Sergio Paronetto: “ricostruttore” o “affossatore” dell’Italia?

1 Giugno 2017
Gianfranco Sabattini

 A volte accade che il pensiero e le opere di uomini che hanno contribuito a risolvere i problemi particolarmente gravi del Paese, in momenti difficili quale è stato ad esempio il periodo compreso tra l’8 settembre del 1943 (data dell’armistizio dell’Italia con gli Alleati) e la vigilia della fine delle seconda guerra mondiale, siano lasciti cadere nell’oblio collettivo, come è capitato a Sergio Paronetto; economista e manager dell’IRI.

Paronetto, tra il 1943 e il 1945, è stato uno dei protagonisti nell’opera di ricostruzione dell’Italia devastata dalla guerra, influenzando il pensiero di alcuni importanti “ricostruttori” del Paese: Alcide De Gasperi, Ezio Vanoni, Donato Menichella, Luigi Einaudi; ma è stato anche l’interlocutore di altre importanti personalità politiche, come Palmiro Togliatti, presso il quale, Paronetto, dopo essere riuscito ad avvicinarlo per il tramite dell’amico Franco Rodano, si è fatto interprete delle necessità di salvare il complesso impianto pubblico dell’IRI, organizzato e messo a punto nel periodo pre-bellico da Alberto Benedice.

Segio Paronetto è stato all’IRI allievo di Donato Menichella, che succederà a Luigi Einaudi, nel 1948, al governatorato della Banca d’Italia, assicurando che la ricostruzione del Paese avvenisse col supporto di una sostanziale stabilità monetaria; inoltre, Paronetto è stato amico di Pasquale Saraceno e di Ezio Vanoni, tutti e tre nati a Morbegno, in provincia di Sondrio, ed ha avuto modo di tenere un dialogo continuo con Guido Carli, da quando questi è stato assunto All’IRI nel 1938, sin dopo che il futuro successore di Donato Menichella alla guida della Banca d’Italia ha cessato di farne parte. Nella sua qualità di esperto di problemi economici, Paronetto è stato anche ispiratore di numerosi futuri componenti dell’Assemblea Costituente e collaboratore del capo della Resistenza a Roma, il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.

A sottrarre la figura di Paronetto dal “cono d’ombra” che dopo la morte era valso ad oscurarlo, è stato un recente Convegno (tenutosi nel 2011, in occasione del centenario della nascita, presso la Sala delle Colonne della LUISS Guido Carli) su “Sergio Paronetto e il formarsi della costituzione economica italiana”. Gli atti del Convegno sono stati curati da Stefano Baietti e Giovanni Farese e raccolti in volume edito da Rubettino nel 2012; gli stessi curatori hanno poi scritto, in apertura del volume come introduzione ai numerosi contributi raccolti nel libro, un profilo biografico di Sergio Paronetto, nel quale hanno evidenziato il percorso culturale e professionale, nonché l’impegno civile dell’economista dell’IRI prematuramente scomparso.

Paronetto si è iscritto alla Facoltà di Scienze politiche di Roma nel 1925, dove si è laureato nel 1932, con una tesi in Storia economica, ed ha arricchito la sua formazione con l’adesione, nel 1929, alla FUCI, allora diretta da Giovanni Battista Montini, nel cui magistero Paronetto si riconoscerà per la sua preparazione nel campo della filosofia e della morale. A partire dal 1934, il giovane economista ha iniziato la sua carriera di manager all’IRI, assunto su segnalazione di Pasquale Saraceno, come responsabile della segreteria dell’Istituto, alle dirette dipendenze del direttore generale Donato Menichella. Da subito si è imposto per le sue capacità organizzative, contribuendo alla ristrutturazione delle banche d’interesse nazionale, alla stesura della legge bancaria del 1936, alla trasformazione dell’IRI in ente permanente e alla soluzione di altri importanti problemi relativi al salvataggio delle banche immobilizzate dai crediti inesigibili. Il lavoro ha consentito a Paronetto di maturare una valutazione della precaria situazione generale del Paese, sino a formulare una diagnosi per il suo superamento, nell’ottica – affermano Baietti e Farese – di “una strategia-Paese”.

