Teulaccias

24 Febbraio 2012

Marcello Madau

E’ morto, con Giovanni Lilliu, l’episodio più intenso del Novecento dell’archeologia sarda, il suo passaggio verso la modernità. Ci mancherà.
Pochi sanno che Lilliu si dedicò definitivamente alla preistoria anche perché negli anni Trenta le leggi razziali cacciavano gli ebrei pure dalla Sardegna, come fecero con il grande archeologo Doro Levi, di stanza a Cagliari: infatti la tesi di specializzazione di Giovanni Lilliu era sull’archeologia fenicio-punica (Le stele puniche di Sulcis, pubblicata nei Monumenti Antichi dei Lincei del 1944: quarant’anni più avanti, in tutti i sensi, delle patinate monografie sulle stele fenicie e puniche della scuola di Sabatino Moscati). Lo stesso anno di uno straordinario articolo sui rapporti fra mondo nuragico e mondo fenicio punico uscito negli Studi Etruschi (Rapporti fra la civiltà nuragica e la civiltà fenicio-punica in Sardegna). Pochi anni dopo usciva Tracce puniche nella Nurra (Studi Sardi, 1948).
Con gli anni cinquanta, ecco Su Nuraxi di Barumini e, a seguire, le grandi sintesi sulla ‘Civiltà dei Sardi’, su ceramiche, bronzi, sculture.

Ha percorso tutti i gradi della carriera scientifica, le direzioni scientifiche e di scuola non si contano, con impegno mediterraneo (in particolare Corsica e Baleari), sino a diventare Accademico dei Lincei. Lo sentii fare un intervento letteralmente sovversivo contro lo Stato, a Bonorva (anni Novanta mi pare, ho scordato l’anno ma poco importa). Mi disse che al massimo l’avrebbero messo in carcere, che aveva poche pretese e che nessuno avrebbe potuto più rovinargli la carriera.
Negli ultimi anni associazioni e istituzioni lo tiravano per la giacchetta. Gli davano continuamente premi, talora grotteschi. Gli organizzavano continue celebrazioni: mi è capitato di vedergli fare le corna. Ma lui accettava di buon grado, sapendo dell’ineluttabilità dello strapaese.

La sua attività scientifica, notevolissima per quantità e qualità, lascia tracce che ci toccherà esplorare compiutamente: a partire dalle sue note, a volte più dense dello stesso scritto. Perché in un articolo lasciava sempre aperte molte porte, suggestioni, solo in parte esplorate eppure presenti.
Come se si attenesse rigorosamente ai risultati dell’osservazione e dei dati disponibili, ma senza rinunciare ad avanzare tutto il ventaglio possibile delle ipotesi e delle suggestioni. In questo si caricò una fatica gigantesca, quella di una solitudine scientifica che, quasi cristianamente, si faceva carico dei mali (le assenze) del mondo (scientifico).
Tale solitudine si incrociò negli anni Settanta con una nuova linfa cagliaritana, quando la scuola sarda da lui diretta venne a vivificarsi dell’apporto ‘classico’ di eminenti antichisti come Mario Torelli e Fausto Zevi – e, negli studi demo-antropologici, di Alberto Maria Cirese -. Così il magistero dell’archeologo di Barumini si esercitò in un contesto di altissimo livello nazionale e internazionale che fece bene alla nostra isola.
Nacque un’importante e nuova generazione di studiosi destinata ad innovare la ricerca archeologica isolana ed a produrre nuove e significative letture.
Quasi a simbolizzare tale incontro, lo studio della navicella nuragica proveniente dagli scavi al santuario di Hera dell’etrusca Gravisca, diretti da Mario Torelli.
Lilliu, in buona e giovane compagnia, si relazionò vivacemente e con creatività con nuovi giovani archeologi come Raimondo Zucca, Carlo Tronchetti, Paolo Bernardini. Con essi – attenti studiosi non solo dei dati archeologici ma anche degli aspetti stilistici ed iconografici di tutto il mediterraneo – gli scambi furono proficui.
Nella sua sterminata produzione, leggibile nei sei volumi rintracciabili nella Digital Library della Regione Sardegna (cercate in questo link), veri e propri capisaldi della preistoria sarda furono lo scavo stratigrafico del Nuraghe di Barumini, gli studi sui bronzetti nuragici, con la prima divisione tipologica, i testi sulle statue di Monti Prama (datate da lui all’ottavo secolo a.C.), quello sull’arte preistorica (in particolare le statuette femminili del neolitico).
Ma un altro vecchio articolo degli anni ‘40, Sardegna isola anticlassica (Il Convegno, n. 10, 1946), fu una bella ventata di maestrale: ecco la sua Secessione, con i segni artistici del territorio dalla preistoria al Novecento, la critica a Winckelmann. Un magnifico saggio, che influenzò decenni di storia dell’Arte sarda e oggettivamente si apparenta agli scritti sul mondo etrusco ed italico di Bianchi Bandinelli.

