzialmente convenienti per alcuni Paesi possano esserlo anche per altri.

Una politica finalizzata a favorire il ritorno dei migranti al loro Paese d’origine non è priva di ostacoli, non solo per i Paesi finanziatori dell’aiuto, ma anche per quelli ai quali l’iuto è destinato. Per i Paesi arretrati, infatti, il ritorno è di solito all’origine di molti problemi; il principale dilemma che essi devono risolvere consiste nella scelta del modo in cui governare il problema dell’emigrazione che ritorna e del come ridurre i possibili effetti negativi. Ciò può causare nei confronti dell’economia, e più in generale dell’intero sistema sociale. Il dilemma è di difficile soluzione, in quanto il ritorno dell’emigrato comporta la necessità, in astratto, di facilitane la reintegrazione nella patria d’origine. Ciò in conseguenza del fatto che la fuoriuscita dal Paese arretrato di una parte della propria popolazione produce mutamenti nella struttura sociale che rendono problematico il reinserimento del migrante di ritorno

Nel breve e nel lungo periodo, la fuoriuscita di una parte della forza lavoro dal Paese arretrato può comportare alcuni vantaggi, quali la diminuzione del tasso di disoccupazione, la riduzione dei potenziali conflitti sociali, ma anche e soprattutto la diminuzione delle rimesse degli emigati, che possono concorrere a migliorare i livelli di consumo, ad aumentare gli investimenti interni e a favorire il processo di modernizzazione interna del paese arretrato. D’altra parte, l’emigrazione può avere anche effetti negativi sull’economia e sulla società del Paese arretrato che la subisce; solitamente i flussi di migranti includono i soggetti più giovani, dotati della migliore formazione, ma anche più intraprendenti; ciò causa cambiamenti negativi nella struttura delle forza lavoro e, a volte, scarsità di manodopera in alcuni settori produttivi; per questo motivo, nel lungo periodo, è possibile un declino della consistenza demografica, nonché uno squilibrio nella distribuzione dei componenti la popolazione per classi di età.

Così, come per il fenomeno migratorio, anche la stima degli effetti del ritorno dell’emigrato è difficile. La formulazione di un’appropriata politica finalizzata a risolvere i problemi implicati dal ritorno dell’emigrato solleva non poche domande: che cosa spinge l’emigrato a ritornare al proprio Paese d’origine? Sino a che punto il ritorno è determinato da decisioni autonome dell’emigrato, nonché da possibili influenze esercitatre su di lui da una eventuale recessione dell’economia del Paese ospitante? E’ il ritorno desiderabile dal punto di vista degli interessi dello Stato del quale l’emigrato è cittadino?

Per formulare valide risposte a queste domande, il Paese arretrato deve poter disporre al proprio interno di una stabile condizione economica e sociale. Uno dei principali problemi sollevati dal ritorno dell’emigrato riguarda la valutazione della convenienza che il suo ritorno rappresenta per l’economia e la società del Paese arretrato. Sicuramente, il ritorno dei migranti, specializzati e dotati di risorse economiche accumulate nello Stato ospitante, è conveneiente; per essi il reinserimento nel mercato del lavoro sarà senz’altro facilitato, potendo il migrante di ritorno contribuire a migliorare la prosperità del suo Paese; se però non esiste alcuna delle condizioni indicate, non esisterà alcuna garanzia che il ritorno possa essere di una qualche utilità per il Paese arretrato.

Ciò significa che non tutti i “ritorni” possono risultare vantaggiosi per lo Stato e la società d’origine dei migranti; ciò accade quando i Paesi arretrati hanno a che fare con una sovrappopolazione, con surplus di forza lavoro e con possibili tensioni sociali; ma anche quando lo Stato arretrato perde la possibilità di disporre dei vantaggi assicuarati dalle rimesse che, con il ritorno degli emigrati, vengono a cessare.

In conclusione, il ritorno dell’emigrato, se messo in relazione col suo possibile contributo alla crescita e allo sviluppo del proprio Paese, è all’origine di un fenomeno complesso; ne consegue, perciò, che sia molto difficile per la classe politica del Paese arretrato valutare le opportunità offerte dal ritorno dei propri cittadini, precedentemente emigrati: la natura della politica con cui verrà tentato il possibile reinserimento dell’emigarato che ritorna dipenderà da molti fattori; alcuni di essi saranno totalmente o solo parzialmente indipendenti dallo Stato arretrato, nel senso che essi potrebbero identificati, ad esmpio, nei motivi di crisi in cui versa il Paese ospitante, che potrebbe indurre l’emigrato a scegliere di ritornare in patria. Di solito, lo Stato arretrato d’origine indirizza verso colui che ritorna varie misure pubbliche per un suo reinserimento, molte delle quali saranno imperniate sul mercato del lavoro, al fine di evitare il possibile peggioramento della disoccupazione esistente.

Il numero e le misure adottate per il reinserimento di coloro che ritornano in patria dipenderà da molti fattori: il primo riguarderà il modo in cui il ritorno è percepito da coloro che assumono le decisioni riguardanti le misure da adottare, in considerazione del fatto che il ritorno può essere giudicato desiderabile o meno in funzione della situazione economica esistente e di quella del mercato del lavoro; in secondo luogo, dipenderà dalla capacità dello Stato di disporre delle risorse necessarie per rimuovere tutte le criticità che il ritorno dell’emigrato può dare luogo a livello complessivo del sistema sociale arretrato.

Ciò non è privio di complicazioni per l’attuazione di una politica internazionale fondata sull’aiuto offerto a quei Paesi che maggiormente concorrono ad alimentare i flussi migratori. Criticità, queste, che imporranno la loro preventiva rimozione o la loro attenuazione; tutto ciò suggerisce che anche le politiche finalizzate ad aiutare i Paesi arretrati, nella prospettiva che essi possano limitare i flussi demografici in uscita, potranno determinare effetti utili solo nel lungo periodo; per cui, in quello breve, il problema dell’accoglienza di nuovi migranti continuerà a primeggiare nelle agende politiche dei governi dei Paesi verso i queli i flussi migratori tenderanno di indirizzarsi.

1 Commento a “Il ritorno dell’emigrato nel Paese d’origine e i problemi connessi al suo reinserimento”

  1. Valter Liubi scrive:

    Per quanto mi riguarda posso solo dire che il costo annuale medio degli stranier per gli Italiani è di circa 5.000.000.000 di euro oltre ad altri 4.500.000.000 di rimesse all’ estero, quindi sono un costo secco, aggiungi pure che la loro presenza, fortemente voluta dai padroni, quelli veri, ha controbuito decisamente a distruggere vasti strati della società italiana

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