Si fa presto a dire “violenza”

2 Gennaio 2016
hannahwilkeshiftingthegaze
Giovanna Coi

Nel 2014 in Italia sono stati commessi 152 femminicidi. Non sembrerebbe un dato preoccupante, ma può diventarlo se si considera che nel 1990 solo l’11,1% delle vittime di omicidio era donna; oggi, quasi un terzo. Il 77% avviene in ambito familiare. Nel 90% dei casi, l’omicida è un uomo. Nel 69% dei casi, è il partner o ex-partner.

I numeri, freddi e impersonali, dipingono un quadro della situazione ormai inaccettabile. Quotidiani, telegiornali e salotti televisivi ci propongono questi casi uno dopo l’altro, mostrando immagini delle donne ammazzate, foto della famiglia, interviste di vicini di casa stupefatti per l’accaduto. Quando il colpevole è il marito, il fidanzato o l’ex si cerca sempre di trovare un perché per il suo folle gesto. Era geloso, aveva perso il lavoro, lavorava tanto, non poteva sopportare la fine della relazione, la amava troppo. Allo stesso tempo, s’inizia a scavare ossessivamente nella vita della vittima, per trovare una colpa, una macchia che possa rendere quest’omicidio un gesto sbagliato, sì, ma in fondo umano. Magari lo tradiva, lavorava troppo, spendeva troppo, voleva più indipendenza, voleva lasciarlo, non voleva parlargli un’ultima volta per sistemare le cose. In questo modo, ogni singolo episodio, vivisezionato con cura maniacale, ci offre uno spaccato di vita familiare in cui lui, in qualche modo maltrattato o provocato, finisce per perdere il controllo dei suoi istinti primordiali e delle sue emozioni e la uccide. Non per niente si parla di omicidio passionale.

Il modo in cui parliamo delle cose, descriviamo gli eventi, definiamo i fenomeni dice molto sulla società in cui viviamo. Questa strategia mediatica, che dovrebbe sensibilizzare sul problema della violenza sulle donne, finisce in realtà per avere l’effetto contrario, rendendo l’omicidio un fatto normale e talvolta quasi giustificabile. E fa dimenticare che il femminicidio, fin troppo spesso, è solo l’ultimo passo di una lunga serie di abusi e violenze che la donna subisce senza riuscire a reagire o senza ricevere tutele adeguate.

Abbiamo spesso sentito la classica storia della famiglia violenta, del “primo schiaffo”, della “prima spinta” che dovrebbe essere anche l’ultima e invece degenera in episodi molto più gravi. La domanda più frequente è “Perché se ne va? Perché non lo lascia?”. Non è facile. Non se hai paura che lui ti verrà a cercare, se andrai via di casa. Non se hai dei figli, che non potresti mai lasciare con una persona così violenta. Per i bambini si cerca di non abbandonare tutto, credendo che una famiglia infelice sia comunque meglio di una separazione.

Anche la violenza economica è un fattore da considerare. Quando una donna è costretta a stare a casa, le viene impedito di lavorare e di avere un reddito autonomo e il suo partner decide quanto può spendere, come può pensare di rifarsi una vita senza di lui? Non può rimanere in un rifugio antiviolenza per sempre, ma non ha i soldi per vivere da sola o per mantenere i figli. La violenza, soprattutto in famiglia, diventa una trappola, fatta di soprusi, limitazioni della libertà, umiliazioni e insulti che si alternano a scuse infinite e a promesse di amore eterno e “Non lo faccio più, ti giuro, ho perso il controllo”. La vittima inizia a perdere la fiducia in se stessa, si sente totalmente dipendente da questo meccanismo perverso, crede di meritarlo, o che lui cambierà, che è tutto sotto controllo. Fino a diventare un altro nome tra le colonne della cronaca nera.

La violenza, prima che stupro, prima che femminicidio, è una violazione di diritti e di libertà. Ciò significa che anche tutti i piccoli divieti che ogni donna apprende e pratica inconsciamente – non poter scegliere liberamente il proprio abbigliamento, non andare in giro da sola la notte, non dimostrare troppa disponibilità, non essere troppo indipendente o assertiva, sopportare battute oscene, non reagire allo schiaffo o all’insulto – sono tante microviolenze che ci vengono imposte ogni giorno.

E se anche una singola donna si sente oppressa da questo sistema, allora tutte queste azioni tristemente quotidiane non sono normali: significa che ciò che subisce è violenza. Se la violenza sulle donne è, prima di tutto, una violazione dei diritti, allora diventa, in quanto tale, una questione politica, che i nostri rappresentanti dovrebbero impegnarsi ad affrontare. Affinché ciò sia possibile, è indispensabile la consapevolezza che la violenza di genere sia considerata un problema sistemico, che riguarda il substrato culturale della nostra società e pertanto non può essere risolto con misure coercitive e repressive, ma solo lenito nelle sue forme più evidenti.

Purtroppo, al giorno d’oggi, questa coscienza sembra mancare. La violenza sulle donne, insieme a molti altri problemi, è stata etichettata come emergenza e viene pertanto affrontata a suon di decreti legge e proclami indignati, dai governi di qualsiasi parte politica. Anzi, spesso è solo uno strumento di campagna elettorale, un pretesto per parlare di sicurezza e sbraitare sugli immigrati. La stessa “legge contro il femminicidio” del 2013 è un provvedimento d’emergenza, attuato sull’onda dell’emozione e dei solleciti dell’opinione pubblica, che agisce in modo limitato e parziale, sempre con la parola d’ordine “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.

Punire, aumentare le pene non basta più. Occorre educare tutti, uomini e donne, alla non-violenza, partendo dall’infanzia. L’azione a livello politico è presupposto essenziale per eliminare questa condizione di disuguaglianza che, ancora nel 2015, vede le donne vittime semplicemente in quanto donne, perché non rispettano gli standard di genere, non si adattano al proprio ruolo tradizionale e vogliono affermare la propria identità. Gli stereotipi di genere, che sono alla base della cultura della violenza, danneggiano tutti noi: l’uomo che non può esprimere le proprie emozioni, la donna che deve scegliere tra famiglia e lavoro, l’omosessuale etichettato come effeminato, il transgender che fa scandalo se esce per strada.

Non è solo “roba da donne”.

Nell’immagine: Shifting the Gaze: Painting and Feminism

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