Eppure l’aspetto che più di tutti ho ammirato in Giovanni Lilliu, che ha lasciato l’isola dopo novantotto anni dei quali una settantina a occuparsi di ‘teulaccias’ (‘tegolacce’), come gli rimproverò al momento della scelta la famiglia, è stato il legame fra attività professionale e impegno sociale, fra la vicenda umana e sociale nuragica e la modernità.
Intervenne nelle politiche di tutela del paesaggio con nettezza. Un ex-democristiano ex-giovane turco diventato progressivamente uno dei più feroci critici dei danni inferti dal liberismo al territorio. Schierandosi contro il Master Plan della Costa Smeralda (mentre il tanto corteggiato Movimento dei Pastori, appoggia le speculazioni di Caltagirone e Marcegaglia a Capo Malfatano contro la resistenza dell’ottantenne Ovidio Marras), contro il sacco del colle di Tuvixeddu, falsari e trafficanti internazionali. Infine, il più vero difensore della professione di archeologo, con la sua denuncia dello scandalo dei cantieri archeologici a fondo sociale della Regione Sardegna diretti da non archeologi.
La questione storica e inevitabilmente politica più sollevata da Lilliu fu quella della cosiddetta ‘costante resistenziale.’ Secondo Lilliu dalla sconfitta nuragica a opera dei Cartaginesi entro la fine del VI secolo a.C. si formarono, attorno agli eredi irriducibili di tale civiltà e particolarmente nelle Barbagie, un nucleo e una cultura di resistenza arrivati ai giorni nostri e oppostisi, secolo dopo secolo, alle tante colonizzazioni.
Temi di estrema delicatezza, destinati anche a condizionare il dibattito storico-politico su presente e futuro.
Certamente i sardi che ripiegarono nell’interno e nelle montagne non furono le “belle aristocrazie nuragiche” (almeno in parte impegnate a concedere terre e miniere a fenici e cartaginesi, a integrarsi nelle loro città, o a cercare fortuna in Etruria). Ma quei resistenti ricordati dalle fonti antiche (Diodoro Siculo e Pausania), altri ceti nuragici, ci furono certamente.
In ogni caso l’aver cercato di stabilire una relazione fra l’osservazione archeologia, la storia passata e quella attuale fu di eccezionale importanza.
Lilliu divise i sardi collaborazionisti da quelli resistenti con accenti non sempre condivisibili, conditi da qualche frase molto grave e davvero inaccettabile: come nell’introduzione alla Sardegna fenicia e punica di Ferruccio Barreca (edita da Chiarella nel 1974), dove qualificò il territorio metropolitano sardo dei tempi di Cartagine come “più facilmente controllabile e disposto alla collaborazione nella spinta del prevalente fattore economicistico congenito al semita d’ogni parte e d’ogni tempo’.
Vent’anni dopo Lilliu mi disse di aver usato parole proprio sbagliate…
Sicuramente il problema non fu il collaborazionismo delle zone conquistate, o un qualche destino mercantile semita, quanto la diversa natura sociale ed economica delle aree e delle forze presenti: quelle agricole e costiere più facilmente conquistate e integrabili nel nuovo modello (molte aristocrazie nuragiche si inurbarono, nelle principali corti nuragiche apparivano coppe simposiache fenicie, greche ed etrusche), quelle montanare meno toccate dalla conquista e dal modello stesso. Nessuno può negare che vi furono diverse Sardegne, aree economiche molto differenziate;  le resistenze e le integrazioni, o semplicemente le assenze, non furono tutte eguali.

Il fenomeno, comunque lo si esamini partitamente, fu di lunga durata, con lo straordinario filo rosso delle lotte confinarie registrate negli archivi di Roma, degli episodi di pirateria ricordati da Strabone, delle resistenze ai bizantini, a re e papi di ogni epoca. Arrivando ai Sinodi dal Seicento in poi, alla Sacra Inquisizione inferociti contro le tradizioni religiose e ludiche dei Sardi, irriducibili almeno sino alla conquista catto-piemontese dell’Ottocento. Ma ancora nel Novecento i parroci poco rispettosi della Comunità venivano cacciati dai paesi ‘‘a cadd’ ass’ainu sonendeli sos copertores” (a cavallo dell’asino, in arcione alla rovescia, con due ali di gente per strada a suonare i coperchi delle padelle. Charivari purissimo.).
Lilliu, fervente cristiano e nel crinale fra autonomismo e indipendentismo, prendeva le distanze da tutto ciò. Definiva Papa Gregorio Magno, il comandante militare e la corte imperiale “le tre autorità della colonizzazione messe insieme”; arrivando a dire, su tutta la vicenda storica dell’isola che “per i secoli e ancor oggi l’esperienza cristiana e cattolica delle popolazioni dell’interno dell’isola è andata sempre per “missioni”, ossia per un seguito di acculturazioni autoritarie (…)” .

Il bisogno di universalismo, che lega al suo cristianesimo, si permeava di valori anticapitalistici (scrisse ”mi oppongo al taylorismo e al consumismo”) radicati nelle origini contadine della Marmilla, con orgoglio ‘barbarico’ e ripulsa piena verso una civiltà che consuma l’uomo e l’ambiente, senza sosta.
Nel suo invocare la “necessità di un’archeologia ‘integrale’ per la storia ‘totale’ il cui centro, senza rimuovere la materia, è sempre l’uomo al di là delle astratte divisioni di tempo e di spazio” ha costruito la sua battaglia per la polis.
Leggeremo ancora dei suoi scritti, e potremo criticarli, come lui – primo anche in questo – faceva sui propri errori scientifici. Ma il segno più rilevante che ci ha lasciato è il legame fra ricerca scientifica e l’impegno civile, la coscienza della sua inscindibilità.

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