Il problema maggiore che affliggeva l’economia dell’Italia dell’epoca era quello della promozione del processo di accumulazione di capitale, ovvero del “come avviare, mantenere e rilanciare nel tempo tale processo in Italia”. L’opzione fondamentale è stata rinvenuta nella forma complessiva del sistema, nella sua coesione, nella sua efficienza, “in modo da rendere l’economia capitalistica, lo sviluppo capitalistico, strumento di perequazione sociale invece che di squilibrio”. Sorretto dal magistero montiniano, Paronetto, assieme a Pasquale Saraceno, si è adoperato a ricomporre il dualismo esistente all’interno della FUCI tra il “gruppo montiniano” dei laureati cattolici e il “gruppo gemellino” dei docenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore; l’impegno porterà Paronetto, a partire dal 1940, ad approfondire i presupposti normativi dell’azione umana nella gestione dell’economia, meditando sulle conseguenze della separazione della tecnica dalla morale, riflettendo sull’autonomia dell’analisi sociale rispetto all’analisi economica e sul come neutralizzare le disuguaglianze sociali causate dallo sviluppo del capitalismo, “mettendo l’opera di neutralizzazione a carico dello sviluppo del capitalismo stesso”.

Dopo aver partecipato, nel 1942, alla fondazione della Democrazia Cristiana, nel 1943, su esortazione di Giovanni Battista Montini, nel frattempo divenuto sostituto Segretario di Stato e collaboratore di Pio XII, Paronetto ha promosso e preparato la “Settimana di Camaldoli”, dalla quale è “uscito” il Codice di Camaldoli, una sintesi della dottrina sociale della Chiesa, della quale lo stesso Paronetto è stato l’estensore, recante il titolo: “Per la comunità cristiana. Principi per l’ordinamento sociale”; lo scopo era quello di prefigurare una nuova “costituzione etica, politica ed economica per il Paese”.

Il “Codice” è valso a contestualizzare la dottrina sociale della Chiesa rispetto al governo del Paese del dopoguerra; non è casuale il fatto che lo stesso “Codice” sia stato il riferimento dei democratici cristiani ai lavori dell’Assemblea Costituente. Il convegno di Camaldoli si è chiuso, ironia della sorte, il 25 luglio del 1943 (giorno in cui Mussolini sarà rimosso da capo del governo), giusto in tempo perché, dopo l’armistizio dell’8 settembre, Menichella nominasse Paronetto direttore generale dell’IRI; nomina rifiutata, in luogo della vicedirezione, purché fosse stata condivisa con altro dirigente.

Il tempo libero dagli impegni manageriali Paronetto, dal 1943 al 1945, lo ha destinato all’organizzazione nella sua casa romana di lezioni di economia per tutti i componenti del gruppo di vertice democristiano, con l’intento di convincerli “circa l’utilità di mantenere in vita l’IRI e le imprese con partecipazione dello Stato in vista della ricostruzione – contro il parere di Luigi Sturzo e della Confindustria e, almeno in un primo momento degli Stati Uniti -; e di mantenere in vita la legge bancaria; come pure l’opportunità di un interevento specifico nel Mezzogiorno di sapore roosveltiano, nonché la prospettiva di fare affidamento su un programma di aiuti organizzato dalle potenze vittoriose al fine di consolidare la libertà economica e la democrazia in Italia”. Con la liberazione di Roma nel 1944, Paronetto ha ritenuto concluso il suo ruolo di vicedirettore dell’IRI, rimettendo il mandato ricevuto e orientando il suo impegno al lavoro riguardo alla bozza di riforma dello Statuto dell’Istituto; è morto nel 1945, a soli 34 anni.

