Una lunga bella irgontza

1 Marzo 2012

Natalino Piras

Si dice in sardo: “Bella irgontza!”, bella vergogna: per un’azione malfatta, per un pensiero esternato  che fa fare una brutta figura. È un sentimento che attanaglia chi lo prova, che lo fa stare insonne. La vergogna, provare vergogna, è il primo grado della resipiscenza, quella che porta a una visione più etica delle azioni da compiere. Cosa da poveri.
Io non ho mai sentito un ricco dichiarare vergogna per la propria ricchezza. È forse per questa assenza di sentimento della vergogna che non ci sarà mai un buongoverno se il governo di un paese, di una città, di una nazione, è nelle mani dei ricchi.  La stessa tipologia di quelli che, dice il Vangelo, “è più facile che un cammello passi nella cruna di un ago che un ricco nel regno dei cieli”. Cose da credenti.
Eppure il ministro della Giustizia Severino, di religione cattolica che dovrebbe avere il Vangelo come base, di famiglia ed educazione borghese, dice di non provare vergogna  per il suo alto reddito: circa 7 milioni di euro l’anno di cui 3 se ne vanno in tasse.
A conferma di come un ricco non abbia vergogna né della sproporzione di guadagno e neppure delle parole che questo guadagno legittimano. O, se si ha vergogna, è cosa da circuito interno, tutto cattolico-gesuitico: anche voi dovete pagare l’Imu, anzi no. Dice: forse che noi non facciamo scuola anche per i poveri? Dipende da che retta uno può permettersi di pagare. Io, e come me una moltitudine, ho sempre provato vergogna di essere povero, una bella irgontza. È sempre stata una tara che ha pesato sui comportamenti e sulle relazioni. Per me hanno pagato povere rette in poveri collegi cattolici. Resto cattolico, di parte povera. Ho uno stipendio. Sono un cittadino che ha pagato e paga le tasse, sempre. Mai nessuna fuga.
Sono cattolico come la Severino ma non ho nessun capitale accumulato che serva a pareggiare il divario tra lavoro e salario, tra prestazione d’opera e stipendio, tra reddito e tasse. Quando è capitato che al reddito fisso si aggiungessero le quattro lire o il mezzo euro per questa o quella scrittura, per questa o quella conferenza, è scattata l’aliquota a mio svantaggio. Una beffa.
Ho chiesto prestito bancario, a tasso non agevolato, per riuscire a pagare regolarmente le tasse. Una bella irgontza che non so se il ministro Severino o chi per lei, se il premier Monti o chi per lui,  abbiano mai provato.  La logica del ricco, il demone del guadagno, l’ostentazione di opulenza passano sopra il sentimento religioso che può accomunare il ricco e il povero. Si dice in sardo: “a faeddare a bucca prena”, parlare con la bocca piena.
Così parlano i bocconiani al governo. Il loro ragionare di pancia ottunde giustezza di visione e di programma. È una cosa da ricchi. Lo vuole la logica del capitale che è tale, monopolio di una ricca oligarchia, proprio perché permette ai capitalisti e a chi il loro progetto attua, di parlare invece di tacere:  sapendo di avere tre pasti garantiti ogni giorno e surplus. È questo surplus, immenso accumulo monetario, che detta arroganza, la mancanza di vergogna necessaria. Manca al ricco la cattiva coscienza come organizzazione del pensiero critico. Loro governano e noi siamo popolo governato. 
Un  popolo governato di occupati e disoccupati in numero sempre più vasto. Quelli che percepiscono salario e stipendio sono agli ultimi posti in Europa: come salario e stipendio. Io, stipendiato, posto fisso ma mie figlie e una immensa moltitudine come loro no,  provo vergogna del mio stipendio. Era povero. Continua a restare tale. E guardo alla gente di governo con il sentimento di non-speranza che permette di inquadrarli per quello che veramente sono: dei bravi tecnici al servizio della logica del ricco. Il sentimento e le ragioni della non-speranza non attribuiscono nessuna valenza di mutazione ai ricchi.
Mai un capitalista, un industriale forzerà il proprio progetto,  istituirà linea di tensione verso un tipo di società che se non all’abolizione tenda perlomeno a una riduzione della sperequazione di reddito, al fatto che il tuo guadagno non sia poi così distante dal mio. La Storia insegna.
Stando al secolo scorso e al primo decennio di questo,  due esempi valgono per molti. L’esperienza di Ivrea del ricco  Adriano Olivetti, una fabbrica di eguali negli anni Sessanta, una osmosi tra intellettuali e operai, è stata di breve durata. E sulle sue macerie ha alimentato molto berlusconismo, quelli che lo erano in pectore e quelli che sono passati alla nefasta visione del mondo berlusconiana dopo aver tradito, senza provarne vergogna, l’idea della fabbrica olivettiana. L’altro esempio dice di una contraddizione in termini. Il ricco Einaudi, con tutta la tipologia negativa del ricco, un senza vergogna, che si fa editore di sinistra, rigida ideologia con tratti pure marxiani  che impone un modello. Molti buoni libri poi sommersi da molta produzione di fango, di non vergogna, di una letteratura al servizio della visione del mondo come ricchezza e come sopraffazione. Berlusconi è diventato padrone della Einaudi.
Come dire che i ricchi  continuano a restare tali perché, sostiene don Milani, il povero conosce un parola, mille il padrone. Una situazione di fatto che perpetua il sentimento di non vergogna dei ricchi quando sono al governo. E  dei poveri o della classe media quando a questa imposizione della ricchezza sono funzionali. Intanto ci divora la crisi della povertà. Ne siamo mangiati ogni giorno. Il povero ha giorni lunghi fa dire  Giovanni Verga a un personaggio dei “Malavoglia”.
Proprio così, ancora cento e passa anni dopo. Una bella irgontza.

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