Nell’arco di poco più di un decennio, alla morte di Paronetto è seguita quella di alcuni dei principali sostenitori del suo progetto: nel 1954 è morto Alcide De Gasperi e nel 1956 Ezio Vanoni, mentre nel 1960 è cessato il governatorato alla Banca d’Italia di Donato Menichella, sostituito di Guido Carli. Il 1960, concludono Baietti e Farese, ha segnato la fine di un ciclo, i cui pilastri sono stati “quelli utilizzati per il boom italiano”, generando un risultato che gli eredi del lascito paronettiano, militanti nella Democrazia Cristiana, non hanno saputo conservare. Lentamente, ma progressivamente, nella presunzione di poter continuare a conciliare la politica sociale con lo sviluppo del capitalismo italiano, quegli eredi, col consenso di un altro partito popolare, il PCI, non sempre favorevole a conciliare la giustizia sociale e l’equità distributiva con l’accumulazione capitalistica, hanno trasferito sul polo pubblico dell’economia nazionale, imperniato sulla forza portante dell’IRI, tanti “oneri impropri”, da determinarne il collasso.

Per formulare un giudizio complessivo sull’opera di Paronetto non basta limitarsi a considerare quanto egli ha fatto, sul piano del suo impegno nel campo dell’organizzazione del polo pubblico dell’economia, sino alla sua morte; occorre anche considerare il suo pensiero, riguardo al modo in cui il funzionamento dell’economia capitalistica doveva risultare compatibile con la giustizia sociale. A tal fine, va ricordato il “modello teorico” sulle base del quale si possa valutare la concezione paronettiana della politica economica. Al riguardo, è d’aiuto il contributo di Paolo Savona, dal titolo “Riflessioni sul modello economico di riferimento di Sergio Paronetto”, inteso non come modello teorico, ma come modello normativo di politica economica, comparato con quello al quale si è attenuto Guido Carli nella sua azione di Governatore della Banca D’Italia.

L’accostamento delle due concezioni normative della politica economica non è casuale; queste infatti si collocano, sia pure con qualche “forzatura”, all’interno del modello teorico di stampo keynesiano, che, com’è noto, individua il fine della politica economica nella soluzione del problema, denominato da Keynes “problema politico dell’umanità”, consistente nel trovare come coordinare in maniera ottimale tre aspetti della vita sociale: efficienza economica, giustizia sociale e libertà individuale. Secondo Savona, le concezioni della politica economica dei due “grand commis” dello Stato, pur essendo divergenti sul piano delle radici culturali, hanno avuto un punto in comune: quello d’essere considerate al servizio della crescita del Paese in Carli e al servizio del bene comune del Paese in Paronetto.

Savona dà corpo alla diversità tra le due concezioni di politica economica delle quali sono stati portatori i due personaggi, ricostruendo puntualmente, in virtù della sua particolare conoscenza degli scritti di Carli, il modo di pensare e di agire dell’ex Governatore della Banca d’Italia. Seguendo le parole di Savona, per Carli, lo sviluppo dell’Italia “poteva e doveva essere garantito dalla contemporanea presenza dell’iniziativa privata e pubblica che andava tenuta nel ‘bagno del mercato’. Del mercato Carli apprezzava la disciplina che esso impone all’uso delle risorse […]. In Carli la politica fiscale doveva essere usata per perseguire scopi di pieno impiego, sotto vincolo di equilibrio dei conti con l’estero, recependo l’insegnamento keynesiano […]. In caso di azione insufficiente o eccessiva della politica fiscale, il compito che Carli assegnava alla politica monetaria era rispettivamente di integrare le scelte fiscali espandendo l’offerta di moneta o contrastarle con restrizioni monetarie”.

Carli ha tentato di applicare questa concezione di politica economica allorché a partire dal 1960 l’economia italiana è stata destabilizzata dalla “spinta del costo del lavoro al di là della produttività”; fatto, questo, che ha indotto il Governatore, al fine di salvare il processo di accumulazione del sistema-Paese, a trasferire sui prezzi l’eccesso salariale attraverso una maggiore immissione di moneta.

Poiché la sua azione ha sollevato non poche opposizioni, Carli si è dimesso nel 1975, propiziando successivamente, sempre al fine di salvaguardare il processo di accumulazione, un “crescente vincolo esterno”, che si è tradotto nella sottoscrizione del Trattato di Maastricht perima (1992), e nell’adesione alla Moneta Unica Europea poi (2000), comportando per l’Italia la cessione della sovranità monetaria e l’esercizio di quella fiscale entro limiti stabiliti. La concezione di politica economica di Carli è stata, quindi, di natura rigorosamente economica e compatibile con un modello teorico di riferimento di stampo keynesiano.

La concezione di politica economica di Paronetto è stata completamente diversa da quella di Carli; essa ha mutuato la sua origine dal Codice di Camaldoli, le cui direttive erano direttamente riconducibili alla tradizione della dottrina sociale della Chiesa; ciò ha comportato che la concezione di politica economica di Carli fosse di tipo descrittivo, mentre quella di Paronetto di tipo prescrittivo. In conclusione, entrambi hanno rinvenuto nell’intervento pubblico e nel mercato due necessarie condizioni per supportare la crescita e lo sviluppo, con una propensione più favorevole a un mix di iniziativa privata e pubblica in Carli, e più favorevole all’iniziativa pubblica in Paronetto. Entrambi hanno considerato la distribuzione del reddito una “variabile centrale” per il “buon funzionamento” del sistema economico; ma in Carli la forma della distribuzione del reddito era suggerita dalla necessità di salvaguardare il processo di accumulazione, mentre in Paronetto era suggerita dal fine di realizzare una giustizia sociale che non fosse plasmata dal mercato e dalle leggi dell’economia.

Per Baronetto, quindi, la politica economica non aveva tanto l’obiettivo di salvaguardare il processo di accumulazione, quanto quello “di creare un assetto istituzionale dei rapporti economici tra Stato e privati” che avesse favorito lo svolgersi il processo di crescita e sviluppo del Paese “equo e solidale”: dunque, non la continuità del processo di accumulazione, ma l’equità e la giustizia sociale, rappresentava ciò che contava perseguire. Questo fine mutuava la sua origine da quanto era stato codificato nel Codice di Camaldoli; quest’ultimo nel paragrafo concernente la “Vita Economica” prescrive che la proprietà dei mezzi di produzione può essere usata secondo le decisioni del legittimo proprietario, ma a condizione che il loro uso risulti in armonia con il perseguimento del “bene comune”; che la possibile proprietà pubblica di una parte dei mezzi di produzione non debba degenerare in un non conveniente capitalismo di Stato; che la libertà economica, pur necessaria, all’ordinato svolgersi del processo produttivo, debba essere esercitata in modo conforme alla giustizia sociale; che un regime economico “bene ordinato” non possa sorgere dal gioco spontaneo delle forze economiche, ma solo attraverso un intervento regolatore dello Stato, finalizzato al “bene comune”.

Anche se il Codice di Camaldoli prescriveva che il controllo pubblico di una parte dei mezzi di produzione non dovesse implicare pericolose forme degenerative del governo del sistema economico, gli eredi del lascito camaldolese non hanno avuto remore nello “spingere il settore pubblico” oltre il limite del giustificabile, mostrando nella maniera più assoluta il disinteresse a conciliare gli interessi privati con quelli sociali e l’incapacità di elevare gli interessi privati al “compimento di un dovere sociale”; anzi, essi hanno agito nel convincimento profondo che il modo migliore per utilizzare le risorse del Paese fosse quello di renderle di proprietà pubblica.

Tutti sanno quale epilogo ha avuto il processo di espansione del settore pubblico oltre i limiti giustificabili; tale settore, con l’IRI quale asse portante, trasformato lentamente in un vortice dissipativo di risorse, è stato liquidato; ciò ha determinato la fine di un sistema di economia pubblica che, al di là del bene e del male, sia pure in presenza di un governo a conduzione democristiana dell’economia, aveva consentito la ricostruzione del Paese dopo il secondo conflitto mondiale e la realizzazione di un sistema di sicurezza sociale cui si deve il merito di aver assicurato una giustizia sociale che ha consentito la modernizzazione del sistema-Italia in condizioni di stabilità e di pace sociale.

Ciò che è accaduto dopo la distruzione del sistema di economia mista è nell’esperienza di tutti; il Paese si è inserito in una prospettiva evolutiva negativa, dalla quale, anche per il sopraggiungere di motivi esogeni di crisi, non riesce a sottrarsi, conservandosi in uno stato di difficoltà che lascia poco sperare in un futuro prossimo migliore. Ha una qualche responsabilità Baronetto, rispetto a quanto è successo a partire dall’inizio degli anni Sessanta, dopo la scomparsa dei “ricostruttori” del Paese, per iniziativa di coloro che, d’ispirazione cristiana, hanno partecipato al governo del Paese?

Responsabilità diretta, sicuramente no; ma pensando al modello di politica economica che egli ha concorso ad affermare, solo nella speranza che potesse essere interiorizzato indelebilmente da parte dei suoi eredi politici, è stata una pura illusione. Non si può pensare di salvaguardare la conservazione delle risorse economiche e la continuità del processo di accumulazione di un sistema produttivo, prescindendo dalla necessità di garantire il rispetto delle leggi del mercato, senza subordinare il rispetto di tali leggi al perseguimento prioritario del “bene comune”. Ubbidire unicamente al “mandato di una volontà pubblica”, subordinata a principi unicamente morali, senza sottoporlo al rispetto di un qualche vincolo obiettivo, è inevitabile che il contenuto del “mandato” sia esposto al rischio, puntualmente verificatosi nel caso dell’esperienza italiana, di un suo stravolgimento, realizzato su basi strettamente privatistiche.

Per certi versi, le due concezioni di politica economica potrebbero sembrare entrambe riconducibili ad una prospettiva di governo del sistema sociale secondo una prospettiva politica di natura socialdemocratica; in realtà, solo quella di Guido Carli, proprio perché riconducibile alla ratio di un modello teorico dell’economia derivato dalla “rivoluzione keynesiana”, appare compatibile con un suo inquadramento in una prospettiva socialdemocratica; una prospettiva, per intenderci, quale quella che ha ispirato la svolta operata nel 1959 dai socialdemocratici tedeschi a Bad Godesberg, secondo una scelta netta di campo per la democrazia, per il mercato e la libertà di scelta. Ciò perché nella concezione della politica economica di Carli, il ruolo dello Stato, rimanendo ancorato alla tradizione liberale, agli individui, come sottolinea Flavio Felice (“La scuola di Friburgo, il piano Berveridge, il Codice di Camaldoli”), è finalizzato ad assicurare la possibilità di “perseguire il bene a partire dalla peculiare visione che essi hanno di ciò che è ‘bene’” e, nel contempo, a preservare la stabilità economica e l’ordine sociale nell’interesse di tutti, evitando una deriva anarchica del mercato.

Al contrario, nella concezione della politica economica di Paronetto, il ruolo dello Stato, secondo le prescrizioni camaldolesi, è quello di stabilire il bene comune, da perseguirsi a scapito della libera capacità decisionale dei singoli e di un funzionamento del mercato che, pur regolato, possa recepire le segnalazioni originanti dalle libere determinazioni individuali. In sostanza, la concezione delle politica economica di Carli è di tipo socialdemocratico, in quanto ancorata alla tradizione liberale; mentre, quella di Paronetto, essendo di tipo dirigistico, è estranea alla tradizione socialdemocratica, in quanto allo Stato è assegnato un ruolo volto al soddisfacimento di ogni aspetto della vita sociale ed economica; ruolo, questo, proprio delle società integraliste, anche se non autoritarie.

 

 

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